In faccia al destino - 16

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ma i gentiluomini che si battono con tante regole son gente fuori del
comune e più in alto; se no, non si batterebbero così. Ne viene che uno
che faccia ridere in un duello è disprezzato pur dalla gente comune,
la quale non si batte con tanta solennità. Ebbene, io ero disposto a
morire, ed ebbi questo timore! Attendendo che i padrini tornassero
cercai prepararmi con la fantasia ad evitare così gran disgrazia;
nè mi domandavo se per l'addietro ci avrei pensato su tanto; nè mi
meravigliavo d'essere così tenuto a modalità della vita proprio sul
punto di rinunciarvi. Contraddizione ridicola, insomma, ma prova anche
questa del mutamento avvenuto in me.
Mi immaginavo sul terreno; avanzavo numerando i passi; sparavo mentre
vedevo Roveni procedere nella stessa guisa. Con uno sforzo resistevo
alla tentazione istintiva di chiuder gli occhi e li spalancavo al
momento del colpo. Guai se chiudessi gli occhi!: farei credere d'aver
paura!; farei ridere i testimoni dell'una e dell'altra parte! Studiavo
anche la miglior maniera di comportami durante le disposizioni
preliminari; e non esitavo a figurarmi la catastrofe, cadessi io o
cadesse Roveni....
Però insieme con questo ricordo di vaga e insulsa comicità mi è rimasto
il ricordo serio di un sentimento che allora mi sembrò un presentimento
assai triste. Mentre fantasticavo in tal modo, mi si affacciarono
alla mente, d'improvviso, le immagini di mio padre e di mia madre;
con perspicue sembianze di dolore. Mia madre ancora giovine, pallida,
sorridendo di quel sorriso che nessun volto mai ebbe per me, e quale
mi guardava allorchè io, ragazzo, ero malato; mio padre con quei
suoi occhi pieni di bontà e il capo un po' chino, come sotto un peso
di sventura. L'impressione che n'ebbi mi fece dubitare di rimanerne
troppo a lungo commosso. Forse...., di là...., mio padre e mia madre
attendevano, così, il mio destino incerto anche per essi?
«Chi sa quali sorprese ci prepara la morte?»
Ma, di ritorno, gli amici apparvero visibilmente malcontenti nello
stesso modo e nella stessa misura, non so se più di me o di Roveni.
Mentre il giornalista mi sogguardava, ripulendo gli occhiali col
fazzoletto, il rigido ufficiale parlò:
— L'ingegner Roveni s'è trincerato dietro l'articolo 151.
— Che articolo?
— «Si respinge la sfida dell'offensore che ha provocato ed offeso senza
giusto motivo».
— Senza giusto motivo?
Era il colmo della sfrontatezza!
— Lo sfidato — riferì il capitano con l'attitudine di chi cita un
nobile esempio — ha ascoltato le nostre comunicazioni senza commento;
solo, ha preso il codice Gelli e ha indicato l'articolo 151 dicendo:
«Ecco la mia risposta».
— Io però — disse il giornalista — son uscito dalla prammatica che
obbliga i padrini a non discutere e ho avvisato quel signore che si
pubblicherebbe il verbale. E lui: «Risponderò pubblicamente, se il
dottor Sivori vorrà lo scandalo!» E io: C'è poco da rispondere! E lui:
«Mi basterà dire ciò che potrò provare: che l'ingiuriato fui io; che
credetti mio dovere non raccogliere le offese, e credo mio dovere non
dar seguito alla vertenza per non compromettere due signore: quella
che il dottor Sivori si sente in obbligo di difendere e quella che io
non ho l'obbligo di difendere, ma che mi fornì la notizia sgradita al
dottor Sivori».
(Eugenia Moser e.... Anna Melvi!)
