In faccia al destino - 13

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da Berlino, Guido cominciò a scimiottare il cavalier Fulgosi e a
inventar su di lui aneddoti scandalosetti.
— Ma Guido! ma Guido! — Invano Marcella cercava trattenere il narratore
per la lubrica china.
A un certo punto, chiesi:
— Che fa Anna Melvi?
— Anna studia il canto e impara dal cavaliere le regole dell'alta
_coquetterie_, perchè il cavaliere vuol lanciarla lui, tra le quinte.
Le irregolarità Anna le sa da un pezzo: gliele insegnarono Roveni e
Minguzzi.
Fu la sola volta che, presente la moglie, a Guido scappò di bocca il
nome di Roveni; a udir il quale apparve una fugace impressione avversa
nel soave volto di Marcella.
Essa intanto ripeteva: — Non gli dia retta! non è vero niente!
— È verissimo! Il cavaliere dava lezioni a Anna in casa sua, in casa
della sua signora. Ma l'altro giorno egli osò.... permettere ad Anna
di stirargli un baffo, e apriti Cielo! La signora Fulgosi (Guido
ne imitava le smorfie) giurò che se Anna tornava in casa sua, d'una
gentildonna come lei, la lancerebbe anche lei: ma dalla finestra!
— E Pieruccio?
— Tra pochi mesi Milano lo vedrà ufficiale. Sarà uno spavento in
Galleria!
Guido s'alzò per contraffare il tenente Fulgosi a passeggio in Galleria.
E il marmocchio faceva risatine e si provava di nuovo a dire: —
_Tivovi_. — Finchè egli cominciò a nicchiare; eppoi, a pena in braccio
alla cameriera, a piangere.
Marcella si alzò per portarlo a dormire.
— Dunque Moser?... — chiesi subito a Guido.
— Non c'è che dire! Moser è in cattive acque! — Ma scorgendomi
addolorato. Guidò cercò attenuare: — Io però domando e dico: c'è
proprio da disperarsi? da avvilirsi? da sospirare come fa Marcella?
piangere? Benedetta donna! Non capisce che i lagni e i sospiri a me
mi vanno alla testa, e che se debbo pensare sempre a lei non posso, di
coscienza, esercitare la professione!
Una risata; indi riprese:
— Siamo giusti! Quanti non sono gl'industriali che falliscono? Invece
son pochi quelli che, come Moser, offrono il 60 per cento ai creditori.
Mio suocero sarà stato un pasticcione....
Volli protestare.
— Galantuomo sì; ma pasticcione! Galantuomo sì; ma minchione! Un altro
avrebbe intestato i beni nella moglie per mettersi al sicuro.... Lui,
no. Così tutto andrà venduto....
— Tutto? — esclamai a questo, ch'era il colpo più forte.
Guido, indovinando il mio pensiero recondito, confermò:
— Anche la villa....; per dare il 60 per cento ai creditori.
Anche la villa! Impossibile! Perdere il luogo di dove egli, Claudio,
attingeva l'energia della sua vita? dove soltanto egli trovava conforto
e riposo? E Ortensia? Staccarla di là, Ortensia!...
— Il guaio più grande non è questo — proseguì l'amico, che nel suo
egoismo e ottimismo pensava prima di tutto a sè stesso. — Il guaio
più grande sai qual è? Mio padre è rimasto scottato più di tutti ed è
feroce anche contro di me e Marcella. Ne abbiamo una bella colpa noi se
Moser l'ha ingannato!
— Moser — protestai di nuovo — ingannare? Eh via! La buona fede di
Claudio è al di sopra d'ogni sospetto.
— Concedo — rispose Guido. — Ma con l'affare di Novara, l'anno scorso,
mio suocero lusingò troppo mio padre; e mio padre ha fatto la figura
d'imbecille a credergli. L'affare invece era magro; e _crac_!... Dicono
che si sarebbe potuto aggiustare ogni cosa con la società....
