In faccia al destino - 17

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legata a un filo; intendi? La mia difesa, la difesa della mia innocenza
non mi avrebbe salvato. Dunque? Sono un galantuomo! — aggiunse con un
grido di rabbia.
La commozione lo stringeva alla gola; e si mise a percorrere la camera
su e giù: il suo sguardo pareva misurare un abisso.
Io non trovavo più alcun rimprovero che potesse impedire la crise.
Finchè egli ridendo come non l'avevo mai sentito ridere, esclamò:
— Il costruttore Moser dovrà assistere alla sua completa distruzione!
— Sì — dissi io freddamente —: ma per ricostruire dopo. È necessario,
mi pare!
Altro silenzio; altri passi concitati. Eppoi affrontandomi:
— Voglio sapere una cosa che tu devi sapere!
— Quale?
— Il perchè del voltafaccia di quell'assassino!
Continuò violento:
— Roveni, Roveni arrivar a questo punto? Perchè? Che cosa gli
ho fatto io di male? Era appena uscito dal Politecnico; me lo
raccomandarono....; aveva patita la fame; trovargli subito un buon
impiego non era facile. Lo presi con me, lo trattai come un figliolo.
No? E perchè dunque questa parte di Giuda? C'è un mistero! Non
ha tradito, lui, per trenta denari: ci ha rimesso duemila lire, a
tradirmi! Perchè? Tu ne sai qualche cosa! Parla una volta!
Mentire ancora e del tutto era inutile, oramai.
Risposi: — La spiegazione è facile. Immagina che Ortensia da
qualche anno non sia più una bambina; immagina che Roveni ne fosse
innamorato....
Claudio spalancò gli occhi come alla cosa più inverosimile di questo
mondo; ne parve atterrito.
— Immagina — proseguii — che Ortensia abbia risposto un bel no, uno
dei tuoi no, a tutte le speranze, a tutte le richieste, a tutte le
insistenze di Roveni, e che Roveni, dopo aver tentata invano la via
buona, abbia mutato strada.... per piegarla....
Claudio intravide in confuso un eroismo nella fierezza e nella fermezza
della figliola....
— Ortensia! — fece a voce strozzata, e coprendosi il volto con le mani
scoppiò in singhiozzi.
Fu uno sfogo non breve. Ma si riscosse con l'impeto dell'antica
energia, sorrise, mi prese e strinse forte la mano. Riapparve il Moser
di una volta mentre diceva:
— Hai ragione, Carlo! Per Ortensia; per la mia famiglia; per te ho
ancora molto da fare! Lavoreremo!


PARTE TERZA.

I.

All'uscio di cucina il Biondo aveva attaccato il _Lunario del
Campagnolo_: Sant'Antonio in rozza stampa, lunga barba, col pastorale e
il campanello; il porco a destra e a sinistra, in terra, il sacro libro
e una gran fiamma; ai lati, l'ordine dei mesi con le insegne zodiacali,
e, sotto, la leggenda che rammentava i mali dell'anno già caduto «nel
numero dei più» promettendo migliore l'anno nuovo.
«Nel nuovo anno gli uomini fatti savi dall'esperienza, che è la miglior
maestra della vita; abbandonate le malsane idee, che per un momento
poterono turbare le menti umane sotto l'influsso di false massime,
vivranno fra loro nella maggior concordia. Tutte il male non vien
per nuocere. Avanziamoci fiduciosi incontro all'avvenire, e le nostre
speranze non saranno deluse; dopo la scarsità, avremo l'abbondanza....»
E sebbene non ancora a mezzo di quest'anno nuovo il Biondo si dolesse
delle stagioni avverse all'abbondanza e del socialismo avverso alla
concordia, io m'attenevo alla profezia e umilmente la rileggevo ogni
dì: fatto savio ormai dall'esperienza; abbandonate ormai le malsane
idee e le false massime, e quasi fiducioso nell'avvenire, io mi sentiva
in bastevole concordia col mio più fiero nemico e padrone: con me
medesimo.