— Allora io ho detto — proseguì il giornalista —: Badi, signor
ingegnere, che nessun articolo di nessun codice o nessuna signora di
questo mondo tratterrà Sivori dall'assalirla pubblicamente, e la stampa
riferirà l'accaduto. E lui: «In tal caso, trascinerò il dottor Sivori
in Tribunale, e lo scandalo sarà più grande e più doloroso per una
terza persona: il dottor Sivori sa quale».
Ortensia! Ortensia apprenderebbe ciò che si diceva di me e di sua madre!
— Dopo ciò, che si fa? — il giornalista mi chiese.
Ero annichilito! Ad ogni costo, dovevo evitar il pericolo di quella
propalazione infame! Dovevo cedere alla minaccia.
— Dopo ciò — io dissi — voi vi sarete convinti che io ho a che fare con
un mascalzone furbo e pericoloso.
Ma il giornalista: — Io sono convinto che tu hai a che fare con uno che
ha paura!
— Roveni — osservai sorridendo, per celare l'intima angoscia — è un
formidabile tiratore a pistola.
Osservò l'ufficiale:
— Eh! credi non si possa essere tiratore formidabile e nello stesso
tempo aver paura?


XIII.

«Si ricorda?» Con compiacenza patetica Anna Melvi, quel dì che andammo
alle Grotte, m'aveva chiesto: — «Si ricorda di quando io e Marcella,
piccoline, correvamo innanzi, mentre lei e la signora Eugenia andavano
incontro a Moser, e la signora Eugenia portava in braccio Ortensia? Una
Madonna! E a chi ci domandava chi era lei, noi non sapevamo che cosa
rispondere....»
Io sarei stato, allora, l'amante di Eugenia!
Anna quel giorno lontano pensava: «Verrà forse l'ora che te ne farò
ricordare amaramente». Così pensava per punirmi del mio disprezzo.
Io la ferivo; io avevo scoperta e manifestata la sua intenzione di
accalappiare Roveni. Guai se l'ingegnere le sfuggisse!
Finchè aveva sperato di sedurlo, la Melvi aveva taciuto: perduta ogni
speranza, essa si era proposto di vendicarsi, a un tempo e a un modo,
di me, di Ortensia — la rivale preferita —, e di Eugenia, colpevole
d'esser la madre di Ortensia. E non era un bel colpo far appunto Roveni
strumento della sua vendetta?
Ortensia infatti amava me; dell'ingegnere non voleva saperne. Ma Roveni
apprendendo che io ero stato l'amante della madre, troverebbe ben lui
la via a impedirle il mio matrimonio con la figliola!
Quante volte Anna Melvi, mentre osservava Ortensia con l'invidia e
l'odio di cui è capace una rivale abbattuta, doveva aver pensato: «Per
colpa tua e del tuo Sivori io non avrò Roveni, ma tu non avrai Sivori!»
Nè c'era da meravigliarsi che Roveni avesse creduto a una donna
spregevole anche per lui! Le anime triste hanno legami di reciproca
fiducia pur quando sembrano avverse. Poi, nessuno meglio della Melvi,
la quale fin da bambina capitava alla villa Moser, poteva malignare con
apparenza di verità intorno all'antica amicizia di Sivori e di Eugenia.
Poi, venne il giorno che Sivori abbandonò Ortensia, e ciò confermava
la calunnia; persuadeva magari Anna stessa d'aver cólto nel segno!
Ah verrebbe forse un altro giorno: quello che Ortensia imparerebbe il
perchè io l'avevo abbandonata: perchè ero stato l'amante di sua madre!
Tal giorno dovette parer prossimo ad Anna quando Ortensia respinse
definitivamente Roveni.
Se non che costui non era solito a precipitare: aveva creduto alla
calunnia, ma se ne varrebbe solo a tempo opportuno....

(Sfinito dai lunghi viaggi, dalle notti insonni, dalle battaglie di
pensieri e parole, io m'ero gettato sul letto.
Ma mi contorcevo e dibattevo in questa rete in cui i miei nemici mi
avevano preso).
.... E mi ero dimenticato affatto, per lungo tempo, di Anna Melvi...!
