In faccia al destino - 01

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In faccia al destino

ROMANZO
DI
ADOLFO ALBERTAZZI

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
Quarto migliaio.


PROPRIETÀ LETTERARIA.
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda._
Milano, Tip. Treves — 1921.


IN FACCIA AL DESTINO


PARTE PRIMA.

I.

Ero da pochi giorni a Valdigorgo, e già deluso nel tentativo estremo
per cui mi ero trasportato da Molinella, alla casa dell'amico Moser,
alle Prealpi.
Non avevo avuto la speranza che l'aria di lassù mi purificasse lo
spirito; soltanto avevo pensato che la famigliarità con gente di cuore
potrebbe scuotermi il cuore. Tre anni innanzi, quando combattevo i
primi fieri assalti del nemico insorto in me, non avevo attinto lassù,
nuove forze alla resistenza? là non avevo provato il sollievo di lunghe
tregue?
Claudio Moser con animo aperto e affetto antico; Eugenia, sua moglie,
con la bontà che io non sapevo paragonare se non alla bontà di mia
madre; le figliole — Marcella e Ortensia — soavi e liete; il piccolo
Mino, instancabile al trotto delle mie ginocchia, quante volte
parlandomi nella memoria mi avevano chiamato a loro, come in porto e a
rivivere!
Ma invano! Avevo fatto invano il lungo viaggio! Fortunatamente,
se io ero a tal punto da non sentire più nulla e da rincrescere
agli altri oltre che a me stesso, fortunatamente io avevo trovato
la famiglia Moser in condizioni diverse: Claudio, sovraccarico di
faccende, s'assentava interi giorni; la moglie, non era ancora in piena
convalescenza d'una malattia quasi mortale; Marcella, da brava massaia
diciannovenne, s'intratteneva a diriger la casa; Ortensia, assisteva
la madre; e il fanciullo, prossimo ormai all'età della discrezione,
preferiva, al trotto delle mie ginocchia, tamburi, pifferi e schioppi.
— Qua sei il padrone tu — mi aveva detto Moser. — Fa quel che vuoi per
annoiarti più o meno, secondo la tua filosofia.
Pur troppo io non volevo nulla: soltanto restar solo. Dal dì
dell'arrivo non avevo più varcato il cancello. Mi appartavo nel
giardino a giacere e a sonnecchiar ignaro.
Così indifferente ero divenuto, che non mi ero accorto della differenza
delle cose intorno; non avevo riconosciuto i vecchi alberi, non
osservate le nuove piante e le recenti aiuole, quasi fossero per me
luogo e paesaggio nuovi ma senza novità, o vecchi e sempre uguali, e
sempre visti uguali.
E non per intimo impulso, ma come per inerzia, salivo ogni dì, alle ore
solite, dall'inferma. Ne' suoi occhi freddamente io scorgevo un velo di
rassegnazione se la fede di guarire le venisse meno; e al suo orecchio
le mie parole giungevano fredde, perchè non confortavano, ma soltanto
confermavano una cosa certa alla mia scienza: la guarigione. Nè a
vederla così emaciata mi veniva fatto di ripensarla quale era ancora
in salute, tanto bella e fiorente una volta! Quanti anni innanzi? Non
più di quattordici. Allora io, ero appena laureato; essa aveva Marcella
di cinque o sei anni e Ortensia piccolina. Che bellezza a vederla
con la fanciulletta a lato e quell'angiolo biondo in braccio! Una
bellezza materna. E come Eugenia era bella allora, io ero baldanzoso
e ambizioso. Rapito nel mio sogno di scienza e di gloria, appena mi
accorgevo di quel fiore di donna; e non l'invidiavo all'amico. Restavo
chiuso nella mia camera quasi tutto il giorno a studiare; non mi
distraeva la delizia del luogo; non mi rimproverava la cortesia della
buona signora, a cui tenevo sì povera compagnia.