Concordia, intendiamoci, non era tranquillità, e di pensieri ne avevo
anche troppi.
Ma senza dubbio il mutamento in me, da un pezzo incominciato, era
grande; era divenuto così grande che non mi perdevo nemmeno a indagarne
le cause. Quali esse fossero mi chiedo ora. Forse a riscuoter tutte le
mie forze, accidiate da tanto tempo; a darmi resistenza per le fatiche
del nuovo ufficio che esercitavo in campagne solitarie e lontane; a
tenermi desto la notte dopo giornate laboriose per studiar quanto di
medicina pratica o avevo disimparato o ignoravo; a ringiovanire insomma
nella vita attiva senza sforzo di volontà, forse mi bastò il consiglio
di Claudio, il dì della mia partenza per Molinella: — Lavoriamo! —?
Generoso esempio di un uomo la cui fibra non era stata infranta da
tante batoste e dolori, la cui riconoscenza per me non era limitata
dall'intenzione di sdebitarsi meco!
Ma la virtù che mi rianimava doveva esser ben altra che quella
dell'esempio; ben altra che il beneficio dell'attività!
E veramente nell'esercizio e negli obblighi di una professione
gravosa, ingloriosa, angusta, molte volte sentii e vidi, al letto
de' miei squallidi malati, che il compito assunto per necessità era
più importante, più attraente, più umano, più nobile che quello di
tendere alle cose inafferrabili. Se non che mi accompagnava per tutto
un sentore di lezzo, un'impressione di miseria avvilita e non domata,
un'eco di minacce segrete e di odî già palesi.
Piuttosto m'eccitava dunque a una vita forte e utile la virtù del
sacrificio da me compiuto a pro dell'amicizia?
Via! Contro le pene che mi dava il ricordo dei Moser, poco valeva
la soddisfazione del servigio reso a Claudio. Per Claudio era già
venuto il dì dell'ultimo strappo: dell'addio alla villa. Che cuore era
stato il suo in quel giorno? E Ortensia, che era rimasta con lui fino
all'ultimo momento?... Poi sapevo come Claudio, dopo aver trasferito la
famiglia a Milano con la speranza di trovarvi subito impiego, consumava
la smania di operare in una triste vicenda d'illusioni e delusioni.
Intanto Ortensia e Eugenia dimoravano a Milano, col pericolo
d'imbattersi in Roveni o d'esserne insidiate. Senza dirle quale
vendetta egli forse meditava, io, partendo, avevo scritto a Eugenia
affinchè stesse in guardia; invigilasse soprattutto alla posta e
sottraesse qualsiasi lettera indirizzata a Ortensia: dubitavo di una
lettera anonima. Eugenia mi aveva risposto che seguirebbe attentamente
il consiglio. Ma quel dubbio della lettera anonima mi era, in certi
giorni, un'ossessione; mi affliggeva anche il timore che Eugenia
potesse scoprire la calunnia incombente su di lei; e avevo un bel
dirmi: «avvenga che può, coscienza ci assicura».
Ortensia non l'avevo più riveduta. Per ripugnanza che io assistessi
più oltre alla sua distruzione, Claudio non aveva insistito che
l'accompagnassi a Valdigorgo, e io non avevo osato andar con lui, quasi
a raccogliere riconoscenza. Così non potevo raffigurarmi Ortensia che
con le attitudini e le parole dell'ultima volta che l'avevo vista,
l'unica volta dopo tre anni; e mi ripetevo: «Quel giorno, lassù, pur
nel momento in cui mi confidò il conflitto tragico dell'animo suo, pur
quando disperata invocò il mio consiglio, qualche cosa di misterioso
s'interpose a quella espansione».