M'era uscito affatto dalla memoria quel suo: «Me ne infischio....
per ora!» Intanto l'altro sghignazzando mi ammoniva alla prudenza:
«Giudizio! Non provocatemi in nessun modo; se no, rivelerò tutto a
Ortensia». Questa la minaccia che Roveni aveva sospesa sul mio capo, di
una terribile vendetta avvenire.
Ma insomma: chi conoscendo Eugenia Moser e me potrebbe credere
alla calunnia, a un'infamia? Nessuno, tranne quelle due anime
triste. Potrebbe dunque credervi Ortensia se Roveni arrivasse alla
vigliaccheria estrema? Era un sospetto assurdo, il mio! mi ripugnava
fin concepirlo più chiaramente..... Infatti, a poco a poco, la mente mi
si ottenebrava. M'assopii. Mi riscosse il pensiero di Claudio. Allora
mi sfogai contro di lui.
Avevamo pattuito io e Guido che il primo a ricever nuove di Moser le
recherebbe all'altro. Guido non era venuto a cercarmi all'albergo nè
mi aveva mandata alcuna notizia. Nessuna notizia! Claudio però avrebbe
dovuto aver più fiducia in me e ritardare quant'era possibile così
dolorose angustie alla sua famiglia. Sapeva Ortensia della fuga del
padre? L'avevo vista in preda a un orgasmo di follia allorchè mi aveva
detto, a Valdigorgo, che l'onore del padre era in pericolo. Che aveva
fatto, quanto aveva sofferto se Eugenia non era riuscita a celarle la
verità della fuga? Ah! che pena, mio Dio!
Ma anche una tal pena, a poco a poco, cedette alla stanchezza; e mi
addormentai.
.... Dopo non forse più di mezzora mi risvegliò la voce del cameriere,
il quale mi annunziava la visita di un ignoto.
Benchè desto di soprassalto, io mi sentivo nel sangue il breve ristoro
e nello spirito quella leggerezza che si ha dopo il riposo e prima
di riacquistare la piena coscienza dei propri mali. Accolsi quasi
lietamente il visitatore. Egli, il signore ignoto al cameriere, era
il cavalier Fulgosi; e io pensai, lì per lì, che venisse per riparare
con i complimenti e le scuse al caso topico della mattina. Ma tutta la
sua persona, cedendo a strane mosse, rivelò un turbamento nuovo e più
grande. Volgeva il capo a destra e a sinistra, come una galana, per
accertarsi che potevo udirlo io solo; quindi avanzando come le gambe
lo reggessero a fatica esclamò con quanta efficacia d'espressione può
attingere un afono: — Ha scritto!...
Moser — compresi subito — aveva scritto a lui; a lui che così pallido
dava immagine di un morto con la barbetta e i baffetti tinti. Cadde a
sedere e:
— Ha scritto.... Son compromesso!
Quel terrore senza ragione e, più, l'amarezza che egli manifestava
d'essere sacrificato senza voglia, indegnamente, mi fecero gustare un
po' d'indugio a dimostrargli che avevo compreso.
— Ha scritto.... Chi?
— Lui! — E si guardò attorno balbettando: — _Ci Emme_.
— Claudio Moser? — feci io a voce alta.
Il gentleman tenne per strombazzato a tutto l'albergo il suo pericoloso
segreto; s'immaginò l'albergo circondato dalla polizia; e alzati gli
occhi al Cielo e aperte le braccia al fato, significò che tutto egli
aveva perduto benchè avesse fatto il possibile per non perder nulla.
— Moser ha scritto a lei?
Annuì col capo in silenzio; trasse dal portafoglio e mi porse una
lettera. Scriveva da Genova. Al cavaliere, quale fidato amico, Moser
accennava che dolorose circostanze l'avevano indotto ad allontanarsi da
Milano e lo pregava di cercare di me. Mi troverebbe dove gli direbbe
Guido: io, con falso indirizzo, l'informerei nel caso gli convenisse
imbarcarsi....
