In faccia al destino - 04

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fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta,
irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi
soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.
Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi
avvelenava le parole?
Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio
che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar
a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi
sostenuti.
Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!
Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire
veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole
o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per
moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso.... E cercai
anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile.
Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la
Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le
delizie delle _soirées_ aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette
di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte,
con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi
mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità,
sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il
sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva
quel _manichino_ di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate
languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli
badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore
di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario
delitto!)
Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni
politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse
davvero per lui, com'egli diceva, una _great attraction_, cioè egli mi
s'attaccasse come una sanguisuga.
Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o
rincasava Claudio.
Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito
rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non
di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima;
d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo,
quell'armonia; non in me ma intorno a me. _Sentivo....: io sentivo!_
Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la
sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso,
il reattino. _Zerr...._; ed ecco la più lieta fra le più liete creature
del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto,
riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità
e drizzando la coda; e subito con un nuovo _zerr_, giù in terra!; e
via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva
trovar sempre qualche preda.
Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo,
seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era
cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti,
sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.
— Bravo!
— Dov'è?
— Sparito! S'è consumato nel canto.
Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla
madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di
là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e
Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava
dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto
il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due....»
Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.
E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo
schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva
fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di
ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle
e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe
tinte e a strane forme.
— Questo? — domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il
mazzo.
Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo.
Marcella, ingenua, correggeva:
— _Euphrasia officinalis._
E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.
Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga
verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada,
ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi
o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del
cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano,
e annunziavano spesso a una voce:
— Il babbo!
Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava
al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.
— Ben arrivato! Babbo, babbo!
Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra
d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza,
con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.
— Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio?
(a me) E Mino?
Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.
— Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi
all'ombra, laggiù! — Perde, frattanto che snoda la cravatta e respira
a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto
onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d'un premio
meritato; la forza e la bontà. — Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.
Tutti c'incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda
felice intorno e par che non creda d'essere salvo dall'afa e dalla
carcere e dalle faccende cittadine.
— Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di
Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!
Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già
prima d'esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:
— Marcella! Ortensia! un bicchier d'acqua! Ho sete!
— La fabbrica? — domanda Eugenia.
— A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese....; insomma, un
buon affare, Eugenia; sta sicura!
E arriva l'una o l'altra delle figlie col bicchiere annebbiato.
— Oh che acqua! l'acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico
(egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!...
Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:
— La lana, babbo?
— La trottola?
— La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa,
laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri,
le seccature; corri in provincia, in comune, allo studio, dai clienti:
chi mi cerca, chi mi sfugge.... Paga questo; licenzia quest'altro....
E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?
Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle
ragazze; mentre parla a me:
— E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?
Rispondo: — _Eureka!_ — quando già le ragazze strillano:
— Dio! che lana!
— Che colore! Cos'hai fatto, babbo? Ma il campione?
— Il campione! il campione! — brontola il padre. — Dunque non ci ho
colto?...
— Un orrore!
— Eh.... se l'avessi avuto, il campione!...
— Te l'ho dato!
— Te l'abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!
— Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della
lana così....» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le
tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada:
irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole....
da regalarmi nel mio onomastico....»
Altro grido delle ragazze: — No! Non è vero!
Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:
— «Di verdi, signore, ce ne sono molti....»
«Bene, me li mostri....» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono
della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto
tra le matasse a colpo sicuro.
— Vergogna!
— Cattivo!
— Scegliere la lana a orecchio!
— Eh.... per pantofole....
— No: per un berretto da notte!
È questa la vendetta delle ragazze.
— Ah! infami! Un berretto da notte a me?... a me?!
Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le
mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia, come a un
miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita....: il campione
della lana.
Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.
— Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più
soldi....
Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l'indice al viso del
padre e accusandolo alla madre.
— Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!
Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da
conquistatore.
— Oh! Roveni! Novità?... Andiamo!
E quell'uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane
fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da
pranzo, arrabbiandosi contro di me.
— Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle!
Come fate quando non ci sono io?.... Vedi: si fa così!
Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido,
rovesci, tra le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.

Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia
faccia.
— Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te — mi diceva. — Bada che
sino alla prima neve non si parte di qua: nessuno!