Era stato l'ultimo rancore del male che le avevo fatto? Era stato
l'orgoglio ferito dal soccorso che io promettevo alla sua famiglia
o dallo stesso consiglio ch'ella si sentiva costretta a chiedermi? O
quali altri sospetti ottenebravano l'anima dolorosa mentre l'agitava lo
spavento del disonore paterno?
Questo, questo, il mio maggior tormento nelle tregue dalle fatiche
quotidiane, o nelle notti insonni!
E quando non ne potei più, sapete che feci? Scrissi a Ortensia,
col pretesto d'aver da lei notizie della famiglia. Per poco non mi
rimproveravo di soverchia audacia! Ella rispose subito. A leggere e
rileggere quelle poche righe — la prima lettera di Ortensia che io
ricevevo! — facevo rabbia a me stesso; tentavo esprimere da poche
parole un significato che non avevano; non sapevo persuadermi che dopo
tanto amore e con tanto amore io dovessi rassegnarmi a una letterina
di stile perfettamente amichevole. Stanco di me e della lettera, la
stracciai; mi pentii d'averla stracciata. Affettuosamente — e a me
pareva in modo freddo — Ortensia mi dava notizie di tutti: del padre
sempre in speranze; della madre sempre fidente in giorni migliori; di
sè che stava «discretamente». Aggiungeva:
Si parla ogni giorno di voi, Sivori; se ne parla non solo come di
un benefattore ma come di uno di noi, della nostra famiglia che
sia lontano.
«Già, un fratello! — io gridavo a me stesso: — Ortensia vuol dire che
non mi ama più e che non mi amerà mai più!»
E con tutto ciò, con tutti questi contrasti, io.... non me la prendevo
con Sant'Antonio! Ne consultavo il lunario e senza ironia me ne
ripetevo le parole: «Tutto il male non viene per nuocere. Bisogna aver
fiducia nell'avvenire».
Quali dunque le cause o la causa del mio mutamento? Forse
all'intendimento della vita e all'elevazione dell'animo il dolore può
anche più dell'amore? E una notte feci questo sogno:
Nella vecchia chiesa del paese, ove fanciullo io avevo pregato a fianco
di mia madre, si celebravano nozze solenni. Il Biondo gongolava; la
Rita piangeva di gioia.... Poi la chiesa con tutta la gente scomparve,
e vidi una nota camera: Ortensia, con me, entrava pallida e arridente
sposa nella camera dove mia madre era morta.


II.

Verso la fine d'aprile ricevei una lettera di Claudio per la quale
mi convinsi sempre più che la fortuna lusingava e confermava le mie
speranze.
Mi giungeva quella lettera in un giorno così luminoso di primavera!
Leggendola su la porta di casa, con avanti a me il prato pieno di
fiori, mi balzava il cuore quasi a un portento.
Claudio mi pregava d'informarmi, con prudenza, se davvero si era
costituito in Bologna un consorzio delle fabbriche di laterizi poste
su le rive del Reno, e se davvero cercavano un direttore. Solo nel
caso che queste notizie, da lui avute in segreto da un antico cliente,
fossero certe, io avrei dovuto presentarmi al proprietario d'una delle
fabbriche, che egli mi nominava, e fare il suo nome.
Come se tutto ciò fosse più che sicuro, e Moser già prescelto
all'ufficio desiderato, pensai che i Moser verrebbero a dimorare vicino
a me, a un'ora e mezza di viaggio. Figurarsi con che fretta corsi a
Bologna!
Le notizie non erano del tutto conformi al vero. La concorrenza, che
aveva rovinato Moser, angustiava anche nell'Emilia gli industriali in
laterizi, e tra essi era corso il progetto di un concordato.