— Perchè scrivere proprio a me, che ho famiglia? — susurrava, nel
mentre che io leggevo, il cavaliere. — Compatisco...., compiango....;
ma per riguardo alla mia posizione, nella mia qualità di ex-ufficiale
dello Stato...., non avrebbe dovuto.... mettermi a rischio.... di
comparire suo.... complice! Che accadrà...? se si scopre che io?...
«Scappi anche lei in America», ebbi voglia di rispondere. Senonchè
l'ometto poteva essermi utile; e gli tolsi la paura di corpo.
— Stia tranquillo! Moser ha perduto la testa. Non ha mai avuto e non
avrà mai conti da pareggiare con la Giustizia.
— Davvero? Proprio? Oh come ne godo!
Avevo ridato la vita al morto!
— Se lo dice lei, dottore, non ci può esser dubbio!
E il più bell'indizio del miracolo da me compiuto fu che il cavaliere
estrasse il fazzoletto e si spolverò le scarpe; quindi ricorse al noto
taschino che teneva in serbo il famoso astuccio con lo specchietto e il
pettinino dei baffi.
— Ne godo, da amico! Non dubitavo neppur io, in fondo.... Mi pareva
impossibile che quel bravo ingegnere!... Solo, lei comprende, era
legittimo, umano il timore che io, così impreparato al servizio,
piccolo servizio impostomi dall'amicizia, io, dico, potessi rimettere
del mio decoro....: l'onore.... l'onore _avant tout_!
— Via! — feci, non concedendogli per buone quelle scuse —: da un uomo
di cuore quale è lei, un uomo d'onore e in disgrazia quale è Moser deve
sperare qualche cosa di più che parole!...
Con lo specchietto a mezz'aria Fulgosi non dissimulò di sentir il
rimprovero e disse sinceramente e umilmente:
— Giacchè lei m'assicura...., dica tutto quello che posso fare e lo
farò volontieri.
Così dicendo pareva un altro uomo; diveniva simpatico.
— Ad avvertire Moser che non corre alcun pericolo e che deve ritornare,
penso io. Lei e Guido pensino a Eugenia. Anzi: perchè non lei solo,
subito?
— Io? Ma certo! Vuol telegrafare? Corro subito! — esclamò l'ometto
scattando in piedi. — Ho la carrozza!
— A telegrafare penso io. Lei.... va a Valdigorgo! Meglio di ogni altro
lei può tranquillare la povera Eugenia, e Ortensia. La visita di un
amico cordiale in questi casi è un gran benefizio. Lei dirà che mi ha
visto tranquillo e contento; che io stesso l'ho pregato di recar lassù
la buona novella: gli affari del nostro amico sono accomodati.
— Ci vado! — Riposto al suo luogo l'astuccio dello specchietto e del
pettinino, Fulgosi portò la mano al cuore quasi per un giuramento o per
un voto. — Ci vado davvero! _Coute que coute_.
Tosto però l'entusiasmo sembrò cadergli nella dimanda:
— Ma arriverò in tempo per il treno delle diciotto e venti?
Arriverebbe in tempo, affrettando il fiacre, anche ad avvisare la sua
signora, che non dubitasse di un dramma o non soffrisse di gelosia se
non lo vedeva a casa all'ora del desinare.
— Vado! — ripetè; non senza aggiungere:
— E la ringrazio, dottore, d'avermi dato occasione a dimostrare la mia
sensibilità per quelle gentili signore, a torto provate dalla sventura!
Mosse rapido fino alla porta. Ma ivi s'arrestò; si voltò indietro, come
trattenuto da un ostacolo impensato, insormontabile.
— E desinare? Dove desino?
— Nel vagone _restaurant_!
— _Parbleu_! — L'idea gli irradiò il volto. Desinare in un vagone
_restaurant_ nobilitava vieppiù il suo sacrificio.... E partì.


XIV.