Negli occhi e nei modi d'Eugenia io notavo invece il dubbio che mi
facessi forza a stento.
Talvolta il cuore intende meglio dell'ingegno.
Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:
— Claudio ha ragione: sto meglio. Quest'aria fa bene non solo a voi; ed
ero forse più esaurito, più debole di voi, io!
Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:
— Voi — disse — non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.
— Perchè pensate così? — domandai io con impeto. — Che cosa pensate,
che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi
tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole....
Vi prometto che non torneremo mai più su quest'argomento.
— Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi
giorni ch'eravate qua dubitavo soffriste per una passione.
— Una passione d'amore? — feci ridendo.
— Sì — rispose senza ridere. — Non ci sarebbe stato da meravigliarsene;
nulla di strano. Ma presto capii che il vostro male era molto più
grave.
— Perchè?
— Una passione.... — esitava; indi risoluta: — forse me l'avreste
confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi,
a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate
timore che io e Claudio ce ne accorgessimo....; eppure non potevate
nasconderlo. Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero
un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a
svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.
— Come? Che cosa indovinaste?
— Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri
studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte
mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?»
Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale;
comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di
quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole
ammogliarsi.... Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha
altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua
fede?...»
— Avete indovinato! — esclamai stringendomi il capo tra le mani e
coprendomi la faccia con le palme.
Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel
modo, essa ristette un poco. Poi riprese:
— Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve
essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito.
Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito!
Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non
volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni,
forse un'altra fede?
— No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho
perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio
cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la
mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e
infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è
forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo,
non è forse peggio che non sentir nulla?»
Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che
venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia
miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane?
o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?
— Una sorella.... — mormorò in fretta, seguendo il corso del suo
pensiero mentre Ortensia veniva a noi. — Perchè Dio non vi ha dato una
sorella?
Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito
o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma
Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che
ambasciata, o notizia.
— Cervellina! — le disse la madre in tono di soave rimprovero,
rialzandole i capelli su la fronte. — Cervellina!
La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il
cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella
sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia
allo schienale della poltrona.
Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:
— Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe
una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine
materna che sopravvive.
La signora annuiva. Ma io mi corressi:
— Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che
comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì
pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare
a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo
rende superiore forse a ogni altro.
Eugenia disse:
— Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.
Io proseguii concitato.
— Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o
finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido,
continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio!
Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di
triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a
cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che
son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me
mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di
una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre?
Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio
cuore? Ma — conchiusi, triste: — una sorella non si trova!
Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle
dita, considerandole, pareva, come bianche.
Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia
disperazione fosse una rivelazione per lei....
Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo
veduta....
Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione
improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al
mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia
sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo....
Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era
già conchiuso.


VIII.

— Vuoi esser tu la mia sorella?
— Sì.
— Per tutta la vita?
— Sì! — rispose Ortensia con maggior fermezza.
Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:
— Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!
A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto,
stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il
petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma
più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo
non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente
immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e
ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero;
non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla
corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo
ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente
il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero
di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste
si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di
quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella
ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del
male passava come ombra che non agita e non intorbida....
Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne' tuoi occhi la poesia
che un'eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite
innumerevoli d'intorno a te: i sogni, i tuoi sogni, ti accompagnano a
volo, t'avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte.
Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà.... Qua che
ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino
chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con
mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti,
dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla
tua bocca e cadono con soavità lunga....
— Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori;
presto! andiamo!
Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!...
.... Il dolore risparmierebbe quell'anima? Già questo io mi chiedevo.
Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa
domanda; e un'affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al
mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in me un bene fraterno,
quand'anche la fatalità della sventura le fosse indulgente.
Ma io che difendevo Ortensia, io che la conoscevo meglio di tutti,
scorgevo meglio di tutti i pericoli dell'indole sua. «Cervellina» la
diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte
doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a
lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla
svogliata. E le altre?
La signora Redegonda — la madre di Guido — chiudeva un occhio, ridendo
senza volere, allorchè giudicava Ortensia. — Buona sì; ma non le
piaceva star in cucina; non una donnina da casa come Marcella.