Talvolta, nella passeggiata avanti desinare per andar incontro a
Claudio, Eugenia, come senza volere, ingenuamente, mi aveva detto di
essere troppo racchiuso in me stesso, richiamando la mia attenzione
alla vita esterna, ai bei tramonti, al bel paesaggio; e che soggezione
era in lei se io mi inducevo a discorrere delle mie idee e dei miei
studi! Mi ascoltava avvolgendomi del suo sguardo; lo sguardo che
abbelliva ora Marcella. Per la via chi ci vedeva sogguardava forse
malignamente: Eugenia non aveva ombra di alcuna malizia; e quando
incontravamo Moser ed essa sorrideva e s'accendeva di gioia, oh allora
io mi compiacevo che neppur l'ombra di un pensiero sinistro offendesse,
entro di me, l'amore e la gioia di Claudio! Non avevo avuto mai, non
ebbi mai per Eugenia un pensiero di profanazione; sempre ebbi per lei
una devozione affettuosa e pura.
Ma ora quasi mi pareva naturale che Eugenia fosse così intristita e
smunta, quasi fosse stata sempre così. A udirla narrare adagio e piano
della sua malattia e delle pene de' suoi, mi pareva d'ascoltare un
racconto non più doloroso; mi pareva naturale che nello sguardo di
Marcella passasse l'ombra di tante angosce; _naturale_ che Ortensia
poggiasse il capo accanto al capo della madre e che le rosee guance
e le guance emaciate stessero insieme un poco sul cuscino bianco, e
che le labbra vive di sangue ricercassero a quando a quando, come per
riscaldarla, la fronte esangue.
Finchè un giorno, mentre Ortensia usciva dalla stanza, dissi senza
intenzione di recar piacere, senza intenzione alcuna:
— Sono belle, Eugenia, le vostre figliole.
La madre non negò. Affermò:
— Sono buone.
Io tacqui, parendomi _naturale_ che la madre, non io, che pure le
conoscevo, ne avvertisse la bontà e che io tacessi.
Ma quello stesso giorno, avanti desinare, Ortensia mi sorprese laggiù,
sotto i tigli.
Disse scherzosa: — Riverisco! — e s'inchinò.
— Chi t'ha svelato il mio rifugio? — domandai a mezza voce. (Ubbidendo
a Moser proseguivo a dar del tu alle signorine, tuttavia bambine agli
occhi del padre....)
— Lo sapevo — ella rispose. Poi aggiunse franca: — E voglio saper
tutto, tutto!
— Che cosa?
— La mamma lo dice da un pezzo: Sivori è mutato. Si può sapere cos'ha?
Quantunque ardita innanzi a me, Ortensia m'interrogava con un sorriso
incerto; col dubbio manifesto che non le rivelerei il mio segreto,
e col rammarico che neppur lei, la mia «piccola amica» d'una volta,
meriterebbe tal confidenza. Dubitava d'un mistero. E io, che non sapevo
che dirle:
— Sono stanco — dissi; e la guardai in modo da toglierle il sospetto
del mistero.
— Stanco fin di parlare?
— Sì....; non d'ascoltare, però. Parla tu.
— Santa pazienza! Parlare? Ma di che, con lei?
Frattanto siede nell'erba e s'abbandonò non scomposta, reclinando il
capo a un tronco, e chiese:
— Che debbo dirle? Su! presto!
Ma io non avevo ancora parlato ch'essa si rialzò d'un tratto a seder
meglio.
E fermando al petto un grosso mazzo di margherite:
— È stanco anche dei fiori?
Non risposi.
Allora venne a pormi due margherite all'occhiello della giacca, mentre
ripeteva: — Sivori non è più lui! non è più lui!
Ed io scossi le spalle, impaziente:
— Parla d'altro!
— Cosa debbo dirle? Andiamo!
— Raccontami della tua vita in città, quest'inverno. Andavi a scuola?