A questo punto l'amico ristette d'improvviso, come chi s'accorge di
correre a un inciampo.
— Perchè non si è fatto la società?
— Eh! i creditori ne son stati dissuasi da Roveni, sembra.... Dico
sembra, perchè è tutto un pasticcio! Roveni sarebbe creditore anche lui
di Moser, ma, viceversa, avrebbe cercato lui il suo proprio danno....
Perchè? Ci capisci niente, tu?
— Forse.... per vendicarsi di Ortensia?
Allora Guido non si sforzò più a dissimulare.
— Uhm!; forse il no di Ortensia gli brucia più del danno. Punf! paf!
Ortensia ha fatto male a urtarlo, il padrone del mondo!
Io tacevo. Pensavo se mi fossi ingannato interamente a giudicar bene
Roveni, o se piuttosto un uomo di tal tempra si fosse mutato di bene in
male per l'ostacolo che aveva incontrato, più forte della sua volontà
e della sua forza.
Guido continuò:
— Basta! Speriamo ancora che i creditori si accomodino; che Roveni
non s'opponga....; ma per me, io vorrei prima di tutto che Marcella
rassomigliasse un po' meno a.... sua madre; prendesse un po' il mondo
come viene.... Bevi, Sivori!
— E Ortensia?
Avevo compreso nel pensiero di Learchi che il termine di confronto a
Marcella era stato Ortensia, non la madre.
Ortensia, venuta pochi dì innanzi a Milano con Claudio, aveva
rimproverato Marcella di non saper piegare il suocero al concordato dei
creditori....
(Anche Learchi padre, dunque, ci si opponeva!)
— Una scena, mio caro! Marcella ha pianto tanto! Ma, francamente,
quella ragazza è così apprensiva, così.... fantastica! Esagera
tutto.... Uf! Non nego, io, che debban essere in angustie, lassù!
Ma.... Siam sempre lì; che ci si guadagna ad angustiarsi?... Bevi,
Sivori!
Invece di bere io chiedevo altre spiegazioni.
— Se andassi tu a Valdigorgo? — disse Guido. — Ti chiariresti di tutto;
faresti bene; li consoleresti.
Marcella rientrava; e il marito, a voce alta, perchè ella non si
adombrasse, die' una svolta al discorso.
— Anche in commercio ci vuol fortuna! Ecco tutto! Come in medicina.
Vedi? io non conosco medico più sfortunato di me! I miei clienti si
spiccian tutti in pochi giorni: o di là, o di qua; a gran velocità
guariscono o muoiono. Merito mio? Ma che! Io anzi avrei bisogno di quei
bei casi che durano mesi e mesi; non tanto per imparare, s'intende,
quanto per diminuire i sospiri e i vaglia di mia madre. Eppure,
sfortunato come sono, non mi dispero io!
.... Esortai Marcella ad ascoltare la sana filosofia di suo marito e le
promisi che l'indomani sarei andato a Valdigorgo. Marcella mi ringraziò
più con gli occhi che con le parole.


VII.

Mentre la carrozzella mi trasportava dalla stazione di Valdigorgo a
Villa Moser, poco dopo il meriggio, io cercavo prepararmi al penoso
incontro con Claudio e all'incontro desiderato e temuto con Ortensia.
Dagl'ingarbugliati discorsi di Guido non avevo chiaramente compreso
quel che potessi fare a pro di Moser; tuttavia avevo inteso abbastanza
da rammaricarmi di non esser ricco e di non poter rendere il mio
intervento ben più profittevole. Se io avessi consumati gli anni
migliori della mia giovinezza a guadagnare, Claudio ora non sarebbe
stato alla mercè di amici venali! Invece ero vissuto quasi soltanto con
il reddito del podere de' miei vecchi, affittato al Biondo; uomo onesto
ma non abile forse a trar dalla terra tutto il frutto che poteva dare.
Vendendo quel po' di roba, che mi resterebbe? La professione che avevo
non curata sempre; ripresa da poco per disperazione o per necessità!