E la Fulgosi s'eccitava e agitava a vantar l'educazione inglese, che
concede molta libertà alle ragazze, e biasimava Ortensia appunto perchè
godendo tanta libertà non era seria come le ragazze inglesi.
Peggio poi la vecchia Melvi. Diceva che Ortensia era «una farfalla,
leggera leggera». Lei, la madre di Anna, diceva così, in tono di
rimprovero! E pensare che sua figlia, anche quando scherzava chiassosa
e pareva abbandonata alla più innocente gaiezza, non diceva parola,
non faceva atto che non ubbidisse a un'intenzione o a un'abitudine
acquistata per intenzione! Ma Anna non era riprovevole perchè era
falsa.
Ortensia invece era spontanea in tutto; schietta e franca anche
nei difetti: presto o tardi n'avrebbe danno; l'ammettevo io pure. A
diciassette anni, era ancor troppo mutevole e impetuosa: non potevo
negarlo. Troppo la sua volontà cedeva alle facoltà spirituali,
che nè gli ammonimenti materni nè il nativo buon senso bastavano a
disciplinare; era irriflessiva spesso; troppo fiduciosa di sè e degli
altri; impaziente.... Concedevo tutto questo. Ma Eugenia notava:
— Quando Ortensia ha detto no, è no! Per fortuna — aggiungeva —, a
saperla prendere è facile prevenire il no e ottenere il sì.
Dunque Ortensia aveva forza d'animo. Me lo confermavano alcuni ricordi.
Anni innanzi, quando era sui dodici anni, Ortensia s'impauriva ancora
ad andar sola, di sera, nell'oscurità. Una sera il padre la derise, per
questo, più del solito. Improvvisamente lei s'alzò da tavola; traversò
tutta la casa al buio; e tornò pallida, ma vittoriosa.
E da bambina respingeva ogni tentazione di dolci e di frutta che le
venivan offerti a patto di rivelare chi delle sue compagne di scuola
avesse commesso qualche marachella. Golosa, mangiava quelle buone
cose con gli occhi, ma non c'era modo di farla parlare. Ed ora perchè
sembrava più ardita e più consapevole di sè, quando, sul serio o per
gioco, esclamava d'impeto: — Voglio! —?
Allorchè tant'anima si raccoglierebbe nell'amore o nel dolore, che
forza di volontà avrebbe al suo soffrire! Era figlia di Claudio Moser,
il quale tutto doveva a una volontà ferrea. Come pure aveva del padre
la focosa cordialità, che manifestava spesso puerilmente.
— Tesoro! — quanti _erre_ nell'esclamazione, mentre quasi soffocava il
gatto con le carezze. Io le dicevo:
— Una volta o l'altra ti graffia. Sei troppo fidente: credi buoni sino
i gatti!
— Ma non vede com'è bello?
E il vitellino alla cascina? Era un lattonzolo fulvo e ispido, che ne
ascoltava le più affettuose espressioni con i grandi occhi stupiti e
immoti e le gambe anteriori tese e aperte a un imminente sbalzo, se
non di riconoscenza, di pazza gioia. Espressioni per il vitellino da
fare invidia a un innamorato! Quanto a _Sansone_, il vecchio e bianco
cavallo di Moser, lo abbracciava mentre esso le posava il capo su la
spalla e tritava lo zucchero; ed erano abbracci così furiosi che per
miracolo quello non se ne liberava con una zampata.
Con tali indizi d'indole affettuosa andavan altri che davano a
conoscere non men vive le facoltà spirituali.
— Dopo che la mamma è guarita non provo più nessun bisogno di pregare.
Come sarà? Certo non va bene!
Questo era effetto della giovinezza ritornata del tutto lieta; ma
chiedeva a me:
— E lei non prova mai il bisogno di pregare? Mai?...
Io sorridevo, tacendo.
— È orribile! — Ortensia esclamava allora, dolente in modo da rivelare
uno spirito passionale e profondo.
Che sarebbe di quest'anima all'uso della vita? Tenace nella passione, a
chi s'affiderebbe quest'anima? Scemando l'esuberanza della giovinezza,
così impulsiva, che mutamento avverrebbe in lei? Ogni indagine mi
pareva una preparazione a difenderla un giorno, e nello stesso tempo
accresceva l'intima ragione del mio affetto.