— A scuola, io? a diciassette anni? Ho diciassette anni!
Ne pareva meravigliata essa stessa.
— E ne sai abbastanza?
— Di matematica, sì! Oh la maestra di matematica! Per tre mesi — siamo
rimaste a Milano tre mesi — tutti i giorni quella seccatura! Io non
ne azzeccavo una; le somme non tornavano, le moltiplicazioni peggio
che peggio! Come sarà che da me i numeri non si lasciano moltiplicare?
Basta; la maestra, poveretta, scuoteva la testa come una tartaruga
e sospirava: «Non ha disposizione alla matematica!» Il guaio è che
diceva lo stesso la maestra di francese, madame Duret. La conosce
madame Duret? No? non la conosce? — (Rideva di gran gusto) —. Immagini
un uomo vestito da donna, con una sottana di color malva corta corta,
una mantellina nera, un cappello di fil di ferro, il fusto s'intende,
ma con il velo e i nastri sossopra che lasciavano vedere il fusto; e
un naso, oh che naso! Buona però, tanto buona, _Madame Vous-vous_?...
Sa perchè io la chiamavo così, _Madame Vous-vous_? Perchè lei diceva:
_Bonjour, mademoiselle!_ E io: _Bonjour, madame. Comment vous portez?_
Mi dimenticavo sempre, a posta, il secondo _vous_. E lei: _portez vous!
vous! Quelle étourderie!_
— Eppoi?
— Eppoi cosa?
Non trovai altra domanda che intorno i divertimenti di lei, all'inverno.
Conversazioni? Ma che! non andavan da nessuno; non ricevevan nessuno.
A teatro sì, qualche volta....; a opere o a commedie, di cui finsi
ignorare l'argomento per non aver necessità d'interloquire e per
lasciar dire a lei, chiacchierina agile e fervida. Nell'esprimere
impressioni lontane e ancora sensibili essa aveva una prontezza
insolita, e s'arrestava a quando a quando per esser confermata nel suo
entusiasmo. Domandava: — Non è forse un bel dramma? Che bella musica,
è vero?
Ma tosto io non le badai più affatto. Mentre proseguiva a discorrere,
io, non so perchè, o perchè talora ella acuisse la voce al tono
fanciullesco e da ciò fossi condotto a ripensarla ragazzetta, o perchè
in quell'ora i suoi occhi avessero una luce più viva, o perchè la tinta
rossa del tramonto mi rappresentasse, d'improvviso, un altro simile
tramonto; non so perchè e come, io ebbi l'istantaneo presentimento d'un
risveglio in me nel rinnovarsi d'un ricordo. La memoria, repentinamente
e spontaneamente ridesta, mi ridiede in quello stato mortale una fugace
coscienza di vita.
Non rammentavo un fatto che importasse, allora, alla mia esistenza;
era anzi un fatto minimo che rivedevo e nel quale mi rivedevo con
precisione e reintegrazione di circostanze, di azioni, di aspetti, di
suoni. Con ogni senso percepii il ricordo.
E anche oggi lo riprendo e ripeto senza sforzo alcuno; in evidenza, per
me, tragica, sebbene agli altri possa parere una futile rimembranza.

Un giorno d'autunno salivo al poggio dove una volta i frati del vicino
convento riposavano dagli ozi della preghiera svagando l'occhio nel
paesaggio intorno, ascoltando capinere e rosignoli, odorando effluvii
di menta e di ginepro, bevendo aria vitale e dimenticando, paghi, che
il paradiso è per dopo la morte. Ma quel giorno, a vespero, il dominio
della mia solitudine era stato invaso; e da chi mi dichiararono alcune
voci più alte fra il chiasso che mi giunse a mezza costa. Erano i miei
amici; ragazzi e ragazze. Che facevano lassù? Quale nobile impresa?
Volli sorprenderli. M'inerpicai di traverso; mi celai a spiare tra una
macchia.
