In faccia al destino - 15

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stanza.... Ivi stava il morto provvisorio.
— Zitto! — ripetè il vecchio —: che nessuno lo sappia! Ci fidiamo di
lei; se no, ci ammazzano!...
— Per l'amor di Dio! — aggiunse la vecchia.
Aprendo, la cassa appariva vuota; ma il Biondo l'aveva costrutta a
doppio fondo e nel fondo segreto era il morto: pacchettini di biglietti
di banca, nuovi nuovi; oro, argento, e anche cedole al portatore....
Uno spettacolo tutt'altro che funebre! Basti dire che tolto quel che
mi abbisognava, vi rimase abbastanza da non rendere inutile il doppio
fondo della cassa.
— Zitto, per carità! — Ridevano sommessamente.
Ridevamo tutti e tre, proprio come se io fossi stato un loro figliolo
a cui avessero fatto sì bella improvvisata.
Solo alla terza volta che rifece il conto della somma il Biondo
spalancò le cateratte per veder bene il passaggio repentino di quella
parte di sè stesso dalle sue alle mie mani; nè potè trattenere un
sospiro.
Ma la cena fu gaia. Forse da un pezzo i vecchi coniugi non avevano
cenato con cuore così pieno. Si comprendeva, a veder in che modo mi
guardavano, l'una di sottecchi e l'altro di sotto le ribalte, che il
merito di quella gioia era mio.
Quando fui per partire il Biondo mi trasse in disparte:
— I quattrini.... sono per il signor Claudio, è vero?


X.

Lieto che io avessi mantenuta la parola, il curatore mi accertò che
nessuno potrebbe più mettere in dubbio l'onestà di Moser e che con
l'arma a doppio taglio, preparata a strumento della sua perfidia,
Roveni non potrebbe più ferire che sè stesso.
— Mi dispiace di non poterlo denunciare! — disse. — Le ha saputo
far così bene, quel birbante! Ma se non avesse un documento che lo
salva!...
«Sfuggirà anche a me?», io pensavo uscendo, verso il mezzodì, dallo
studio del curatore. Prima di tutto però volevo veder Guido; dargli
e ricever notizie. Quand'ecco, fatti pochi passi, m'incontrai....
Immaginate in chi! Nel cavalier Fulgosi!
Era stupendo nel ricco e lungo paletot; con un colletto così alto
che pareva averlo ereditato da suo figlio, e la cravattina a tinte
scozzesi, e i guanti _gris-perle_; con i baffetti e la barbetta d'un
biondo pallido pallido: l'uomo di spirito, avverso ad ogni tintura,
aveva ceduto allo spirito della conservazione apparente. E l'uomo
di mondo in una città cosmopolita non si confuse a vedermi: mi fe'
un inchino alla francese, mi diede una stretta di mano all'inglese e
improvvisò un complimento da italiano e patriotta:
— Il dottor Sivori è come Romagnosi: quando si direbbe che è morto è
più vivo di prima!
Quale insigne opera meditavo? Quale nobile impresa mi aveva
ricondotto in patria? Le risposte che gli diedi non l'impedirono
dall'accompagnarsi meco e dal cadere, dopo pochi passi, in discorso
di Moser. Sapeva qualche cosa, non tutto, della disgrazia; quel tanto
che aveva appreso da Guido, con cui egli, sempre uomo superiore, era
rimasto in buona amicizia nonostante l'inimicizia ch'era divenuta
sempre più grave tra lui e il Learchi padre, ora sindaco di Valdigorgo.
Soavemente compianse la «gentile» Eugenia, la «amabile» Ortensia, la
«dolce» Marcella, e rievocò i bei giorni di Valdigorgo.
— Che bei giorni, eh, dottore?...; quando non pioveva....
Già: quel giorno che gli avevo dato dello sciocco, pioveva!
Ma il culto di così care memorie l'induceva a chiedermi un favore
grande, memorabile anch'esso.