Immaginare se Claudio permetterebbe simile rinuncia! Ma al pensiero di
Ortensia cedeva ogni difficoltà: per risparmiarle dolore affronterei
anche la miseria, con o senza il permesso di Claudio!

La strada dilungava cinerea sotto il cielo caliginoso; non incontravamo
che qualche birocciaio intabarrato fino al mento.
Nei campi non c'era neve; appariva scoperto il tenero e pallido verde
del grano tra gli alberi scheletriti. Lembi di neve restavano qua e
là sul dosso dei monti, svelati solo di tratto in tratto; e la nebbia
fumava contro le oscure moli con pigre volute. Le case dei contadini,
chiuse, deserte, parevano avvolte nel freddo. D'improvviso, in quella
solitudine di morte, proruppero da un'aia e corsero alla strada, alcune
grida di gioia e risate. Eran poveri ragazzi mascherati con maschere di
carta e cenciose sottane di donna. E rammentai che eravamo agli ultimi
giorni di carnevale, e mi si riempiron gli occhi di lagrime. Quella
gaiezza puerile, quasi insorgente a dispetto dello squallore e della
tristezza che desolavan la campagna tutt'intorno, mi rattristò più che
se avessi intravvisto un festoso spettacolo di gioia, perchè riebbi
nella memoria il contrasto d'altre grida gioiose e d'altre risate: di
giorni pieni di sole e lieti di verde e di fiori, quando Ortensia era
ragazzetta felice...., lassù.
Come la rivedrei ora?
Con che palpiti scorsi, da lungi, la villa! Un raggio di sole
finalmente aveva rotto la nebbia proprio là perchè io la vedessi da
lungi!
Ma quando arrivai mi sorprese che nessuno si facesse vivo. Mi era
immaginato di vedermi subito accolto da Claudio, da Ortensia: invece un
nuovo e umile servo tardò a venire al cancello.
Ecco un primo contrattempo: Moser non c'era; era partito la mattina per
Milano..
— La signora? La signorina?
A stento il servo acconsentì a introdurmi nella bella sala a terreno;
ora gelida. Ma tra la cima degli abeti il sole riapparve, dalle
vetriate, nel giardino.... E d'improvviso una delle porte laterali
s'aperse: Eugenia.
— Lo sapevo che Sivori non ci avrebbe abbandonati! — Furono queste le
sue prime parole. Io, per prima cosa, mi avvidi che quella donna così
patita e debole nell'aspetto, con molti capelli bianchi, con le guance
scarne, conservava e manifestava negli occhi una meravigliosa forza; la
fede le diceva: «Devi sopportare e soffrire; e ne avrai bene per te e
per i tuoi!»
— Voi non ci avete abbandonati nella sventura — ripetè; e mentre io
stringevo e tenevo stretta nella mia la sua mano, aggiunse, chinando
gli occhi:
— Una sventura forse irreparabile....
— Non lo credo. Sì riparerà; supereremo questa prova!
Tal sicurezza di parola e d'intenzione in me fece rialzare lo
sguardo d'Eugenia; schiarì il suo volto, quasi s'accendesse di una
nuova speranza non solo ma si compiacesse dell'energia nuova che io
dimostravo. Proseguii lamentando di non aver trovato Claudio.
— Vi siete incontrati per viaggio.
— Mino?... Ortensia?
— Mino è a scuola in paese; Ortensia è già avvertita: ora scende.
Per vincere e dissimulare l'impazienza narrai della mia visita a
Marcella e a Guido, e affrettai dimande su quanto era accaduto.
La signora mi riferì che il più ostinato avversario al concordato dei
creditori era il vecchio Learchi. Conoscendo bene costui, ormai Claudio
non sperava più che nessuna cosa o ragione riuscisse a smuoverlo: era
irremovibile, più che per altro, per il rancore del danno patito.