Volli sapere i suoi più grandi desideri.
Alla domanda, dondolandosi a pena a pena nella poltrona ad arco,
chinò le palpebre su gli occhi, quasi a raccogliere e a precisare una
visione.
— Viaggiare! Viaggiar molto! viaggiar sempre!
— Perchè?
— Oh bella! Per vedere il mondo; altri monti; pianure; città; il mare.
Oh il mare!
— Calmo....; a lume di luna.... — suggerivo io.
— E in tempesta no? Non l'ho mai visto in tempesta. Dev'essere stupendo!
— Dalla spiaggia....
—.... Le onde bianche, il cielo nero, i lampi.... Brrr! che bellezza!;
ma a non esserci, là in mezzo!
— Brava! E poi?
— Un altro desiderio grande grande? Un bel cavallo roano.... Roano o
morello? Morello! con una stella bianca nella fronte!; e mi portasse
via di galoppo, dove volessi io.... S'intende, più giovane e più focoso
di Sansone. Sa che è un bel tipo, Sansone? Cascasse il mondo, lui non
si turba! Sola io riesco a farlo inquietare un po', quando non gli
lascio ingoiar lo zucchero.... È buono, Sansone; tanto buono!; ma con
lui si va poco lontano!
— E poi? altri desideri?
— Mi lasci pensare....
Invece io la prevenni:
— Gioielli?, _toilettes_?, feste?, teatri?
— Si sa! Quale è la ragazza che non le desideri, queste cose?
— E poi? — io continuavo. — Diventar moglie d'un gran signore; magari
d'un principe?
— Uh!, non mi dispiacerebbe.
— Ma io avrei preferito che tu dicessi: moglie d'un grand'uomo; d'un
grande artista....
— Non ci ho mai pensato!
— Ah, dunque pensi a diventar moglie d'un principe?
— O di chi, allora? Di Pieruccio Fulgosi?
Fece una risata così significativa che anche a me parve di veder
Pieruccio conficcato nell'alto colletto, smorto, con gli occhi
imbambolati e i calzoni rimboccati.
— Sei senza pietà con quel povero ragazzo....
Arrossendo, Ortensia dimandò:
— Troppo sgarbata, è vero?
— Ierisera cosa ti disse quando gli voltasti le spalle?
— Eh! la solita storia!; non sa dir altro.
— Cioè?
— Che sono bella.
— E tu?
— Seccatura! Io non so dirgli altro che seccatura! Se lo merita;
bamboccio!
— Però non gli dai torto del tutto quando ti dice che sei bella.
— Per me son tutti belli, fuori che lui! È bello per me anche suo padre!
Un'altra risata; e si levò di scatto per andar a guardarsi a una delle
specchiere, che stavano alle pareti opposte della sala, quasi per
togliersi un dubbio improvviso.
— Pfu! — fece, mentre ripeteva atti soliti: rialzò i capelli sulla
fronte, e interponendo la destra al colletto che le stringeva la gola,
tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto
luminoso delle pupille e dell'iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più
distingueva.
— Però — riprese —, gli occhi di Marcella son più belli dei miei.
Marcella ha gli occhi della mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e
bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso, e io
mi piacerei di più a me!
Io dissi, tornando in argomento:
— Via!, consolati; chè gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in
moglie a un poeta.
— No, un poeta no. Non lo voglio!
— Perchè?
— Perchè?... Perchè?... non lo so nemmen io il perchè. Un pittore,
forse...., un maestro di musica, celebre....
— Perchè preferiresti uno di costoro?
— Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto!
Perchè? perchè? perchè?...
Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.
Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo
trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza;
saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo
canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:
— Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!
Poi mi piantava lì, dov'ero, per correre a veder la madre.
.... Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso
a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre
conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la
quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e
col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe
sue giuste pretese. Per diritto e dovere fraterni mi sgridava se
m'impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla _toilette_; e
spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:
— Oh che uomo! oh che uomo!


IX.

Ero certo che l'amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e
che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.
La breve dimora a Milano, l'inverno, le aveva consentito la molteplice
distrazione d'una grande città, ma le abitudini della famiglia
l'avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son
propizie agli innamoramenti.
A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.
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