In faccia al destino - 03

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Pieruccio rimase intontito là dove l'aveva lasciato Anna; con quegli
occhi bovini rivolti verso di noi, anzi verso Ortensia. A questa
susurrai, col solito sarcasmo:
— Quell'infelice soffre; e si direbbe che soffre per te.
— No — ella rispose —: soffre per il colletto. — L'alto e rigido
colletto l'attanagliava infatti; l'affogava.
In questo mentre la Melvi accresceva l'esitazione di Roveni e
l'induceva a stringerla più forte mancando al tempo o cadendo in
contrattempi: gli s'abbandonava affaticata e liberava una mano per
risollevare i capelli che le si erano sciolti; ansimava e rilevava il
petto turgido alla inspirazione frequente. Poscia di fronte a Pieruccio
Fulgosi sorrise a lui, lusinghiera insieme e beffarda. Civettava con
l'ingegnere e nello stesso tempo si burlava del giovincello. Ma questi
era degno figlio di suo padre, e con l'aplomb di un uomo di spirito
s'avvicinò ad Ortensia:
— Permette?... Posso?
Ella accondiscese senza dir nulla; rivolse a me un'occhiata che diceva
quanto colui era antipatico anche a lei, e riprese dopo pochi passi
quella letizia ingenua che nel ballo dimostrava con ogni compagno.
Io tornai ad osservar Marcella. Più di Ortensia la vista di lei
tratteneva la mia attenzione perchè Marcella, che, a guida di Roveni
e di Fulgosi danzava in maniera scolastica e fredda, la vedevo ora,
che ballava di nuovo con Learchi, quasi arrisa tutta dal lume de' suoi
occhi: era la felicità di un rapimento, l'accondiscendenza di un'anima
pura alla felicità dell'anima che la rapiva seco. Ugualmente per Guido.
Inconsci di quanto poteva essere di materiale e d'umano nel commotivo
sollazzo, trasalivano in rapidi giri con un desiderio di sollevarsi,
guardandosi così, lungi agli uomini, fuori del mondo, liberi da quello
stesso contatto dei corpi che li inebbriava e li intimidiva a vicenda.
E quando Learchi accompagnò Marcella a sedere, egli ristette in piedi
presso di lei senza parole; ambedue in un'attitudine quasi dolorosa:
quel distacco repentino, quel ritorno al riposo materiale, era uno
strappo alle loro anime che, accomunate nel piacere, non avrebbero
voluto o potuto dividersi subito così.
A tal vista io provavo un rancore, un astio di cui non avrebbe dato
sufficiente ragione neppure l'invidia, se l'invidia fosse stata
possibile in me.
— Che fa lei qui? — mi chiese Anna Melvi.
— Studio — risposi, per dir qualche cosa.
Mi fissò per un attimo e disse:
— Ne imparerà delle belle!
Avrei voluto pungerla, ferirla quella ragazzaccia sguaiata; ma Ortensia
la chiamò. Salivano da Eugenia. Quando rientrarono, Ortensia tornò
subito a me dicendomi, felice:
— La mamma dorme.... Vedesse! È queta queta.
Ma fin quella tenerezza filiale mi amareggiava! Senza badare che il mio
turbamento, di una tristezza oscura e profonda, era pur esso indizio
di risveglio psichico, io, di fronte alla affettuosa espansione della
giovinetta, ebbi vergogna di me e provai il bisogno di dissimulare.
Finalmente cercai parole che sembrassero buone.
— Dunque presto la porteremo in giardino, tua madre?
— Sì! E lei starà sempre con noi? Non scapperà più? Non sarà più stanco
e nelle nuvole? Terrà compagnia alla mamma?
Certo — risposi appena.
Ortensia mi ringraziò e nel ringraziarmi ella mi guardò quasi dicesse:
«Lei crede di comprendere tutto il bene ch'io voglio a mia madre. Ma io
gliene voglio di più, molto di più!»
Come dopo un riposo la signora Fulgosi ebbe trovato l'andare del
_dancing_, l'ingegner venne a prendere Ortensia. Su di lei raccolsi ora
la mia attenzione quasi sperando da lei sola una commozione diversa e
benefica. Ancora ella procedeva semplice e vaga, pur quando la nuova
danza imprimeva una consapevole mollezza e cadenze a riprese leggiadre
fino alla leziosaggine; e nei trapassi violenti al ritorno vorticoso,
trascorreva leggera e composta, liberandosi con spontanea agilità dal
contatto terreno.
Una voce dietro a me susurrò:
— E _charmante_ quella bambina!
Aveva parlato il cavalier Fulgosi.
— Che pezzo di carne! — disse invece il signor Learchi padre, alludendo
ad Anna, che si rapiva Pieruccio.
— Anna è più _coquette_ — giudicava il cavaliere. — E Learchi:
— Ha più grazia di Dio addosso. A quel che pare, suo figlio in queste
partite è della mia opinione.
— Prime armi! — fe' contento il mondano genitore.
Io continuavo a considerare Ortensia.
Alta, snella, bionda. I copiosi e fini capelli non erano di un biondo
aureo, ma acquistavano riflessi d'oro a ogni luce; le linee del volto
erano già in armonia così viva che essa poteva forse scemare, non
perfezionarsi nella piena fioritura della giovinezza. Gli occhi aveva
strani per un colore nè cilestre nè verde, e ombrati da palpebre
lunghe; e sotto agli occhi due archi pallidi ma lievi lievi sarebbero
stati segni di mestizia a chi l'avesse vista riposata e silenziosa: se
non che era un po' difficile vedere Ortensia riposata e silenziosa!
Le labbra si componevano insieme con un vezzoso moto involontario se
prolungava le parole: meno belle quando parlava, anche per giuoco, con
ira; e forse non belle in esclamazioni di dolore e di pianto: erano
fatte per sorridere.
Mirabili, signorilmente perfette, le mani.... E a quella freschezza
giovanile cresceva lume una nativa gentilezza, manifesta per i modi
spontanei, per le acconciature semplici, per le vesti umili e le tinte
chiare, e sin per i fiori che si puntava al petto.
Ma a lei, se Roveni perde vasi con Anna, non restava altro adoratore
che l'antipatico Pieruccio?
Meglio così per «la mia piccola amica»!; meglio ritardasse a
conoscere i perfidi inganni della giovinezza e le stupide illusioni
dell'amore!...
E in quella sera di gioia per tutti, a me parve non aver altro pensiero
buono che questo.