Ma due o tre dei più potenti non avevano ancora acconsentito e non
parevano ben disposti. Perciò quelli che avevano fabbriche presso
Bologna vagheggiavano una società fra loro. Le cose erano solo a
questo punto quando io con un biglietto di presentazione, prudentemente
richiesto ad un amico, mi recai dall'industriale nominato da Moser. Ma
non ero un diplomatico, io, quale il cavalier Fulgosi; e dovendo dar
ragione della mia visita, sostituii l'audacia alla prudenza e dissi a
dirittura che l'ingegner Moser non sdegnerebbe assumere la direzione
tecnica della nuova società, se si costituisse.
— Moser? — esclamò il mio interlocutore — Moser che aveva la fabbrica
a Valdigorgo? Quello che ha perfezionati i forni Hoffman?
Avevo fatto colpo. Subito dopo, l'altro cercò di attenuare in me
l'impressione della sua meraviglia osservando, con bel garbo, che il
fallimento del mio amico non lo raccomandava troppo.... Opposi che
Moser non si raccomandava quale amministratore, sebbene io sapessi
che la colpa della sua sventura economica non era tutta di lui: si
raccomandava come tecnico; e non dubitavo che qualche industriale di
Lombardia o Piemonte non tarderebbe ad approfittare dell'opera sua.
L'interlocutore fece una smorfia. In conclusione, dopo la visita e
l'inchiesta, potei scrivere a Claudio un modesto: «Chi sa?». Ma non
potevo credere che il nome e l'offerta di Moser dovessero affrettare
la costituzionale della società anonima: _Fabbriche di laterizi in
Valrenana_.
Un telegramma mi richiamava a Bologna pochi giorni di poi. Si voleva
sapere da me se mai...., se nel caso poco probabile, del resto, che si
componesse la società...., l'ingegner Moser avanzerebbe pretese molto
alte....: quale direttore tecnico.... solo tecnico.... Una domanda
quasi per semplice curiosità: senza impegno! senza impegno!
Risposi che se la intendessero con lui; e s'intenderebbero forse....
(io almeno lo credevo...., speravo....) s'intenderebbero facilmente.
Passarono alcuni altri giorni senza che sapessi più nulla in proposito;
finchè una cartolina di Claudio mi annunciava che egli veniva a Bologna
a concluder l'affare.
Chi l'avrebbe mai detto? Costì, di dove partii per cominciare a
far soldi, ci vengo par ricominciare!
Ma io non potei andar a Bologna nè egli recarsi a Molinella; non ci
vedemmo.
Altro silenzio; un silenzio tuttavia pieno di questa attesa: «verranno
tutti a Bologna!»
Per un po' di tempo parve invece che Claudio volesse stabilirsi a
Bologna solo, ed Eugenia, Ortensia e Mino dovessero far famiglia con
Guido e Marcella. Finchè Eugenia mi scrisse:
Ortensia non vuol restar lontano da suo padre. Non le importa
affatto di abitare in città anche d'inverno. Aiutate Claudio a
trovar una villetta per noi, in un sobborgo vicino al luogo dove
Claudio avrà l'ufficio.
Feci subito ricercare un'abitazione, che convenisse, nel suburbio a
destra del Reno.
E non trovai. Ma Claudio, nei pochi giorni che precorsero alla sua
assunzione all'impiego, cercò e trovò: una, villa — egli mi scriveva
— a poco più di un chilometro dalla fabbrica ove risiedeva l'ufficio
principale. Neanche distava molto dal sobborgo, ove Mino andrebbe a
scuola; ed era prossima alla ferrovia, alla strada carrozzabile, alle
botteghe, alla chiesa; e, quel che più importava, in bella e buona
posizione, quantunque in pianura, e tutta rimessa a nuovo. Sembrava
l'avessero fatta a posta per lui! Si chiamava nientemeno che la _Ca'
rossa_!
E come Dio volle, cioè ai primi di maggio, mi fu annunciata la partenza
dei Moser da Milano.
Ortensia a Bologna! Potrei vederla! rivederla di frequente!... — E
Roveni? — Ah che la mia consolazione era tale da lenirmi la spina che
avevo nel cuore!