— Non mi dica di no.... La mia signora sarà felice di rivederla! Mi
faccia grazia.... di venire a pranzo da noi, oggi.
Impossibile! avevo tante faccende!
— Lo credo, illustre amico; lo credo. Però dovrà pur rubarlo un po' di
tempo alle faccende, per desinare: lo rubi, e me ne faccia dono.
— Impossibile! — ripetei duro come un tedesco.
— Non vuol oggi? Ebbene: domani!
Dàlli e dàlli; _gutta cavat lapidem_; e, come si usa in ogni paese per
levarsi un peso d'addosso, finii per preferire l'oggi al dimani. Che
peccato non fosse a Milano anche Pieruccio! Era partito, il dì innanzi,
per Modena; di dove tornerebbe, fra pochi mesi, con le spalline.
— Ah le spalline e vent'anni! — sospirò il cavaliere allargando
le braccia e invidiando suo figlio. Di suo figlio le donne andavan
fanatiche anche al solo vederlo in divisa da collegiale.
— Si figuri che l'altra sera, all'ultima festa in casa De Mol....
Mentre narrava le figliali prodezze il cavaliere s'arrestava di tre
in tre passi, compiacendosi che i suoi gesti oratori attirassero
l'attenzione dei passanti. Tutti parevan chiedersi chi fosse quel
signore elegante e nello stesso tempo austero. Un senatore, così
giovane? O piuttosto un deputato? O un presidente di Corte d'Appello,
o un ex-ministro: un'_eccellenza_ insomma? Ed egli diceva:
—.... La giovine signora del colonnello.... — Pieruccio era stato sul
punto di sedur la moglie di un colonnello!
— Vede già la via per diventar generale — dissi io, indulgente.
— A proposito! — il cavaliere riprese. — C'era anche Anna Melvi in casa
De Mol. Cantò deliziosamente.... Si fa; si fa! è una ragazza che si fa!
La lanceremo!... E lei sa, dottore, che anche Roveni è a Milano? L'ho
visto più volte, il bravo ingegnere.
Io m'affrettai a metter da parte il «bravo ingegnere» preferendo il
minor male. Meglio discorrer della Melvi.
— Badi, cavaliere, che la Melvi è una ragazza pericolosa.
Un altro sospiro venne su dal cuore e dal colletto di quell'apparente
Eccellenza. Quindi:
— _On ne badine pas avec l'amour_. Ma io mi occupo di Anna solo per
l'amore dell'arte e per amore del mio paese. Ho la fortuna di alte
relazioni, e la lanceremo: vedrà! — Aggiunse che non poteva invitarla
a pranzo con noi perchè la sua signora — a torto, ve'! — ne era un
tantino gelosa. Ma a questo punto un'idea attraversò la mente di Sua
Eccellenza, che si fermò mormorando:
— A quest'ora ci dovrebbe essere....
— Chi? — esclamai io — Anna? Non voglio vederla! Intendiamoci!
— No, no — rispose egli. — Mi è venuto in mente che debbo vedere
un'altra persona prima di déjeuner e mi rincresce lasciarla, caro
dottore: a meno che ella non si compiaccia d'accompagnarmi sin qui
all'_Orologio_. Due minuti....; due passi.... Ci viene? Bravo! Quanto
è gentile!
— È la mia strada — dissi, senza alcun sospetto.
Giunti al Ristorante dell'_Orologio_, Fulgosi mi lasciò sulla soglia.
Ma, appena dentro, si rivolse accennandomi d'entrare: — Scusi, dottor
Sivori! — Quando gli fui presso, m'indicò, fra la gente, una persona
seduta a una tavola e chiamò forte:
— Ingegnere!
Roveni si volge: mi vede e resta immoto a guardarmi, mentre io resto
a guardarlo; e il cavaliere ride, felice della bella improvvisata
che mi ha fatta; solo non comprende il perchè io e Roveni non ci
salutiamo, non accorriamo l'uno incontro all'altro; e precipita lui
alla conclusione.