Lei, la povera Eugenia, appunto perchè persuasa essa stessa che nulla
valevano su Learchi le buone ragioni, era afflitta del non trovare
nessuno, non un amico, non un congiunto, il quale piegasse quell'uomo
toccandogli il cuore.
— Il male è che tanta cocciutaggine gl'impedisce, a Learchi, di vedere
qual è veramente il suo interesse. Se non si fa il concordato, perderà
tutto; se si fa, non perderà che una parte del suo credito.
Io chiesi:
— Siete certa di questo?
— Claudio e il curatore ne sono convinti.
Dunque all'ostinazione di un uomo così esoso doveva esserci un
incitamento segreto; qualche cosa o qualcuno l'acciecava! Dimandai
anche:
— Ed è vero che la disgrazia si sarebbe evitata se Learchi avesse
consentito a comporre la società?
— È vero.
— Chi l'ha acciecato, dunque? — esclamai. Eugenia intese a chi
alludevo, ma scosse il capo.
Io insistetti apertamente:
— Roveni?
— No, non credo che arrivi a questo punto. Learchi è acciecato dalla
rabbia; non ha più fiducia in nessuno....
Forse la buona donna difendendo Roveni difendeva Ortensia?
E Ortensia tardava. Perchè tardava così? Non avrebbe dovuto accorrere
come per un'attesa improvvisamente interrotta e non delusa? Non le
avevo io detto che sarei tornato a lei il giorno della sventura?
— Però al dire di Guido — io ripresi — anche Roveni è stato od è
ingrato con chi gli ha fatto del bene.
— Purtroppo anche lui ci è diventato nemico, per interesse; non per
altro. Sarebbe una cattiveria troppo grande! Sapete che colpa fa a
Claudio? Claudio si teneva certo che si farebbe la società, e un giorno
che aveva un pagamento urgente, non potè rifiutare una somma che Roveni
stesso gli propose. Ma il progetto della società andò a monte; e Roveni
adesso dice che Claudio l'ingannò.
— Di quanto è creditore, Roveni?
— Duemila lire.
Povera Eugenia! Non altra ragione per lei aveva l'odio dell'ingegnere!
Ma io, che tanta stima. avevo avuta di lui un tempo, io ora pensai che
per un meditato fine di vendetta egli doveva aver proposta la piccola
somma a Claudio.
In quel punto la porta laterale fu riaperta d'impeto. Ortensia
s'arrestò su la soglia quasi pentita di un errore, quasi cessasse d'un
tratto lo sforzo che l'aveva spinta di corsa fin là. Un istante; poi
s'avanzò risoluta verso di me, che le andavo incontro.
— Come sta?
Non risposi. Ogni mia dissimulazione cadde; non potei nasconderle la
violenza del mio cuore. E le sue labbra tremavano e il color roseo
che le era corso alle guance disparve. Imbarazzata al mio imbarazzo,
Ortensia attendeva ansiosamente che io togliessi lei pure di pena. Il
pensiero che Eugenia ci guardava, mi sospinse; mormorai:
— Cara Ortensia!
— Questa bambina è forte — Eugenia disse mentre ci riaccostavamo a lei;
e la trasse a sè e ne raccolse il capo sul petto a mo' di una volta. Ma
quando rialzò il viso, Ortensia mi apparve spaventosamente pallida; la
vidi mordersi le labbra prima di parlare, per contenere la commozione;
e parlando fissò su di me uno sguardo profondo. Io non mi sentii mai
così debole come in quegli istanti, sotto quello sguardo prepotente.
Non era un'accusa; era una condanna!
— Glielo dica anche lei, Sivori, alla mamma, che non bisogna
affliggersi tanto. Piangere perchè non siamo più ricchi! Non è
una sciocchezza? — Anche nel tono della voce c'era un'acerbità,
un'asprezza, quasi ostile. E un velo oscurò quel fervido sguardo.
Non era in lei la semplice concitazione del parlane; non era più la
commozione protratta dal rivedermi: l'agitava un'eccitazione nervosa;
si premeva con una mano al cuore.