Non ero esente da ogni timore, ma la mia gioia era tanta da
rappresentarmi il pericolo di Roveni come sempre più dubbio.
Quando Ortensia fosse vicina a me la difenderei meglio e mi difenderei
meglio!
Mi giustificava, in ciò, la passione, m'illudeva la speranza d'aver
abbastanza sofferto per mitigare il mio destino; l'energia ricuperata
mi pareva bastevole a superar il destino, se mai mi tornasse avverso!


III.

La prima domenica di maggio vidi la Ca' Rossa nella realtà, priva
della poesia con cui me l'aveva descritta Moser. Di lontano, dalla
strada, appariva quale una vecchia casa di campagna messa a uso di
villeggiatura e ritinta, se non di rosso, di gialliccio. Vi piombai
inatteso durante l'intervallo fra due corse del tram a vapore. A
scorgermi dal cancello — un cancello di legno — Mino, che giuocava alle
bocce con un operaio, gridò: — C'è Sivori! c'è Sivori! —; e Claudio,
che assisteva alla partita, fumando, mi corse incontro anche lui; mi
furono addosso, con abbracci soffocanti.
— Un saluto in fretta.... — rispondevo a quell'aggressione gioiosa. —
Ho un malato grave laggiù.... Non posso trattenermi....
— Eugenia! Ortensia! Correte!; se no, scappa! — urlava Claudio.
— C'è Sivori! Sivori! — urlava Mino correndo intorno e tornando ad
abbracciarmi.
Non ci eravamo visti da tanto tempo, noi due! Com'era cresciuto, il
piccolo Mino! La commozione della nostra amicizia scusava il turbamento
con cui mi presentavo a Eugenia ed Ortensia.
Erano uscite per la loggia, da una camera a terreno, ove scorgevasi
della biancheria distesa su una tavola: Eugenia con un oh! di grata
meraviglia; Ortensia pallida.... Nulla dell'impeto mal represso con
cui era venuta a me a Valdigorgo; era pallida, quasi stanca, e mesto il
sorriso.
— Come state, Sivori?
— Sapete che non vuol restar da noi oggi? — riprendeva Claudio. Ed
Eugenia e Ortensia a una voce:
— Perchè?
— Perchè, perchè un povero diavolo laggiù ha bisogno del suo permesso
per andare all'altro mondo! Gli credete? a costui?
— Sì — rispose, naturalmente, Ortensia.
— Non insistiamo — disse Eugenia —, se ci promettete di tornar presto.
Avrei voluto indugiarmi a discorrere con le signore; ma Claudio mi
trascinò seco.
— Andiamo dunque! presto! a dare il tuo giudizio della Ca' Rossa, che
ho scoperta io e non tu! Cominciamo, signor critico, dall'esterno.
Intanto Mino aveva ripresa la partita; e madre e figlia ci
accompagnarono un tratto ma ristettero dinanzi a pochi meschini vasi di
gerani al sole.
— Il panorama non è molto vario — ammetteva Claudio. A levante erano
la strada e l'ingresso; a mezzodì, di là dal prato, che una siepe di
biancospino in fiore limitava, si estendeva la vigna: tra questa e
l'orto, spaziante a ponente e a settentrione, scendeva una carraia....
— La carraia passa da quella casupola laggiù, dove sta l'ortolano
vignaiuolo: colui, là, che gioca con Mino. E la carraia prosegue sino
al fiume, e di là un sentiero lungo la riva mi conduce, in due passi,
alla fabbrica. Potevo essere più fortunato di così?
Io osservavo il solo albero del prato: un lazzeruolo a rami nodosi e
involti.
— Fronte indietro!
Claudio ora m'indicava la disposizione degli ambienti.
— A terreno, loggia, salotto, camera da desinare, cucina; di sopra,
a mezzogiorno, la camera di noi vecchi; quella di Mino, a ponente;
quella di Ortensia, a levante; quella dei forestieri, a nord. Va bene?