— Senza complimenti, ingegnere! Oggi lei è invitato a desinare da me,
con l'illustre....
Avanzando, io interrompo l'uno per dire all'altro:
— Ingegner Roveni! avrei bisogno di parlarle entro oggi, in libertà;
senza testimoni. I testimoni, se mai, li troveremo poi!
Egli risponde, pallido più di me, corrugando un po' le ciglia:
— Sta bene! Fra un'ora, allo studio dell'ingegner Salghi, viale
Monforte, 5. Saremo soli.
— Sta bene — io ripeto; e col capo fo segno al cavaliere che mi segua.
Fulgosi era sconvolto in modo indefinibile; dava l'impressione di un
uomo, e un uomo superiore, denudato all'improvviso là in mezzo a tutta
quella gente che faceva colazione.
Come quando una repentina bufera agita, piega, rovescia un arbusto
fiorito, sì che ne vedi il fusto brullo e le branche spinose, e i fiori
e le fronde esterne sembrano vanità in balìa del vento, io vidi allora
tutta l'intima povertà del cavaliere in quel fallace rivestimento
d'eleganza e di rettorica. Mi seguiva tacito, a capo chino nonostante
il puntello del colletto, e pareva attendersi l'ultimo sconquasso.
Non gli diedi dell'imbecille: gli imposi di non riferire ad anima
viva il mio incontro con Roveni e rimisi a miglior occasione l'invito
del pranzo. Dopo tutto gli dovevo gratitudine, perchè, mercè sua,
affrettavo la risoluzione che mi premeva.
E mi recai da Guido come avevo divisato. Ma se nella bufera il cavalier
Fulgosi scopriva miseramente sè stesso, Guido Learchi vi smarriva
interamente sè stesso. Gli affanni in Guido erano fuori di posto;
lo svisavano, e la sua faccia gioconda cedeva a impronte quasi di
un dolore fisico acuto, straziante; per esempio di un atroce dolor
di ventre. Finchè aveva potuto ripetere a se stesso: speriamo!, e
immaginar prossimo il ritorno a una beata pace famigliare, egli era
riuscito a illudere anche la sua Marcella e a mantener aperta la vena
del buon umore: sopravvenuto l'evento a cui non trovava rimedio nel
suo ottimismo e nella sua immaginazione, mi si presentò nell'aspetto
tragico, alla sua maniera.
— Che è successo di nuovo? — esclamai io, davvero atterrito.
— Zitto! per carità!...
Marcella indovinava una nuova disgrazia, e lui, con quella faccia, non
sapeva più che cosa darle a credere.
—.... che Marcella non ci senta!
Poi con un fil di voce e le braccia penzoloni mi annunciò: — Moser....
è scappato!
Il mio telegramma da Molinella era giunto a Valdigorgo troppo tardi.
Invano Eugenia aveva sperato che avvertendo Guido, Guido giungesse
in tempo di veder Claudio al suo possibile arrivo a Milano, prima che
prendesse altro treno.... Nè si sapeva che via avesse presa.


XI.

Successione così precipitosa di avvenimenti e di fatti comprendeva
fors'anche, per me, la corsa alla morte? «Altro il parlar di morte,
altro il morire», diceva a dritto e a rovescio il signor Learchi
sindaco di Valdigorgo; eppure io, attendendo l'ora del colloquio con
Roveni, parlavo a me stesso della morte ben diversamente da quando
l'apprensione di essa annientava in me la vita, e mi pareva di esserci
preparato con animo sicuro e freddo. La notizia della fuga di Claudio
mi accresceva il fastidio di un destino avverso; accresceva l'odio che
mi sospingeva contro Roveni. E Ortensia non mi amerebbe mai più come io
l'amavo; e all'amicizia avevo già pagato il mio debito. Dunque?... In
un duello a pistola non m'era difficile immaginare che Roveni colpisse
me come alla fabbrica aveva colpito nella carretta. Era stato, quello,
un ammonimento molto preciso....