Ma bravi! ma bene! Non ci mancava nessuno. Le signorine Marcella
Moser e Anna Melvi diricciavano castagne a colpi di pietra e parlavano
sommesse; di contro, Guido Learchi, già studente di medicina, zufolava
interrompendosi per sgridare, quale direttore all'opera, e finiva
di comporre un forno con mattoni e sassi. Gli servivano da manuali
Ortensia Moser e Pieruccio Fulgosi, affaticati a raccogliere il
combustibile.
— Là!
— Nella siepe!
— Sotto al noce!
Furettavano dappertutto e per poco non mi scovavano.
Pieruccio più svelto di tutti ammucchiava foglie e fronde, che Ortensia
recava a bracciate.
Guido protestava:
— Legna grossa e secca! Con questa non si fan bracie!
— Ecco! A te! prendi!
— Che uomini! Un'ora per fare un po' di fuoco! — gridava Ortensia.
E Learchi a bofonchiarla: — Meh! meh! meh!
Poi egli diede uno scapaccione a Pieruccio ordinando:
— Spicciati, tu! Altra legna! legna! dico legna!
Finchè annunciò: — Pronti! — e appiccò il fuoco. Un clamore d'applausi
salutò le prime volute di fumo.
— Forza! Siete in ordine?
— Sì, ma non le bracie!
Quand'ecco Pieruccio venne da lungi con grida più alte:
— Legna grossa, signori! legna da carbone! — Si traeva dietro una panca.
— Da bruciare?
— Sei matto?!
— Bruciamola! Bruciamola!
— Non si può! Non è nostra! — protestava Marcella.
— È rotta!
— Bene! Va bene, questa!
— Bruciamola!
— No!
— Sì!
— Sì! Bruciamola!
Urtoni, strappi, scappellotti, strida.
E io piombai in mezzo alla mischia.
Allora! Dopo il breve silenzio della sorpresa:
— Eh! Chi si vede! Ben arrivato! Buona sera! — Sta bene? — Ma si
accomodi! — Che cosa comanda? — Uh, che faccia!
Sostenendo io, quantunque a fatica, il cipiglio di severità, le tre
signorine, raccolte insieme a braccetto per comune difesa, mi risero in
faccia; mentre Guido ripeteva inchini e chiedeva:
— In che possiamo servirla?
Quieto solo lui, Pieruccio, mi attaccava un riccio nella giacca, alle
spalle.
— Punto primo! — urlai (Oh in che imbroglio mi ero messo!) — Qui si è
rubato!
— Nossignore! — S'inganna! — Non è vero!
— Lasciatelo dire!
— Si sono sbattuti i castagni!
— È falso! — Calunnia! — Calunnia! — Lasciatelo cantare! Ha invidia! —
Si calmi....
— Questi ricci sono stati staccati dalle piante! Ho visto! Si vede!
— Uh!... Bugia! Li abbiamo raccolti in terra!
— Tutti? — interrogavo ora chi non mentiva mai: Ortensia.
— In terra! erano in terra!
Ma Ortensia rispose:
— Due soltanto....
— E chi li ha tolti?
— Io!
Sincera fino alla sfacciataggine. Tutti, tranne Pieruccio, il quale
cheto cheto proseguiva l'addobbo al mio dorso, risero, e le dissero: —
Brava!
Io urlai ancora:
— Punto secondo! È proibito mangiar castagne o cotte o crude prima di
desinare.
— Brrr! — Ha ragione! — Non gliene daremo nemmeno una! — Sì! una,
perchè ne faccia la voglia! — Nessuna! Nessuna! — Poverino!...
Anna aggiunse: — La finisca! —; e la timida Marcella, anche lei: — La
smetta!
A cui seguì stentorea la minaccia di Guido; la minaccia studentesca,
piazzaiuola, anarchica, spaventevole:
— Abbasso i poliziotti!
— Abbasso!