Per parte sua, Guido Learchi nell'apprendere da me che era imminente
l'arrivo di Moser si mise a ballare con poca dottorale dignità.
Tutte le bugie inventate faticosamente, per quietare Marcella intorno
l'assenza del padre, gli disparvero dalla faccia come le nubi, che
restano di un temporale, al soffiare d'una brezza rasserenante; e
la timorosa Marcella, a quel ritorno di letizia, si accertò che un
gran malanno era accaduto e rimediato. Con insistenza non tediosa
m'interrogava, mentre dalle sue braccia il bambino mi guardava con la
stessa dolcezza degli occhi materni. Non mi schermii abbastanza bene;
ella si persuase che suo padre mi doveva molto; e forse fin d'allora
concepì la prima idea del tiro che mi giocò poi.
Quello stesso giorno, tornato all'albergo per attendervi Claudio,
pensavo che dovrei riprendere subito la via dell'esilio, ove cercar
maggior guadagno che per il passato, e partirei forse senza rivedere
Ortensia, quand'ecco mi sovvenne di certe parole udite dal Biondo,
laggiù, allorchè mi preparavo a dargli il gran colpo. A quel ricordo
s'accompagnò un'idea curiosa, ridicola dapprima, quindi sempre meno
strana, sempre più opportuna e lusinghiera. M'aveva detto il Biondo che
a Molinella era richiesto un altro medico.... Perchè no? Io ero certo
che sarei bene accetto al paese e a quell'amministrazione comunale. Il
dottor Sivori ridursi medico in risaia! — rimbrottava in me l'orgoglio.
— Per guadagnar più che per il passato! — ghignava l'interesse. — Fine
degna di un filosofo! — notava la coscienza a cui non sfuggiva la nuova
contraddizione.
Infatti la mia vecchia casa, che adesso mi pareva di amare più di
quel che l'avessi amata mai, poteva scusarmi del ricercare un magro
stipendio là dove non possedevo più quasi nulla e di dove ero partito
coll'indefinibile proposito di rifarmi, lontano, una fortuna; poteva
scusarmi sin la filosofia, che consiglia di abbandonare ogni ambizione
e d'essere contento del poco; ma io non speravo più nulla del mio
amore. A che restare in Italia? Non solo: la minaccia di Roveni non mi
intimoriva a patto che io andassi lontano da Ortensia.
Tuttavia accolsi con fretta quell'idea stramba. Scrissi subito
al sindaco di Molinella proponendogli l'opera mia.... Sì, una
contraddizione! Ma pensate: i miei affetti più forti eran qui, nella
terra delle memorie e dei rimorsi; qui in patria avevo ripreso a vivere
col proposito di umiliarmi in una attività non più inutile; qui avevo
conosciuto la gioia, prima ignota, del sacrificio; qui mi tornerebbe
cara la solitudine per amare e soffrire; qui un giorno Ortensia mi
rivedrebbe lieto del suo perdono.
Ecco tutto ciò che desideravo. Non troppo, è vero? E bastava perchè
all'antico pessimista sorridesse, ora, la vita!
La speranza però non mi rifioriva in cuore senza spine. Di quella
più acuta mi fece sentire le punture l'amico Fulgosi; il cui ritorno
precedette di poco quello di Moser.
Più di una volta, a guardarlo bene nella faccetta sbiadita e nella
personcina arida, io, dentro di me, avevo paragonato il cavaliere a
un limone spremuto; ma nessuno, che si sforzasse a spremere qualche
goccia da una buccia di limone, faticò mai più di quanto faticassi io
a spremere dal cavaliere ricordi che non fossero alla sola superficie
della sua memoria quando giunse da Valdigorgo. Cominciò la relazione
dicendo:
— Sempre loro, sempre uguali, quelle care signore; così gentili! così
buone! Si figuri che accoglienza mi hanno fatta! Quanti complimenti!