Morire! «Quali dolci sorprese ci prepara la morte?» Credetemi: queste
parole di Pascal mi suonavano ora all'orecchio con invito più dolce
che quello d'andar a pranzo dal cavalier Fulgosi. Anzi! Un'impressione
strana provavo, quasi di lungo soffrire che riceverà lenimento, o quasi
di un amante che sarà appagato dopo lunga attesa.... Certo, poteva
anche accadere che io ammazzassi l'avversario; poteva accadere quel che
accade più spesso, che restassimo incolumi entrambi; ma, ad ogni modo,
bisognava far sul serio!
A Milano non ci avevo molti amici. Deliberai, alla fine, che ricorrerei
a due antichi compagni di scuola miei concittadini; l'uno ufficiale,
che mi avevan detto di stanza a Milano; l'altro che sapevo esservi
giornalista.
E risoluto, mi recai ove mi aspettava Roveni.

M'aspettava, allo studio dell'ingegner Salghi, ritto in piedi tra la
finestra e l'ampia tavola da disegno, fumando un sigaro virginia, con
l'aria di chi s'adatta a stento a ricevere un importuno o un inferiore.
Non aveva pronunziata che una parola: «avanti!», quando io, di fronte
a lui, fermo, fissandolo, dissi senza preamboli:
— Moser è scappato...
Alla notizia, mi accorsi che egli non rimase padrone di sè quale voleva
parere, e lo sforzo che sosteneva per sembrar tranquillo fu manifesto
a un istantaneo abbassar dello sguardo.
Pensò senza dubbio che se Moser era fuggito, Ortensia, non avendo più
da temere denuncia o processo per il padre, gli sfuggiva.
Io gli chiesi:
— La notizia vi meraviglia?
Allora i suoi tocchi bianchi tornarono su di me; con la sinistra
s'affilò l'uno dei baffi e disse a mezza voce, affettando incuranza.
— Peggio per lui se è scappato!
— No! peggio per voi! — Mi sentivo superiore io poichè la sua voce era
stata malferma; e volevo tagliar corto. — Peggio per voi!
E aggiunsi nello stesso tono: — Io so perchè Moser è fuggito come un
ladro! so che la colpa è vostra!
Roveni rise sguaiatamente deponendo lo sigaro su la tavola e
incrociando le braccia; ma la risata cessò d'un tratto, del tutto;
anche nell'ironia non serbava sorriso. Poi disse:
— Benone! Se Moser è fuggito come un ladro la colpa è mia! E se
domani s'imparerà che si è ammazzato, sarò io l'assassino che l'avrà
ammazzato!
— A questo punto? — io gridai. — Così, con tutta la brutalità che
non avete più coraggio di nascondermi, voi potete pensare a questa
sciagura estrema, a questa conseguenza ultima del vostro tradimento?
È l'incoscienza! E io che son venuto qua per accusarvi dinanzi alla
vostra coscienza! Non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Volevo dirvi
che non avete saputo ordire così bene i vostri inganni da scampare alla
condanna degli onesti. Ma mi accorgo che non vi ho ancora conosciuto
abbastanza! Come dovete esser tristo!
Per lui furono parole che gli diedero tempo di rimettersi e delle quali
non sospettò tutta la gravità. Credè, forse, che io parlassi vagamente
d'inganni, nè supponeva che Moser fosse salvo e che mi fosse nota
la frode perpetrata nei libri della ditta. Sempre pallido, ma sicuro
adesso nello sguardo freddo e nella voce, e privo di sorriso, ribattè:
— Adagio, signor dottore; calma! Corre troppo, lei! Lei mi ha già
detto, tutto in una volta, che io sono un ingannatore, un traditore, un
tristo, un incosciente. Lei mi sembra un rappresentante del Pubblico
Ministero che fa la requisitoria a un povero diavolo d'accusato e
gli scaglia contumelie in nome della legge. Ma prima di far la parte
di accusato io voglio domandarle in nome di chi e con che diritto si
assume, lei, la parte di Pubblico Ministero!