Passiamo all'interno!
Su la porta l'ortolano trattenne Claudio per avvertirlo di non so che
cosa, ed Eugenia, ch'era rientrata con Ortensia a continuar la faccenda
della biancheria, colse il momento e mi disse, con commozione:
— Sivori: non ci siamo più riveduti dopo quanto faceste per noi....
— Non ne parliamo! — risposi io, mentre lo sguardo di Ortensia mi
avvolgeva.
— Ma — ribattè Eugenia — noi dobbiamo dirvi anche a voce come vi siamo
grati, tutti. — E si volse alla figlia quasi meravigliata del suo
silenzio.
— Tutti; per sempre! — Ortensia disse con voce viva e forte.
Gratitudine viva nel cuore per sempre: così disse; così vedevo; ma nei
begli occhi non era più l'anima di una volta.
— Non è uno scalone — disse Moser entrando, in fretta come era solito,
e precedendomi per la piccola scala.
Appena di sopra entrammo nella camera matrimoniale.
— Il letto, vedi, è un documento storico. Però io ci sto da papa. Anche
il comò era massiccio e meschino....
— Quelle, guarda, con le quattro stagioni.
Alludeva alle oleografie appese alle pareti. Dalla finestra si
scorgevano, oltre la vigna, filari d'alberi e campi uguali sparsi di
case e le torri e le cupole della città. Invece dalla camera di Mino
non si scorgeva che un lungo camino a fuso sorgente tra il verde: era
quello della fabbrica.
— Mio figlio ogni mattina potrà vedermi andare al lavoro e potrà
pensare che lavorare non basta.... Via, via! — aggiunse Claudio
rivelandomi, se già non me ne fossi avveduto, quant'era sforzata
tutta quella vivacità di parole e di umore. — Via!: ecco la camera di
Ortensia.
Su la soglia, ristetti; ero trattenuto da un panico segreto e
indefinibile.
— Ho fatto quel che ho potuto, per accontentarla.
Il letto in ferro, nuovo: bello il comò....
Una titubanza strana mi aveva trattenuto, quasi da una violazione.
A Valdigorgo non ero entrato mai nella sua camera.... E mi affacciai
anche là alla finestra, che aveva di contro lo squallido lazzeruolo.
Per la strada polverosa transitavano birocce e buoi condotti al
macello, che mugghiavano.
.... A Valdigorgo la sua finestra vedeva nel giardino le opulenti
magnolie, gli abeti snelli dai rami digradanti e copiosi, dalle molli
frange ondulanti, e i vividi colori delle aiuole penetravano tutto quel
verde: s'apriva la cerchia dei monti a concedere, nella bella conca,
frescura di estate e tepore in primavera e in autunno: dal cielo puro,
intensamente azzurro, e da oltre quei monti chiamava un'ignota, immensa
felicità....
— Ah! Non è la sua camera di una volta! — disse il padre chinando
il capo sul petto; abbattuto a un tratto dal pensiero della felicità
sognata un tempo per la sua figliola.
— Andiamo! — feci io. Ma nel passare dinanzi al comò guardai alla
fotografia che vi stava sorretta da un'umile cornice e il cuore mi
palpitò. Era una piccola fotografia di Valdigorgo, e sotto al cristallo
aderiva, nel mezzo, una fogliolina di trifoglio.... Quella? Quella che
avevamo raccolta insieme, un giorno, al fosso delle lavandaie?
Il puerile segno di memoria imperitura indicava forse un'illusione non
perita del tutto?
— Andiamo! andiamo! — ripetei vivamente.
Nella loggia c'imbattemmo in Ortensia che usciva dall'altra camera,
ove portava la biancheria. Ella ristette con noi alla ringhiera e forse
avvertì che io aveva avuta un'impressione gradevole.
— Bisognerà aumentare i vasi del giardino — le dissi —; mi
permetterete, Ortensia, di mandarvi dei garofani della mia massaia.