Troppi in confronto al mio merito. Ma ho avuto il piacere di vederle
sorridere, per qualche barzelletta. Son proprio felice di aver fatta
questa visitina! In viaggio poi me la son passata benissimo. Buon _menu
al restaurant_.... A Novara è salita nel mio vagone una signora....
ehm!...
L'interruppi: — Mi parli di Eugenia; mi dica come l'ha trovata....
— Abbastanza bene, poverina! Davvero, credevo di trovarla peggio! È
inutile dire che i ringraziamenti per lei, per il suo telegramma, per
tutte le sue premure, sono stati infiniti, come infiniti gli elogi, ben
giusti!, a tutte le qualità di mente e di animo dell'amico Sivori....
Ripetei impaziente: — Mi parli delle signore, non d'altro! Che
impressione ha ricevuto di Ortensia?
A questa domanda il cavaliere lentamente spalancò le braccia ed elevò
gli occhi con mossa così tragica che mi spaventò.
— Che cos'è stato? Mi dica!; mi dica tutto!...
— Vuol che le dica tutto, tutto in due parole?
— Sì!
— Ortensia.... è troppo bella!
L'avrei accoppato! Egli continuò scioccamente:
— Ah se io fossi mio figlio.... quando sarà capitano!
— Ma perchè «troppo bella?»
— Perchè una creatura simile non dovrebbe soffrire! È un'ingiustizia
esporre tanto charme alle traversie della vita! Questa almeno è la mia
opinione.
— Dunque Ortensia le è parsa molto deperita? È eccitata?
— Infatti.... si è adirata anche con me!... Per colpa mia, però; ne ho
fatta una grossa e me ne confesso umilmente.
Era il suo destino.
— Racconti tutto! andiamo!
Sospirò:
— Io ignoravo che tra Ortensia e Anna Melvi ci fossero state
divergenze....
— Ma eran momenti quelli da rammentar la Melvi?
— Non mi mortifichi, illustre amico!
Il pover'uomo aveva tanta paura di pericolare!
—.... Che dovevo dire per distrar le signore? I progressi di Anna nel
canto potevano, in qualche modo, prestare argomento a discorrere....
— Ebbene?
— Questa è la premessa; la pregiudiziale. Io non sapevo....
— Ho capito. Eppoi?
— Quando sono stato per partire, Ortensia mi ha ringraziato con
effusione; mi ha commosso.... Quasi che alla famiglia Moser non resti
altro amico che me! Come era mio dovere, ho protestato: «La famiglia
Moser, signorina, ha un amico al cui confronto io debbo scomparire: il
dottor Sivori». E la signorina....
— Avanti!
—....È sembrata quasi offesa. S'è adirata e mi ha detto: «Lei dovrebbe
sapere che Sivori non è un amico; è come uno della nostra famiglia! Lo
dica, lo dica alla Melvi che per me Sivori è un fratello. Ha capito? Un
fratello! Glielo dica!»
Meno male! borbottai. Ma al compiacimento in me sottentrò timore subito
dopo.
— Faccia a mio modo, cavaliere. Con Anna, con Roveni, non parli mai
più nè di me nè dei Moser. Sarà meglio per tutti. Le vipere sono sempre
pericolose.
Egli si ritrasse e mi guardò sbigottito, quasi a sentirsi mordere; poi
inchinandosi:
— Mi rimetto al suo consiglio!
.... L'ambasciata che Ortensia mandava ad Anna non pareva una risposta
a qualche malignità?
Era possibile che Ortensia non fosse del tutto ignara della calunnia.
A Valdigorgo, nella mia visita recente, non avevo scorto in lei
qualche segno come di avversione per me; quale uno sforzo a vincere un
sentimento ostile? Si era rialzata così pallida dal seno della madre!
E quella sua eccitazione non seguiva forse a un'intima lotta, più fiera
di quante aveva sostenute e sosteneva per la sventura del padre? Aveva
chiesto il mio consiglio forse per trovare nuove ragioni di confidare
nella purità della mia amicizia; per accertarsi che se non l'esortavo
a cedere a Roveni io, per me, non avevo da temere Roveni in nulla....