— In nome della vostra vittima; col diritto che mi dà l'amicizia di
Moser; col diritto di chi ebbe il torto di credervi diverso da quel che
siete e di favorire senza volere i vostri inganni.
Tacque; ripigliò il virginia. Il suo sguardo mi sfuggì mentre lo
riaccendeva riflettendo. Allo stesso modo che Learchi dalla pipa, egli
attingeva forza e prudenza dallo sigaro.
— Benone! — fece poi. — Ora le concederò di giudicarmi. Solo la prego
di lasciar da parte le parole grosse, che su di me non hanno presa.
Amo i fatti, io. Dunque: sono accusato d'inganni. Con molta calma, come
vede, rispondo che l'ingannato sono io, e glielo provo. Non ho nulla da
nascondere, io!
Il suo sguardo, divenuto tagliente, compiva il significato
dell'ultima frase: accusava egli me di simulazione. Ma troppo lontano
dall'immaginare che cosa comprendeva quella frase «non ho nulla da
nascondere, io!», non la raccolsi e attesi.
Egli proseguì:
— Per dirle tutto, le dirò anche cose che lei conosce; ma è necessario
togliere ogni dubbio, ogni equivoco fra noi due.... Quando l'ingegnere
Moser ebbe bisogno di un direttore che gli raddrizzasse la baracca,
mi chiamò a Valdigorgo e mi promise mari e monti. Fin d'allora aveva
in vista il fallimento. Io usai tutta la mia energia per riparare;
introdussi economie e riuscii a ordinare e migliorare il personale, a
migliorare la produzione. Per contratto non avevo obbligo di far la
metà di quel che feci: per compenso del di più non ebbi un soldo di
più del meschino stipendio, e le promesse sfumarono. Ma l'ingannatore
sono io! Avrei potuto trovar di meglio e andarmene subito dopo il primo
anno, e lo dissi. Mi scongiurarono di restare. M'ero affezionato alla
famiglia....
— Affezionato alla famiglia! — interruppi ironico.
— Sì: affezionato alla famiglia! Lo ripeto. Aggiungo che a Valdigorgo
rimasi anche perchè una delle ragazze Moser cominciava a piacermi.
Per essere sicuro del terreno dove mettevo i piedi, come vuole il mio
temperamento, un giorno discorsi di quella mia simpatia alla madre. La
signora o previde che io non piacerei alla capricciosa figliuola o per
la bella figliuola sperava un miglior matrimonio; ma, d'altra parte,
temeva che io piantassi in asso il marito, e mi pregò di lasciar passar
qualche tempo prima di dichiararmi.... E l'ingannatore sono io!
— Eugenia Moser accusata di sotterfugi, di simulazione, da voi?...
— Non da me; dai fatti — oppose egli. — Sono fatti, questi! Se li può
smentire, aspetti che io abbia finito: ci sbrigheremo più presto.
Lo lasciai dire.
— Un bel giorno arrivò l'amico di casa....
Ma a vedermi urtato dalla espressione, si corresse subito: —.... un
vecchio amico della famiglia; non così vecchio però da non innamorare a
poco a poco la signorina che piaceva a me. Io non sospettavo; pensavo
a un'affezione quasi paterna; non badavo alle chiacchiere. Il dottor
Sivori sapeva le mie intenzioni, le sapevan tutti: perchè sarebbe stato
sleale? Invece egli amava e innamorava la signorina.... E l'ingannatore
sono io!...
Questa volta aveva colpito meglio. Io tacqui ancora. Fatto più sicuro
dal mio silenzio, Roveni continuò:
— Ma dovetti pur persuadermi che la signorina era incapricciata di
lei, dottor Sivori. Perciò le domandai quel colloquio prima della
sua partenza; e volli dimostrarle la serietà dei miei propositi.