E Moser:
— Sono straordinari i garofani della Pulicreta; rossi come i bargigli
di suo marito!
— Qui la massaia sono io e faremo giardiniera la mamma. Vita nuova!
— mormorò Ortensia con sorriso amaro. Mentre il padre entrava nella
camera di Mino, ella aggiunse: — Vita di pianura.
— Ma non vita bassa. Anche qui proverete gioie; forse quali non avete
provate mai!
Lo sguardo di Ortensia m'interrogò profondamente per interpretare tutto
il mio pensiero; poi, come non mi credesse, volse gli occhi altrove.
Accanto a me, così, mi pareva bella di fierezza: l'esile ma alta e
proporzionata persona aveva la nobiltà del portamento che è dono divino
della natura; nè alcun poeta avrebbe potuto desiderare più bella fronte
e più bei capelli per far di una strofa una corona.
La fierezza che un tempo era fugace ne' suoi occhi e ne' suoi «voglio»,
pareva in lei esser divenuta, ora, abituale.
— Dev'esser molto triste la vostra pianura, laggiù!
— Triste — risposi —; ma d'una tristezza pacata e dolce.
Passava in quel punto il fragore di un treno: ansioso, rapido, forte,
violento, e scemava; poi, subito dopo, riprendeva intenso, più veloce,
e ancora diminuiva, si perdeva; eppoi ancora, per un istante, un fondo
e uguale roteare metallico, e più nulla. Dall'orto venivan voci di
donne, invisibili.
— È un'impressione curiosai — disse Ortensia. — Qui, a me, mi sembra
di udire la vita come se fosse lontana, lontana, fuori di me.... Non so
spiegarmi!...
Indugiò prima di aggiungere:
— Mi sembra di udirla da una tomba. Claudio tornava; e Ortensia,
chiamata dalla madre, ridiscese.
— Che te ne pare di quella bambina? A vederla così pallida mi
strozzerei — disse Moser, in cui era cessato l'impeto di pocanzi. — Ma
qui avrà del sole, dell'aria, del verde.... Purchè non le dispiacciano
questi luoghi! Tu credi che non le dispiaceranno? che tornerà bianca e
rossa..... come lassù?
— Certo!
— Falle un po' di predica. Voglio vederla correre; sentirla cantare....
Infatti egli mi lasciò ancora solo con lei alla ringhiera, appena essa
ebbe riposta nella camera della madre la roba portata di sopra.
— Ortensia — le dissi francamente. — Bisogna dimenticare e riamare la
vita!
Esclamò:
— Dimenticare? Ma la mia vita è nei ricordi! Voglio ricordare tutto
il bene che ho perduto, tutto il male che ho imparato! Quando non
comprendevo nulla, quand'ero una ragazza senza giudizio, godevo di
essere così; ora godo d'aver sofferto e di soffrire! Non c'è anche la
voluttà del dolore? Io almeno, la provo. Voi, no?
E sorrise diversamente, cercando invano di mitigare quell'acerbezza.
Proseguì:
— Sivori adesso mi consiglia una cosa da nulla: amare la vita! Andiamo!
ditemi voi come si fa.... Che cosa si deve fare per mettere in pratica
il vostro consiglio?
— Amare! — risposi. Non avevo trovata altra risposta; e il rossore
che mi corse al viso e il tremito della mia voce le dissero quanto io
l'amavo ancora.
Mi fissò; vedendo che non s'ingannava chinò gli occhi. Indi riprese:
— Sarà un destino anche questo: che non s'intendano fra loro neppure
le persone più affezionate. O la colpa è sol mia? Certe volte non
comprendo nemmeno mio padre. Sono cattiva! Non comprendo come mio
padre possa scherzare, fingersi allegro. E la fede della mamma, la sua
rassegnazione, la sua religione mi fa dispetto, alle volte!... Dunque
sono cattiva! Ma lasciatemi come sono; non mi inasprite di più se non
potete comprendere il veleno che ho nel cuore, nel sangue!