Ancora la fantasia mi tormentava. Era un sospetto assurdo! Ma se questo
era assurdo, non mi pareva più tale il sospetto del dì innanzi.
A Roveni, per togliermi l'affetto di Ortensia, bisognava e bastava
gettare nell'animo di lei un'ombra sinistra di sua madre e di me. Avevo
creduto inverosimile che Ortensia potesse mai dubitare di sua madre.
Ma la serena anima di un tempo, caduta per colpa mia in una tristezza
d'amore, era stata sconvolta da una subitanea e turbinosa esperienza
di male. Sua madre stessa me l'aveva detto: — Ortensia non aveva più
fiducia in nessuno, in nulla. — Ed io avevo visto Ortensia in preda
all'ossessione di questo pensiero: che la vita è una lotta contro il
male.
In tal condizione ella era predisposta ad accogliere per vera qualsiasi
interpretazione più obliqua di due fatti che male si spiegavano
altrimenti. Perchè amandola io l'avevo abbandonata?
E perchè io sacrificavo quanto possedevo a pro dell'amico, allorchè
tutti gli altri amici e sin i congiunti disertavano o tradivano? Per
pura amicizia?
Se a queste dimande arrivasse in risposta la calunnia di Roveni e di
Anna Melvi, la colpa attribuita ad Eugenia e a me non poteva essere
assurda neanche per Ortensia....
Così mi tormentavo!


XV.

E seguì il ritorno di Moser, l'incontro atteso da me e da lui con
desiderio protratto ma con aspettazione timida. In lui, insieme col
pudore dei suoi errori e della sua disgrazia, era il torto di non
avermi confessato in quali condizioni si trovava da tempo: troppe
cose io gli avevo celate e dovrei celargli ancora!; nè egli saprebbe
mai quanto male io avevo fatto a lui, che aveva il cuore pieno di
gratitudine per me.
«Cuor dei cuori» posso giustamente ripetere per Claudio Moser. A
rammentare quel periodo angoscioso della sua vita provo un sentimento
profondo e misto di tenerezza, di pietà, di ammirazione.
A che prezzo aveva scontato i suoi difetti!, primi la soverchia fiducia
in sè stesso e l'ostinazione. Era ostinato. Ma nel periodo di fortuna
favorevole questo difetto era pur stato la virtù per cui Moser aveva
potuto dare incremento a una industria, ed egli era potuto divenire
uno degli ingegneri più noti dell'Italia superiore. Al contrario e
più gli aveva nociuto una virtù vera: la generosità. Valdigorgo, prima
che egli aprisse la fabbrica, aveva la miseria dei piccoli paesi che
le ferrovie correnti tra città e città lasciarono in disparte; e la
fabbrica Moser ridiede la vita a Valdigorgo. Se non che quei primi
entusiasmi di pubblica riconoscenza appagarono il benefattore, e quanti
ne approfittarono! Quanti si rimpannucciarono a sue spese!
E mentre s'appagava d'essere benvoluto, egli veniva trascinato nella
lotta della concorrenza. Che vita la sua in quegli anni! Audacie non
impedite da affannose riflessioni; coraggio lungamente meditato ad
uscir dalle incertezze; tentativi ora prudenti ora arditi, eppur vani;
sconfitte saviamente dissimulate con rare vittorie. Poi le angustie
dei pagamenti; le ripulse di aiuti esosi; la resistenza inconcussa a
ogni slealtà; il disdegno dei birbanti fortunati; gli sforzi inani;
le lusinghe delle speranze e i ritegni dell'esperienza; la lenta
struggente apprensione di un'inevitabile rovina. Ma nessuno avrebbe
immaginato tutto ciò quando, nelle ore di tregua, Claudio attingeva
da sè stesso tanta giocondità e serbava tanta serenità nell'animo;
nessuno, neppur di noi che lo conoscevamo intimamente, avrebbe
indovinato così intensa fatica del suo cervello e dei suoi nervi
quando lo vedevamo gioire alle semplici cure del giardino, all'umile
distrazione di un giuoco alle bocce. E quel suo sorriso? Era il sorriso
di un gran cuore, ma consapevole; d'uomo che guarda alle cose e agli
uomini con bontà intelligente.