Sivori ha molto potere su Ortensia — mi dicevo —; la convincerà a
non far sciocchezze, a non trattarmi indegnamente. Invece lei, signor
dottore, fingeva. Dopo aver innamorata la ragazza, scappava; per una
misteriosa ragione, senza il minimo tentativo di riparare al mal fatto,
scappava.... E l'ingannatore sono io!
Domandai: — Avete finito?
— Non ancora! Quando fui stanco di fare il collegiale e di aspettare
la manna celeste, ed ebbi una nuova proposta d'impiego lontano, volli
uscir d'incertezza; interrogai Ortensia. Mi rispose: «Non ci penso,
per adesso, a maritarmi». Non era un no: potevo sperare, e rimasi.
Ma la signorina non disse no allora per riguardo al babbo, che aveva
bisogno di me. Il no venne dopo, quando la società progettata da Moser
pareva sicura e non si danneggiava il babbo disgustandomi. E sono io
l'ingannatore!
— Avete finito? — ripetei più forte.
E Roveni, più forte ma pur come chi si padroneggia anche nella vittoria:
— Non ce n'è abbastanza? Vuol dell'altro? Ecco! L'affare della società
andò a rovescio. Moser stava per fare il capitombolo; gli operai,
senza paga, minacciavano di prenderlo a sassate. All'ultimo momento mi
domanda una somma per restituirmela, s'intende, il giorno dopo. Io gli
do tutto quello che ho: i miei poveri risparmi; e il giorno dopo Moser
fallisce.... Chi è l'ingannatore? Adesso ho finito!
Buttò in terra il resto del sigaro; incrociò le braccia e con un moto
del capo più insolente che accondiscendente:
— A lei!
— Avete finito male, come avete cominciato! — feci io, a mia volta.
— Per accusar di falsità Moser, Ortensia, Eugenia, me, non vi siete
accorto che svelavate voi stesso del tutto: falso in tutto, falso
sempre! Consapevole del vostro basso egoismo, voi assumeste la figura
di un uomo risoluto e diritto nel pensare e nell'operare, ma foste
sempre un calcolatore; non prudente: astuto, doppio. Finchè, per
disgrazia, vi siete smarrito in una passione e l'arma vi si è scambiata
in mano: dopo essere stato astuto siete stato audace; e siete caduto.
— Caduto, io? — Rise in quel suo tristo modo.
— Voi! Oh credete che io sarei venuto a questo diverbio se non fossi
certo di superarvi e di smascherarvi? Giù la maschera! I vostri
benefici per Moser che scopo ebbero? Aiutare Moser valeva assicurarvi
la dote della ragazza che vi piaceva. Ma non eravate uomo, voi,
da compromettervi per un capriccio: tastar terreno, metter le mani
innanzi, predisporre la madre prima della ragazza senza compromettervi
nè con l'una nè con l'altra, era la tattica nascosta sotto l'apparenza
di franchezza e di lealtà. Corteggiare Ortensia era pericoloso;
correvate il rischio di non poter più liberarvene se le faccende di
Moser si volgessero al peggio. Il vostro riserbo intanto.... — Ortensia
era così giovane! — vi meritava la stima della madre; il padre non
poteva stimarvi di più, e Ortensia adora i suoi; al momento opportuno
avrebbe ascoltato il loro consiglio....
Con una smorfia di riso, che parve ora una stigmata di cattiveria,
Roveni venne di qua dalla tavola, si arrestò spavaldo di fronte a me,
e m'interruppe:
— In quel mentre però avrei potuto spassarmela anch'io con la ragazza
di nascosto, come faceva chi portava la maschera dell'amico di casa!