— Tu hai sofferto molto — ribattei con fermezza —; ma il bene che noi
ti vogliamo è più grande d'ogni male che hai patito; il nostro affetto
ti guarirà!
Mi fissò di nuovo per un istante. Quella mia fermezza le significava,
più che speranza, una fede sicura; e la meravigliava, la stupiva.
— Non ci comprendiamo più — mormorò.
— Perchè? — le chiesi con forza.
— Oh Sivori; una spiegazione ci farebbe tanto male!
— È necessaria!
— Non ora! non ora! — ripetè con voce dolente, quasi pregando.
E si mosse.
Scendemmo.
A basso, sul punto di partire, volli che Claudio mi promettesse di
venire a Molinella.
— Vi voglio là tutti, un giorno.
— Te lo promettiamo — ripeteva Claudio. — Credi non abbia voglia, io,
di far un'improvvisata al Biondo e alla sua signora?
Eugenia sorrideva; per lei, che ci verrebbe, garantiva Mino saltandomi
al collo.
E Ortensia mi diè la mano. Fredda!... Ma nei suoi occhi non era più
asprezza; la sua voce fu dolce salutandomi:
— A rivederci, Sivori!


IV.

Uscendo al sole dai tuguri ove i malati gemevano o deliravano, mi
pareva di gettarmi in un bagno che mi purificasse e ravvivasse d'un
tratto. Più: certe volte la vita esterna mi colpiva con tal forza che
ricevevo un'impressione quasi dolorosa, quasi di una ferita troppo
presto esposta a un calore forte e improvviso.
Comprendevo ora come effetto d'una stessa necessità il fervore che
agitava le messi sempre più rigogliose, che moveva i ragazzi e i
vitelli a correre e a ruzzare nei prati e la vecchia Rita a cantare
con la stessa anima dei passeri affaccendati intorno al tetto della mia
casa. Nè io mi ritraevo più da quel fervore, non sfuggivo più a quella
necessità; e mi chiedevo quante primavere resterebbero ancora ai miei
sensi; e avvertivo in me un egoismo profondo e buono perchè naturale.
Ma abbandonandomi in questo sentivo che gran parte di me stesso
mancava ancora a me stesso: sentivo che felicità mi era possibile e
che felicità mi rapiva, mi strappava, divisa da me, Ortensia. La sete
d'amore in quei momenti mi esasperava. Se allora avessi avuto dinanzi a
me Ortensia e mi avesse convinto che essa non mi amerebbe mai più, che
io non saprei mai più ridestarla al mio amore.... che avrei fatto?
Chi mi aveva condotto ad amarla in tal modo? Lei! Lei mi aveva ridata
la vita; per lei rivivevo così! Quale ragione, qual fatto, qual mistero
o destino le dava il diritto di ricacciarmi in una miseria peggiore
della morte? Perchè ora non ci comprendevamo più? Non comprendeva,
Ortensia, la mia passione?
Passione che mi tribolava da tre anni; che costringeva un uomo di ormai
quarant'anni a invocar la felicità, a chiamar lei, Ortensia, per nome
come un ragazzo innamorato!»
E in quelle tiepide notti di maggio, sotto il cielo stellato e la prima
luna.... (perchè non era meco?).... io piansi.
Frattanto il Biondo e la Rita, avendo appreso che Moser era a Bologna
con la famiglia, non mi davan più tregua. E: — Quando viene dunque a
trovarci il signor Claudio? — E: — Verrà con la sposa, con i figlioli?
— «E: — Verrà anche la figliuola? Abbiamo tanta voglia di vederla!
Scrissi a Claudio che non potevo per allora tornar alla Ca' Rossa; che
anzi non vi andrei più se prima non venissero loro a Molinella. Claudio
finalmente mi annunciò la gita per il primo giorno che avrebbe un po'
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