Avvenuta la catastrofe di tutte le speranze e le illusioni, la rovina
di una fortuna composta con tanti sudori, egli patì strazi di martire.
Aveva voluto il bene dei suoi cari, e anche negli occhi de' suoi cari
temeva scorgere il rimprovero; aveva creduto meritarsi la gratitudine
e la stima degli amici e gli amici (ben lo sapeva Ortensia!) lo
compassionavano chiamandolo «tre volte buono», o lo canzonavano:
«che bravomo!»; aveva accarezzato il segreto orgoglio di trarre dalla
miseria gran numero di operai, e gli operai lo maledicevano o dicevano:
«gli sta bene!». Egli conobbe gli affronti indegni e gli scherni mal
celati da conforti ambigui; provò l'amarezza d'impensati inganni; le
punture velenose della mala fede; le umiliazioni dinanzi agli umili di
ieri e dinanzi alla possente viltà dell'oggi; le insidie e la certezza
del tradimento. Tutto questo Moser conobbe e provò, ma non perdè il suo
nobile sorriso. Avvilito, affranto, fu visto sorridere e ristorarsi a
una parola buona di un buono, riconfortarsi come ricuperasse sè stesso
alla stretta di mano d'un galantuomo. Io lo vidi sorridere così, quando
egli aveva lo strazio nel cuore, la voce tremula e il tremito nelle
labbra per la passione e per lo sforzo di trattenere le lagrime....
Sorrise staccandosi dalle mie braccia e mormorando con espressione
d'immenso affetto per me:
— Vecchio mio! — Ma egli, egli era tanto invecchiato!: incanutito;
quasi del tutto aveva bianchi anche i baffi; la barba, non rasa da più
giorni, rendeva più smorte le guance flosce.
Dubitosi a vicenda, di non contenere abbastanza la nostra commozione,
cercavamo una frase per cui attaccar discorso, e tacevamo. Alla fine
io dissi con aria di chi perdonando un torto ricevuto vuol passare ad
altro:
— Ebbene?
E allora lui con l'aria di chi domanda schiarimento di una colpa,
benchè già perdonata:
— Come hai fatto, tu, a trovar quella somma?
La bugia era pronta da un pezzo:
— Un prestito....; un mutuo col Biondo.
Claudio si mise a sedere, abbassò gli occhi. Quanto più grande sarebbe
stato il suo dolore se gli avessi detta la verità: che avevo preferito
vendere il podere!
— Hai ipotecato il fondo? a che frutto?
— Al cinque.
— E hai pensato che io non avrò più di quindici anni di lavoro utile
davanti a me? I frutti ti saranno pagati puntualmente ogni anno; ma il
capitale? Farò in tempo a renderlo?
— Sì — risposi scuotendo le spalle. — Non mi sembra una gran somma!
A poco a poco, per i miei modi bruschi, egli si rianimava; nè tacqui il
rimprovero:
— Però debbo dirti che ci saremmo risparmiate molte pene, tutti, se mi
avessi avvertito a tempo....
— Hai ragione — mormorò ancora a capo basso. Ma d'un tratto balzò in
piedi (io avevo ottenuto l'intento!): — No, hai torto! Che gli altri mi
giudicassero male, mi dessero dell'imbecille, pazienza! Ma tu, no! Non
volevo!
Ribattei: — Sapendo che io ero qua, potevi almeno avvertirmi che non ti
credevi sicuro.
— Perchè tu mi persuadessi a rimanere, a lasciarmi arrestare? Ti giuro,
perdio! che non mi sarei lasciato prendere vivo, mai! La mia vita era
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