— Tacete! — urlai sul punto di scagliarmegli addosso. — Non osate
malignare, voi, sul mio affetto e su la mia condotta! Per spassarvela
voi avevate Anna Melvi! Ortensia non le rassomigliava: a diciassette
anni avrebbe già saputo frenare la vostra volgarità. Oh quando penso
che dopo gli eccitamenti di un'Anna voi, chissà quante volte, avrete
contaminato nel vostro pensiero.... — (mi arrestai con ribrezzo) —
Ma appunto ciò fu quello che vi vinse! Ortensia era tanto diversa
dall'altra!, dalle altre! Ve ne innamoraste troppo; come non avreste
mai creduto, come non riusciste a celare nemmeno ai miei occhi; ed
ero cieco per voi, allora! Chi l'avrebbe mai detto? Venne il giorno
che l'avreste sposata anche senza dote, Ortensia! Gli affari di Moser
andavano male, ma non avevate più la forza di lasciar Valdigorgo. E
non potevate immaginarvi che Ortensia vi rifiutasse; così buon partito!
Finchè venne un altro giorno che Ortensia vi disse no, addirittura. No,
a voi! no, a Roveni! Insisteste: fu peggio. La volontà di una ragazza
di diciassette anni era più forte della vostra voglia! L'amore diventò
in voi una passione delittuosa; e dinanzi all'ostacolo ricorreste alle
minacce.
— Verissimo! L'avvertii, la signorina, che potevo far molto bene e
molto male a suo padre. Colpa sua se volle il male!
— E il primo passo fu quello di dissuadere i creditori dal compor la
società: è vero?
— Sì! — Mi sfidava apertamente a proseguire sperando d'arrestarmi
tosto, e rifarsi.
Proseguii:
— Ortensia non si piegò! Allora prestaste duemila lire a Moser per
interporvi ai creditori e dominarli; per impossessarvi di Learchi e
aver in mano la rovina di Moser. Ortensia non cedè neppur allora. E voi
affrettaste il fallimento, dopo aver falsato i libri della ditta....
A udir questo, Roveni divenne livido fin nelle labbra e fece come un
serpe che si raccoglie in se stesso, incerto se di celarsi ancora o
d'avventarsi. Tentò di sorridere; ma fu un sorriso viscido e velenoso;
gli occhi bianchi mandarono fiamme. Poscia ricuperò idee e voce:
— È un'insinuazione ridicola!
Io procedevo:
— Impossessandovi anche dell'onore di Moser pensavate: se Ortensia
vuol salvare suo padre dal disonore, cederà; se non cede, mi vendico!
Ah avere amato, desiderato, aspettato per degli anni, voi, e senza
riuscirci! Aver speso duemila lire! Si ha diritto di possedere una
bella ragazza per duemila lire!... La vostra vendetta doveva esser
degna del vostro amore; della vostra passione!
Roveni rifletteva, senza più sforzo di dissimulare. Adagio, contro la
mia irruenza, disse:
— E così io avrei dato di cozzo nel codice?.
— Non so che pezzo di carta basta a difendervi!
Anche questo mi aveva detto il curatore! Colpo non aspettava colpo.
Bisognava fingere di nuovo.
— Benone! — egli riprese. — Ma che tutto ciò è assurdo, che è roba da
romanzo, lo prova un'ipotesi molto semplice, molto probabile, che lei
si è dimenticato di fare. Le parole grosse mandano a rotoli la logica!
È logico supporre che nello stesso tempo che Ortensia avrebbe dovuto
arrendersi a discrezione il curatore avrebbe potuto scoprir la frode.
Come avrei fatto io, in tal caso, a salvar il padre per amor della
figlia?
— Persuadendo Learchi ad accomodar tutto, o trovando altrove ventimila
lire. L'avrete ben prevista la via di uscita!
— E lei è proprio convinto di tutto questo?
— Convinto? Ma non vi ho già detto che Moser è fuggito come un ladro?
La frode è scoperta!
A questo punto, in un istante, vacillò e s'avventò:
— Benone! Oggi stesso informerò io il Procuratore del Re che si è
scoperta una frode nel fallimento Moser e che Moser l'ha fatto fuggire
lei d'accordo col curatore!
Credeva d'avermi abbattuto, finalmente!