Risposi ricuperando del tutto me stesso e rivolgendomi a Eugenia:
— Le cose non sono certo al punto che il timore vi fa vedere e che io
non vedo. Moser è tal uomo che in ogni caso saprà riparare. Intanto la
stima dei buoni sarà cresciuta per lui.
— I buoni? — Ortensia esclamò stupita di udir questo da me. Con
sguardo di nuovo ardente, iroso, aggiunse: — Oh dove sono i buoni? —
Poi sorrise di un sorriso che io ben conosceva, che avevo sol visto
fugacemente sulle sue labbra, e che ora v'insisteva: il mio sorriso
d'una volta!
— Un amico buono è qui — disse la madre.
A che la figliola, sforzandosi a non ripetere quel sorriso:
— Un'eccezione! La sola. Ma gli altri! Cattivi; tutti cattivi, perfidi,
vili! — Aumentava ad ogni frase, ad ogni parola la concitazione
violenta. — Si divertono a tormentar mio padre coi rimproveri, con le
accuse, coi consigli! Ci compiangono! Oh la compassione di certa gente
che male fa! Ipocriti!: godono del nostro male; ne sono felici; e ci
compiangono!
— No, Ortensia.... — mormorava Eugenia invano.
— E le promesse? «Vedremo; cercheremo; chi sa?; bisogna sperare!»;
eppoi nulla. Non è un'agonia questa? Non sono atroci questi alti e
bassi? Ora tutto piano, tutto liscio, tutto accomodato; ora tutto a
monte, tutto perduto! L'ostacolo che pareva piccolo diventa enorme;
una difficoltà da nulla diventa, un disastro! E tutti dicono, l'uno
dell'altro: — Io vorrei aiutarlo quel disgraziato, ma non posso, e chi
può non vuole.
— Non è un martirio? C'è da impazzire! Lo dica lei, Sivori, alla mamma
ch'è meglio finirla, uscirne una volta, a qualunque costo!
Indovinavo che Ortensia, senza più speranza, cercava il mio aiuto per
preparare la madre all'ultimo crollo. Io riflettevo. Ma nello stesso
tempo, e pur così turbata, come Ortensia mi pareva bella! I capelli,
sfuggenti al grosso pettine e diffusi, eran sollevati sulla fronte e la
fronte bianca aveva un lume che non aveva avuto mai; il pallido viso
dall'ovale perfetto aveva un lume che non aveva avuto mai! Bella di
dolore, bella d'orgoglio!...
La madre taceva, a capo chino. Le chiesi:
— Se andassi io, ora, a tentar qualche cosa con Learchi?
Eugenia annuì; Ortensia, al contrario, scosse il capo come per un
tentativo inutile; e la madre mi guardò quasi a dire: — Vedete?
Finchè ella trovò un pretesto perchè la figlia uscisse; e allora mi
susurrò:
— Ortensia è forte, ma anche questa forza mi dà una pena! C'è in lei
una sfiducia, un vuoto, una disperazione!... Sembra disprezzare anche
la sventura; ma come soffre!
Vinta, Eugenia, proseguì piangendo:
— La rimproveravo una volta perchè stava oziosa; adesso ricama, cuce
tutto il giorno per imparar a guadagnare: mangia pane asciutto per
prepararsi alla povertà!

La signora Learchi m'accolse quale un messo del Cielo. A esprimere la
sua gioia, quasi non le bastasse il viso roseo e lucido d'inverno come
d'estate e la bocca ridente quant'era larga, s'aiutò con complimenti
strepitosi:
— Che miracolo! che improvvisata! che degnazione! che bella visita!
— E trafelate scuse: la casa in disordine, lei vestita male, col
raffreddore! Il raffreddore infatti l'obbligava a farmi festa
sternutando.
— Innocenzo! Innocenzo! — invocava.