Che fare? Chi mi salverebbe? Solo un incidente imprevedibile. Infatti
Pieruccio, compiuta l'opera sua, mi punse d'un riccio a un polpaccio,
e io mi gli rivolsi contro....
— Evviva! — Parve si scoprisse un monumento. Tal gioia fu a vedermi
tappezzato a quel modo, che le signorine e il monello minore fecero,
a mano a mano, catena; mi rinchiusero in un cerchio; mi rigirarono
cantando in coro:
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulera!
È arrivato l'ambasciatore,
Ulì, ulì, ulà!
Intanto Guido sopperiva alla bisogna.
Punf! paf! Due castagne scoppiarono: Marcella e Anna mi presero a
braccio; Ortensia mi ripuliva; Pieruccio accorse e si scottò le dita.
— Sia buono! — cominciarono a pregarmi i meno ingordi. — Non faccia la
spia! Mangi con noi! — E mi convenne sedere al banchetto, complice o
manutengolo.
Ma (approssimava il tramonto) dal fondo dell'anima io mi sentiva
sorgere a poco a poco un'uggia che oscurava il sollazzo cercato con
simpatia puerile; e in me avvertivo come uno sforzo a dimenticare
la differenza dell'età fra me e coloro, e provavo come il rimpianto
di quell'età, e mi chiedevo se a quindici anni io avessi avuto una
giornata di così piena giocondità, di così assoluta spensieratezza.
I compagni ridevano, motteggiavano, bofonchiavano, si eccitavano a
vicenda, maggiori e minori, per esilarare ed esilararsi sempre più; e
il giorno era per morire, nel modo dei giorni d'autunno.
Finchè, sazii, si levarono; avventarono nel fuoco quanto fogliame
poterono raccogliere d'intorno, e dopo nuovi applausi ed evviva,
a rincorse, strillando giù per il viale, tutti m'abbandonarono: un
drappello di passeri che aveva spiccato il volo.
Si confusero le voci; echeggiarono forti; tornarono deboli; cessarono
interrotte e furon riprese là in fondo, lontano, da un richiamo più
alto; morirono.
Intanto il sole cadeva in un'onda di vivo sangue e i raggi che ne
sprizzavano, colpendo il monte avverso, vibravano tra i faggi, gli
abeti e i castagni della densa costa boschiva, sì che pareva, a fusti
d'ametista e di zaffiro, una selva incantata, tutta fulgida d'oro,
sfavillante. A nord i monti in cerchia dove non avevano luce o non
ricevevan riverbero, annerivano; mancavano i profili e i contorni;
scemavano e sfumavano le ultime vette; e dalla parte di mezzodì,
sulla plaga che scampa alle due catene protese quasi per un impotente
abbraccio, su per la pianura immensa aperta all'orizzonte, il cielo
digradava dalle tinta di viola e un'opalina bianchezza, a un cilestre
che diventava azzurro, a un azzurro che incupiva sempre più; finchè
terra e cielo insieme terminavano nell'oscurità.
E silenzio. Non più voce alcuna; non una squilla. D'improvviso, come
non mai, neppure in una notte serena lontano agli uomini e perduto
sotto l'infinito; neppure in mezzo al mare ricordando la patria e
cercando indarno un limite terrestre, io mi sentii allora, come non
mai, solo. Non un grido, non un suono; oblio. E in quell'oblio d'ogni
cosa viva per me, d'ogni mio pensiero, smarrendomi nella percezione
dell'attimo, veramente io patii il senso di un superstite che scorgeva
dall'una parte la cruenta morte del sole e dall'altra l'estrema
illusione della vita, mentre da dietro incalzavano le tenebre, la
morte precipitava; e avevo dinanzi l'infinito per rifugio, e tutte le
mie forze vi tendevano quasi in un disperato ritorno per una disperata
salvezza; e invano, chè una forza più valida mi avvinceva lassù: solo.