V.

A tanto era ridotto il sapiente osservatore della vita umana nel
tramite dei secoli: a scrutare anime di giovinette e a rintracciare
amori di villeggiatura!
Ma io medico, che dovevo curare me stesso d'un male così strano e
pauroso, intravedevo ancora un progresso nella mia coscienza: dai
ricordi ero passato a osservazione di cose, persone, animi; e seguendo
il barlume di ragione che m'aveva condotto, quella sera, a interpretar
l'animo di chi mi stava intorno e a dimostrarmi cogli altri abbastanza
disinvolto e mutato, pensavo ora che potrei di nuovo essere attratto
alla vita e ricuperare la facoltà di sentire. N'era prova l'amarezza
suscitata in me dallo spettacolo della giovinezza e della gioia.
Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me
stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della
volontà.
Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la
volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi
a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.
Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare
alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore
e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva?
Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma
io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non
dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.
Gli parlai infatti, appena lo vidi.
Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè
era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla
signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.
— E Eugenia?
— Interrogò subito Marcella. — Sì che gli voglio bene, a Guido — (Il
ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). — Allora la
signora chiamò me e mi fece una predica....
— Una predica? Eugenia?
— Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi
d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato,
l'ingegnere s'opporrebbe.... Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto
giudizio? — conchiudeva Guido ingenuamente — Marcella io non la vedo
che la sera....
— Di sera in casa....; di giorno alla finestra.
— Ahi! — Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò
il dispiacere d'essere stato scoperto.
Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi
d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice.
Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio;
e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre;
la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre;
l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di
lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!
Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi
suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi
assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come
indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.
Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad
occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se
attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il
topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.
Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo
Diderot:
«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si
pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza
accorgersene.»
Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa
natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana
libertà della mente umana....
Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del
sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le
passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia,
e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a
che vivere?
.... Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima
semplice e umile presso a me benediceva la vita.
Per Eugenia era imminente il «gran giorno».
La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.
— Venga con me!
— Dove?
— Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.
Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella
poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè
la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.
Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.
— Alzata? — io dissi entrando. — Non vi affaticherete troppo?
— Mi sento così bene — rispose. — Guardate che sera!...
— Una delizia! un incanto! Par di sognare! — esclamò Ortensia,
entusiasta. — Io stasera sono felice.
Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come
soleva.
— E Marcella? — chiese poscia la madre.
— Sono tutti nella terrazza.
— Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.
Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva
forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente.
Finchè dissi:
— Dunque dimani vi avremo in giardino?
Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel
silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido
viso.
— Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere....; un
piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è
vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne
senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo
il perdono, dopo un'espiazione....
Scosse il capo.
— No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che
tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare....
Questa notte — proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare
l'apparenza del sogno — questa notte ho sognato che prendevo
dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e
il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso
mi sento intorno il profumo di lavanda.
— Segno che siete guarita — dissi io freddamente —, ma che siete
debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.
L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la
sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di
silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi
del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il
lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non
rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero
mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto,
scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.
Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per
lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello
splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura
sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo:
il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione
inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse
il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.
— Il piacere della convalescenza! — dissi a un tratto. — Ecco un
piacere che non proverò più!
Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.
Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo
notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di
sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in
cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:
— Io ho da chiedervi perdono, Sivori.
— Perchè?
— Dubito che le ragazze e Mino v'importunino.... Siete troppo buono con
loro, soprattutto con Ortensia....; e io commisi l'errore....
L'interruppi.
— Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse
pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse
di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun
altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? — Ma
ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza
che mi restava nella voce e nell'aspetto.
Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:
— Noi vorremmo vedervi contento, Sivori....; ma comprendo che purtroppo
questo non sta nè in noi nè in voi.
— In chi sta, dunque? — chiesi con violenza mal repressa. Ella non
rispose subito; poi rispose:
— In Dio.
Esclamai:
— Ah Dio mi ha tradito anche lui!... Voi pensate che Dio bisogna
cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?
— Sì.
— Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui
(mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma
dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere
che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che
la mente mi abbia divorato il cuore.
— Sivori! Sivori! — pregava la buona donna. — Non vi abbandonate alla
tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole....
Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun
altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono
all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue
congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».
— Come va, cara signora?
— Sono molto debole....
— Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori.... _A la
bonne heure!_
Ripigliò:
— Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è
più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è
bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri
col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti
i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati.
La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. _Festina
lente_. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un
filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. _Medice,
cura te ipsum!_ E per me, di medicine non ne prendo mai.... Un po' di
cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il
suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi
della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà!
Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute
della signora Moser, e mai _toast_ sarà stato più cordiale.
— Grazie — ripeteva Eugenia, — grazie, cavaliere!
— E lei, dottore, benone? Si vede.
— Benone — io feci.
— Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza.
Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le
altre.... Ne so qualche cosa anch'io....
In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette
nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno
sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando
il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.
— _Casta diva...._ Che sera! eh, dottore? Peccato non aver
vent'anni!... Del resto, per tornare a quel che si diceva, _mens
sana in corpore sano_; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche
il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del
dottor Sivori.... No, no, dottore; mi lasci dire. Non è _flatterie_, è
verità....
— Voi siete ancora molto debole, ed è tardi — io dissi a Eugenia,
alzandomi....