Il signor Learchi, nuovo sindaco di Valdigorgo (mi ero dimenticato di
dirlo), se ne stava davanti al camino nella camera da desinare, pipando
pensoso più di se stesso che de' suoi amministrati ed economizzando con
le molle le brace che rimanevano del ceppo ormai del tutto consunto.
Alle esclamazioni e alle apostrofi della moglie si mosse, mentre io
entravo, e senza far parola depose le molle; si levò di testa con
una mano il cappellaccio (un cappello fuor d'uso, estivo ma buono a
riparare dall'umidità invernale, tant'era unto); emise un lungo _oh_!
levandosi di bocca la pipa con l'altra mano, e m'attese seduto, non
restandogli più mani libere da reggere le brache che si era sbottonate
per far largo alla digestione.
— Vedete chi è qua, Innocenzo! — ripeteva la moglie. — Che onore! Chi
se lo sarebbe aspettato, con questo freddo?
Il marito era così lontano dall'aspettarsi una mia visita che tardava
a dissipar dal volto da beone l'ombra della improvvisa seccatura; e mi
fu visibile lo sforzo che fece di ricoprirsi con la maschera di uomo
cordiale.
— Il signor Sivori! — ruppe a dire finalmente. — Il signor dottore!
Oh oh oh! Proprio vero che le montagne.... Bravo! Sta bene?... Un
piacerone!... Qui vicino a me, a scaldarsi! Senza complimenti!
— Si scaldi! — diceva, la moglie. — Si metta a sedere.... Su, della
legna, Innocenzo!
E il signor Innocenzo, ancora imperfettamente mascherato ma di nuovo
col cappello in testa:
— Perchè non è venuto un po' prima? Avrebbe desinato con noi; alla
buona...., si sa, da montanari.... come siamo.
— Redegonda! Presto!... qualche cosa al signor Sivori, al signor
dottore!
— Che cosa? — Ella correva intorno alla tavola, avanzava, retrocedeva
domandandomi:
— Caffè? cioccolata? latte? cognac? un zabaglione? Le faccio un
zabaglione? un vino brulè? un punch?
— Moscato bianco! — urlò il sindaco. — Il mio moscato bianco, che
riscalda le budella: riservato per gli amici!
Quindi, dopo avermi lasciato un po' schermire:
— Lei non era a Vienna? Che c'è di bello a Vienna?
— A Berlino, vorrete dire! Era a Berlino! — correggeva la signora
Redegonda, mentre usciva per la bottiglia e qualche altra cosa.
Sì, venivo da Berlino; ma già m'ero fermato a Milano....
A queste parole la Learchi ristette sulla soglia, con la bocca ridente
e gli occhi sbigottiti, e tornò indietro quasi per soccorrermi.
— L'ha visto? Li ha visti? — Sopprimendo i nomi sperò di attutir lo
sdegno che prevedeva.
Infatti il signor Innocenzo le volse due occhi rabidi:
— Eh! Aveva obbligo di vederli?
Forte e senza titubanza io rispondevo:
— Ho visto Guido, Marcella, il bimbo; una famiglia che consola a
vederla...
Povero me! Sempre ridendo in silenzio la donna spalancò le braccia in
segno di disperazione. Ma il sindaco riaccendeva la pipa per ingoiar
l'ira.
— Bah! bah! — fece aspirando. — Altro è il parlar di morte, altro è
il morire! A lei sembran consolazioni...., perchè ha avuto giudizio,
lei! Non ha voluto provarle, queste consolazioni.... che costano! Mio
figlio...., povero imbecille...., le ha pagate care.... carissime!...
Ma lasciamo andare!; parliamo d'altro! Dunque, a Berlino bella vita,
eh?
Per assecondarlo un po' dissi qualche cosa di Berlino nel frattempo che
la sindachessa usciva e rientrava recando in braccio un vaso di ciliege
nello spirito e la serva sturava la bottiglia e mesceva.
— Alla sua salute!
— Alla sua!
Lodai il moscato e subito aggiunsi (per cogliere quel momento di
dolcezza) che tanta cortesia mi dava a sperar bene dalla mia visita.