Cercai anche con incerti occhi il fumo che rimaneva del falò acceso
dai ragazzi; e quel povero segno umano vaporava subito, svaniva; non
altro a vederlo che quanto rimaneva d'un rogo con cui pochi mortali,
già travolti nelle tenebra, avessero creduto placare il Dio o il fato
inesorabile.
Non un suono, non un grido; morte. Ma allo smarrimento di me stesso,
che volevo fuggire da me stesso e non potevo, mi seguiva a poco a poco
una rassegnazione di schiavo, una prostrazione di vile, un impulso a
pregare, una tentazione a piangere, un doloroso desiderio dei miei, che
mi avevano preceduto nella morte e nell'ombra.
— Che fa quassù?
Mi voltai. Ortensia accorreva.
— È ora di pranzo — esclamò giuliva.
Ella ansimava per la corsa e per l'erta.
Ma arrestandosi d'un tratto, non attese più a me; rapita d'un tratto,
più presto di me, con maggior impeto verso quella splendida agonia del
giorno.
Quindi mutata in viso mormorò:
— Che tristezza, non è vero?
Io la guardai negli occhi. E vidi un'anima.

Non era strano che questo ricordo di tre anni avanti mi tornasse in
mente ora, quando la mia mente ripugnava da ogni considerazione che non
fosse il mio male presente e immenso?
Poi seguì al ricordo un'idea ugualmente strana: — per riprender la
vita non mi gioverebbe tornar fra ragazzi quale un ragazzo? — Guardai
Ortensia mentre chiacchierava.... _Avevo visto un'anima...._ Ma adesso
Ortensia era sui diciassette anni; era una giovinetta; e come per tutte
le altre della sua età, belle o brutte che siano, null'altro le ferveva
negli occhi che la giovinezza.
Ancora deluso, in me svanì l'effetto di quel primo risveglio della
memoria; scomparve l'idea che l'aveva seguito fugace al pari di un
baleno; ripiombai nel vuoto.
— Ohe! Non risponde? — esclamò Ortensia quando fu stanca e, a una sua
dimanda rimasta sospesa, s'accorse che non le badavo più. Aggiunse,
malcontenta: — Mio Dio! che uomo!
Mi sembrò allora che la baldanza della giovinetta celasse un segreto
timore; pensai ch'ella e forse altri dei Moser dubitassero di vedermi
impazzire.
A confermarmi nel sospetto quella stessa sera, a desinare, Claudio si
ricompose la barba come soleva in caso di pensieri molesti, e un po'
oscurato nella faccia, di solito così serena, mi disse:
— Senti, Carlo: aut aut: o tu mi accompagni giù in pianura, tutti i
giorni, a goderti con me trentacinque gradi all'ombra, o mi dai la tua
parola....
— Ah! — interruppi — Eugenia ha detto anche a te che Sivori non è più
quello?
Fu una dimanda aspra, con un sorriso amaro.
— Non c'entra Eugenia. Io, io, a ricordarmi che ho un amico a casa mia
che s'annoia mortalmente e che per non annoiarsi è costretto a meditare
su l'impossibile....
Scossi, annoiato, le spalle.
—.... un amico che non lavora come me, all'antica, più con le gambe
che con la testa, ma un uomo moderno, che lavora solo di cervello e
che è venuto da me per riposarsi e non può, perchè non ha distrazioni
e non ne vuole, io ci patisco, perdio! me ne dispiace molto! Sforzati
a cacciare il malumore....
(Sorrisi a udirmi attribuire soltanto del malumore....)
—.... Devi darmi la tua parola che uscirai dal covo, ti muoverai,
andrai in paese, alla fabbrica, da qualche parte insomma, purchè quando
torno a casa non ti veda con quel muso da Spinoza!
— Sta tranquillo! — feci io —; non medito; non mi annoio: mi riposo.
L'aria di Valdigorgo basterà per guarire un po' di stanchezza....