Ma a udire:
— Troppo tardi! Moser è già salvo! —; a udir tali parole Roveni rimase
come a ricevere una mazzata sul capo. Il sangue gli affluì tutto al
volto. Fuori di se, mi assalì, mi afferrò al petto, inferocito — una
tigre — urlando:
— Chi l'ha salvato?
— Io!
Allora il braccio gli ricadde pesantemente; chinò il capo; sghignazzò,
livido di nuovo; disse:
— Anna Melvi aveva dunque ragione!... L'amico di casa ha salvato
l'onore del marito.... Adesso potrà sposarla, la figliola...., senza
più dispiacere alla madre....
Che cosa? Una cosa orribile! Mi parve di comprendere; compresi.... E
afferrandogli un braccio con violenza pari alla sua:
— Spiegatevi! — Aveva gettato fango e veleno su Eugenia! Eugenia! —
Spiegatevi!
Egli mi guardava fisso: — Voglio dire che il codice non contempla il
caso dell'amante della madre che sposa la figliola.
La mia destra sfiorò la guancia del miserabile. D'un balzo egli si era
sottratto da un lato. Si ritrasse verso la porta laterale e toccò il
bottone d'un campanello. Fu un attimo. Contro di lui urlavo:
— Vigliacco! Calunniatore infame! — Ma già un servo o un portiere che
fosse, evidentemente in attesa mi tratteneva. — Vigliacco! — urlavo.
— I sicari! Hai sicari in agguato! — e tentavo divincolarmi, rivolto a
lui.
Immoto, su la soglia, Roveni mi guardava; pareva attendere che mi
quietassi per parlare. Stretto da quell'altro io gridavo sempre più
forte:
— Vile! vile! Calunniatore di donne! falsario! E mi dibattevo.
— Insultatemi impunemente! — Roveni potè dire alla fine. — Non mi
batterò; non voglio mandarvi una palla nello stomaco! Dovete vivere!
Devi vivere! — Mi par di sentirlo ripetere «devi vivere!»
E agitando la destra, quasi a farmi grazia, e volgendomi le spalle, nel
rinchiudere la porta dietro di se, mormorò non so che di «vendetta».
— Fuori! fuori! — ripeteva intanto quell'altro, che mi spingeva verso
l'altra porta. Io gridavo ancora: — Vigliacco!


XII.

Non si batterebbe. Anche se insultato, oltraggiato in pubblico, si
comporterebbe da quel facchino che era e non si batterebbe, per un
lontano e oscuro scopo di vendetta. Ah no?... Ma non aveva previsto,
l'uomo sagace, che per indurlo a operare da gentiluomo e per evitarne
le bassezze c'era un modo più persuasivo di quel degli schiaffi: c'era
la stampa. Egli comporterebbe la vergogna di ogni offesa in un pubblico
ristretto e in luogo limitato, ma alla minaccia d'esser trattato da
vigliacco su pei giornali non potrebbe resistere. Doveva premergli la
stima dei molti a quell'ipocrita della lealtà, a quell'ambizioso!
Così, ardendo d'ira com'è facile immaginare, andai subito in cerca
degli amici che già avevo prescelti ad assistermi nel duello: il
giornalista e l'ufficiale.
Di buon grado essi accettarono l'incarico.
.... Non pochi che si sian trovati in attesa d'andar sul terreno
avranno avuto, oso credere, un timore più grande che quello
d'arrischiar la pelle: il timore di fare una magra figura. Un passo
di più o di meno; un colpo di sciabola tirato un po' più in basso o
un po' più in alto; un colpo di pistola sparato un secondo prima o
un secondo dopo, basta a «squalificare» un gentiluomo; cosa orribile
fin nel vocabolo. E c'è di peggio: perchè è anche possibile far
ridere con qualche errore di inesperienza; e il danno del ridicolo è
in proporzione alla solennità della funzione che si compie. Che cosa
c'è che eguagli la solennità di un duello? Nessuna. Tutte le altre
funzioni, dal matrimonio al funerale, accomunano ogni sorta di gente;
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