Entrando in argomento dissi che quale amico comune, di Moser e del
signor sindaco, io ero venuto a sentire quel che si potrebbe fare....
— Caro amico: niente! niente da fare! — E allontanando la pipa il
signor sindaco sputò. — Meglio non parlarne per non sputar veleno!
M'han guastato il sangue. (Bevve). È amaro, per me, adesso, anche il
mio moscato!
La signora Redegonda da dietro le spalle maritali traeva lentamente,
ascoltando, le ciliege dal vaso con un cucchiaio e le deponeva in un
piattello; e poichè non poteva impedire alla sua bocca di sorridere
ancora, scuoteva il capo per significare come disapprovasse quel che il
marito diceva e direbbe, e con languide occhiate chiamava il soffitto
in testimonio del suo dispiacere; delle sue buone intenzioni; delle sue
rinnovellate speranze nel mio intervento.
Io ripigliai: — Da Eugenia e Ortensia non ho avuto che notizie confuse;
ma ho potuto comprendere il loro dolore perchè lei, che ha fatto tanto
per Moser, debba essere o voglia essere sacrificato....
— Dolore? Ah ah! Ci vuol altro! Dolore! parole! Altro è il parlar di
morte altro è il morire!
— Io credo si possa almeno attenuare le conseguenze....
— Parole, caro il mio amico! Parole! niente da fare! Meglio non
parlarne....
— È vero o no — esclamai — che chi non vuole l'accordo dei creditori è
lei?
— Io? — Parve cascar dalle nuvole brandendo la pipa — Vede?; vedete chi
è che inganna? Ci prendon tutti per imbecilli...., come mio figlio!
— Le senta....; — intervenne allora la Redegonda porgendomi il
piattello delle ciliege.
— Lei dunque è disposto — proseguii rivolto al marito — a trattar
dell'accordo?
— Io.... Io dico, ripeto, torno a dire per l'ultima volta che non
voglio più pasticci, non voglio avvocati e liti, non voglio curatori,
non voglio crepare! Vogliono, quegli altri signori, il concordato? Mi
diano una garanzia che tutto andrà liscio....; la garanzia che piace
a me....; e son qua! Se no, vada il resto, vada tutto!... Ci rimetto
tutto.... Che cosa pretendono di più? Che ci rimetta anche il sangue?
la pelle? l'anima?
— E la garanzia che lei desidera sarebbe....?
— La garanzia dell'ingegner Roveni.
— Ma che garanzia può essere quella di uno che non possiede niente?
— Garanzia che non nasceranno altri imbrogli. Mi basta! Ma se non ci
fosse questo pericolo, degl'imbrogli, Roveni la farebbe la garanzia! E
non la fa! non la fa! non la fa!
Me la cantava in musica battendo il tempo con la pipa: — Non la fa!
Il mistero mi pareva chiarito del tutto; sicchè la Redegonda sorrise
fino alle orecchie per la luce che mi vide in faccia; scosse,
sorridendo, il capo, per assicurarmi che adesso ero su la buona strada;
sternutò e si soffiò il naso; accennò coll'indice al piattello delle
ciliege, e uscì piano piano, lasciandomi libero il campo alla vittoria.
Procedetti:
— Il perchè Roveni non fa la garanzia è un altro! Non ha inteso dire
anche lei, signor Innocenzo, che costui aveva pretensioni su Ortensia e
che Ortensia l'ha rifiutato? È una vendetta! Si vendica della ragazza
con la rovina del suo benefattore! Ecco che uomo è costui! E ha
ingannato anche un uomo sagace come Innocenzo Learchi!
Due, tre copiose e formidabili boccate di fumo uscirono dalla bocca
del mio interlocutore, in cui le ultime mie parole fecero un effetto
del tutto contrario a quello desiderato. La lode di sagacia parve
offenderlo più che l'accusa di essersi lasciato ingannare e, livido,
stentando a frenar la rabbia con un ultimo sforzo di ipocrisia:
— Signor dottore.... stimatissimo! — esclamò. — Lei è lei; ma se non
fosse lei....!; con tutto il rispetto.... Che storia mi tira fuori?