— Sicuro che dovrebbe bastare!...; ma intanto il tuo muso da Spinoza
offende Valdigorgo, offende questo paradiso terrestre, offende me!
Mino chiese: — Babbo, chi è Spinoza?
Claudio lo conosceva solo di nome; tuttavia rispose pronto e feroce:
— È un bravomo senza giudizio come Sivori! Se diventassi uno Spinoza
anche tu, ti strozzerei! E voi, — aggiunse rivolto alle figlie — perchè
dimenticate la consegna di non lasciare a Sivori un minuto di quiete?
Tormentatelo, talpe!; fategli tutte le birichinate che vi verranno in
mente!...
Marcella si scusò dicendo che temevano disturbarmi. Più ardita,
Ortensia mi fissò un istante e promise che lei e Mino mi avrebbero
scovato da per tutto e me ne avrebbero fatte delle belle.


II.

La mattina dopo mi incamminavo al di là del cancello per la via montana
a cercar un nuovo e più sicuro nascondiglio. Ma troppo tardi! Ortensia
mi raggiunse di corsa.
— Andiamo a salutare _Giovannin_?
Andammo là, presso il muricciolo di fronte alla villa, dove ogni
mattina Giovannino il cieco veniva, con lo sgabelletto sotto il
braccio, l'organetto in una mano e il bastone nell'altra. Ivi, accanto
al muro, sedeva ad aspettare l'elemosina mentre riprendeva dallo
sfiatato strumento l'«addio, mia bella, addio!»; e intanto borbottava
e sorrideva, nessuno sapeva a chi.
Per gli occhi aperti e immoti non vedevano le spente pupille; non
aspetto di cielo e di campagna o di persona tornava alla memoria di
quel povero diavolo. _Giovannin_ sorrideva, ma d'un sorriso cieco
anch'esso, come per una insistente contrazione delle labbra, o
per ebetudine; finchè non sopravvenivano i monellacci. Allora, giù
l'organetto e su il bastone! S'alzava in piedi, ad armarsi anche dello
sgabelletto, quando i nemici l'assalivano troppo da presso; e alle
beffe rispondeva con parole oscene, che anch'egli aveva apprese. Senza
dubbio però quell'omicciattolo dalle gambe rachitiche e storte, dalla
testa enorme, su cui non bastava il cappello elemosinato, dalla fronte
nera di schianze per botte contro i muri, dal dorso informe nel gabbano
non proprio, dai piedi perduti in mostruose scarpe, quel miserabile
aveva talvolta consolazioni per le quali sorrideva in altro modo, con
un barlume di pensiero e di sentimento.
Ortensia gli chiese:
— Sai chi sono?
Subito egli, tutt'allegro:
— Ortensia di Claudio!
Fin da bambine Ortensia e Marcella gli recavano i dolci e le frutta.
— Mi vuoi bene?
— Come a Dio!
La ragazza ruppe in una risata esclamando: — Troppo! troppo! — Ma quel
troppo rispondeva a una elemosina più copiosa del solito.
Scambiate poche altre parole col cieco, Ortensia mi chiese:
— Va a spasso?
— Sì.
— Buona passeggiata!
Nient'altro ella disse; non dimostrò intenzione d'accompagnarmi, nè
fece alcun accenno alle raccomandazioni paterne della sera innanzi.
Fosse nel suo contegno delicatezza spontanea, o suggerita dalla madre,
le scorsi in viso il sincero augurio che la passeggiata mi facesse
bene. Quasi che camminando io potessi fuggir da me stesso!; quasi che
io potessi non riferir la mia miseria a ogni cosa che trattenesse
il mio sguardo, a ogni persona che incontrassi! Mi confrontavo a
Giovannino. Ero forse men cieco di lui io che vedevo senza lume di
ragione l'infinito universo e nell'infinito universo vedevo senza
un perchè l'atomo del mio corpo, l'attimo della mia esistenza?