VI.

Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e
semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono,
sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose
queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.
Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della
malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano
alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano
del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli
zigomi e alle mandibole. E le mani.... così bianche! così affilate!...
— Ah Sivori! — ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse:
«Come sono contenta».
— Zitta! — impose Moser. — Zitte anche voi! — disse alle ragazze, che
non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.
Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò
del tutto tranquillo per lei e pago di sè.
Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a
riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare,
ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno.
Invece egli disse solo:
— Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e
l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!
Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.
— Come ti senti? — chiedeva Moser indi a poco.
— Bene, tanto bene!
Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il
viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare.
Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e
ripigliò il _crochet_; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra,
dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona;
e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto:
— Mamma buona....; mamma bella.... — Io, in piedi, ero col dorso
appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura,
seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei
nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste
il rampollare delle idee.... Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto
della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di
Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente,
curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a
oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!
Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di
una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana
letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi
di sensazioni infantili.
Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti
la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella,
da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come
percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti,
l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì
fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito
che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere,
fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e
d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei
fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi.... Poi guardò; volse lo
sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un
inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse
una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava
al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione
alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò,
interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana
lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.
E intanto — anche prima? — l'arguto ribattere di un incudine, che nel
suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da
presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via:
eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini....
Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice,
pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la
strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un
trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille
voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in
terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme;
un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un
affanno mortale....
— Mamma! — gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. — Mamma!
mamma! — invocò Marcella. E Claudio accorse.
Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.
— Non è nulla — dissi —; una lieve commozione.... È vero, Eugenia?...
Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e
strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione
intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita
universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima,
salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.
Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io
avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica
penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza
turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e
l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto
«naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi
organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei
Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo
taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando
agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia....
Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era
possibile.... Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi;
riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio
affetto: niente!... Rammentai la bontà di Eugenia....: niente! Il mio
cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!...
— Rientriamo? — ripeteva, insisteva Claudio.
Eugenia pregava:
— Ancora un poco....: dite, Sivori?
— Ma si!; un poco....
.... Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me
stesso, disperatamente!
«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione,
volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo
confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la
disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe
credere....
Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto,
per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano
avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.
Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un
abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento
alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi.... Peggio! Peggio! Io era
un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo
appiglio di fuscelli!
«Anche un delitto....» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere
al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi
trovavo; ricorrere a qualunque mezzo.... Io dovevo procurarmi forse
un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia
coscienza.
Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.
— Vedete che la mamma ride? Vedete? — disse Ortensia beandosi nelle
carezze che faceva a sua madre.
Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi
luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!
Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore!
se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance;
chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in
volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella
sala anatomica....
Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata
trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi...., con
tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze
e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e
le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la
notizia.... Moribonda?... morta?
Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la
notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre
assopita fosse morta....
Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola,
che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella;
e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e
tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che
spaventevole commozione proverebbe mai un uomo....; proverei io, se
d'improvviso...., in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire.... io,
al cuore...., la più vivace di quelle tre creature?... Che istantaneo
strappo;.... che strazio.... se io lì, presente sua madre...., io....
in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora,
in tanta luce...., ammazzassi, io.... strangolassi.... Ortensia? Ah
gettarmi su di lei! Un attimo....
Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei
compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un
coltello...., e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia.... Inerme,
trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà
materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero....
Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi
con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare,
disperato:
— Salvatemi! Salvatemi!


VII.

Ero salvo.
Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel
che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere
lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei
lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un
orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si
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