Dica la verità: per chi m'ha preso? Per un imbecille come....
Rise sgangheratamente.
— Ah povero signor dottore! Come l'hanno imbottito bene! E lei ci ha
creduto? Ha creduto che Roveni avesse intenzione di sposar una ragazza
senza dote? Ah! Ah! E pensare che la ragazza non l'ha voluto lei! lei
non l'ha voluto, Roveni! non lo vuole! Spera in un partito migliore, la
ragazzina!... Ah povero signor dottore!
Strappargli la pipa di mano e sbattergliela sul muso!
— Anche la signora Redegonda deve saperne qualche cosa — riuscii a dire.
— E io dovrei credere quel che han dato a intendere a mia moglie? Ah!
Ah! Ma non lo sa che mia moglie è la madre di mio figlio?
Non ne potendo più, mi alzai.
— La verità è questa che le ho detta io! Lei non la crede? Ebbene: lei
da tutti gli onesti sarà giudicato quale un complice di Roveni e avrà
il rimorso d'aver messo in miseria i suoi parenti.
— Parenti, serpenti! — Ricaricava con mano tremante la pipa. — E i
rimorsi.... non li proverò io, caro amico; no no: stia pur sicuro! Io
sono tranquillo! Non ho falsificato niente, io....; sono un galantuomo,
io! un uomo onesto....
In piedi con la pipa in bocca il sindaco di Valdigorgo abbottonava i
calzoni per congedarmi.
Allora l'investii domandando:
— Falsificato.... che cosa? chi?
Ma egli retrocesse.
— Zitto! C'è mia moglie.... Se vuol spiegazioni, si rivolga a
Roveni.... Io non so niente! Non voglio dir più niente! Non voglio
saper più niente!... Un altro bicchiere, e amici più di prima....
— Altre due ciliege — pregava, la signora Redegonda sorridendo, ma con
voce di pianto, a vedere che avevo perduta la battaglia.

Non tutto era scoperto. Un'infamia mi restava da scoprire!
Ritornavo inveendo entro di me contro gli onesti che insultano
impunemente all'innocenza e alla sventura, perchè fatti ricchi e
potenti dalla fortuna e dall'abilità di commettere il male all'ombra
della legge.
Ortensia mi venne incontro. Tacque a lungo poichè io le ebbi detto: —
Non ho ottenuto niente per ora, ma....
D'improvviso si accese in volto.
— Com'è vile quell'uomo! Non capisce quell'uomo senza cuore, nessuno
capisce che non è la miseria che ci spaventa? che ci son patimenti più
grandi che la fame? Vili! Non conoscono mio padre! L'ammazzano! È un
assassinio!
Io mi provavo a quietarla, turbato da quella sua alterazione; da quella
violenza di passione manifesta per gli occhi più che per le parole.
— Quietati — le dicevo —; riparto subito per Milano e qualche cosa
so di poter fare! Il tuo dolore è santo — aggiunsi — ma non bisogna
esagerare.
Ella sollevò in me lo sguardo affievolito da una infinita tristezza.
— Ah Sivori! anche per lei (si corresse), anche per voi esagero!
Conoscete mio padre; sapete che dovrà abbandonare la sua casa
(accennava alla villa), che era il premio di una vita di lavoro, che
era il luogo dove voleva morire, dove nacquero i suoi figlioli; e io
esagero! Mio padre non vuole abbandonarla la sua casa; non può credere
di dover abbandonarla! Ieri mattina, con un operaio, nel giardino,
disegnava nuove aiuole; diceva: — Quest'altr'anno leveremo i ligustri;
pianteremo altri abeti nel prato. — Quest'altr'anno, diceva. Invece
quest'altr'anno nuovi padroni raccoglieranno i fiori del nostro
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