Ma _Giovannin_ almeno or s'adirava, or sorrideva. Io invece non
sentivo nulla, più nulla! Oh, non potendo amare, se avessi potuto
odiare! Odiare con la voluttà del despota che uccide e distrugge,
con lo scherno del misantropo che nega ai credenti e agli illusi la
possibilità d'esser felici! Odiare il gregge matto che pasce e si
riproduce nei pascoli opimi o fra i triboli, e bela invocazioni alla
felicità! Odiare l'umanità che trovò il telegrafo e perdè Dio; che
rintraccia bacilli mortiferi e patisce il raffreddore; che proclama
fratellanza e perfeziona la guerra; che va in chiesa e s'uccide per
amore; che scrive poemi e pute!
Ma neanche odiare potevo! Nulla! Per me al mondo non c'era più
nulla! Solo quel vuoto enorme entro di me.... — Buona passeggiata! —
Voleva forse l'augurio che divagassi lo sguardo per i noti luoghi e
ricuperassi altri ricordi?
Ebbene: mentre salivo alla strada dell'antico convento, sulla porta
della prima casupola, trovai, di poco mutata, la pallida fanciulletta
che un giorno, con gli occhi nel mistero, m'aveva dimandato: — Li fa la
gatta i gattini?
Ed ecco da questo ricordo derivarne, non so come, un altro: di una
faccia puerile anche più pallida. Era tra le memorie della mia gaia
vita di studente l'impressione che provai un giorno, quando su la
tavola anatomica vidi un compagno spolpare le gambe d'un bambino.
Tranquillamente m'ero esercitato in più d'un cadavere.... Eppure la
vista di quel bambino...., che impressione! Or dunque ascoltai se
questo ricordo mi rinnovasse il senso penoso di quell'impressione
antica. No. Rimase un ricordo del tutto mentale; non sentivo più nulla;
e la pallida ragazzetta, riconoscendomi, stupì che non le dicessi
nulla.
— Buona passeggiata! — Poco oltre, a una seconda casupola, intravvidi
il calzolaio socialista, che, un giorno, alla mia richiesta se pensasse
di non dover più tirar lo spago nella sua repubblica sociale, aveva
tratto dalle ginocchia una logora ciabatta, e mostrandomela aveva
risposto:
— Invece che rappezzare di queste, cuciremo scarpe nuove!
Così il ciabattino concepiva le sorti progressive dell'umanità! Ma a
rivederlo, ecco un altro ricordo: nelle sorti progressive dell'umanità
io ci avevo creduto più di lui! Una fede più grande io avevo avuta!
Ah i bei tempi quando dallo studiare il male in questo o in quell'uomo
ero risalito a studiar la vita di tutti gli uomini; dalla medicina alla
storia, dalla storia all'antropologia, alla biologia, alla psicologia,
etcetera, e avevo distrutto dei e religioni, filosofi e sistemi, per
conquistare positivamente Dio!
Bei giorni anche quando avevo visto morire i miei con sereno dolore,
con nobile rassegnazione alla necessità della vita!
Bei giorni quando la morte non mi faceva ancora ombra all'amore e delle
donne amate per brev'ora non scorgevo lo scheletro, non mi chiedevo
perchè e come era viva la carne che ne rivestiva lo scheletro!
Chi mi avrebbe mai detto in quei tempi di fede: Verrà il dì che
proverai in te un male a cui non basteranno le docce, da te consigliate
adesso a chi non ha la tua fede! — Altro che nervi esausti! Il cuore,
il cuore era esaurito; e non di sangue; e a tal punto che...
Meglio ridere!
Al bivio presi la via del monte. Ci rividi Martino, cenciaiuolo e
merciaiuolo, che scendeva con la biroccia e l'asino. Dei due, chi
mostrava più segni del tempo trascorso nella mia assenza, non era
l'asino, era Martino. Aveva la barba bianca e camminava curvo; non
come una volta a lato alla biroccia, ma dietro. L'asino invece, tale
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