In faccia al destino - 02

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e quale: nel pelo, nell'andatura, in tutto. E dei tre, il cenciaiuolo,
l'asino ed io, chi più invecchiato? Io! Ma che cosa mai aveva meritato
o demeritato dalla sorte in quei due anni l'onesto Martino? Così
invecchiato mi appariva, che non potei non interrogarlo.
— Nessuno al mondo è felice come voi! — io gli dissi per ridere, per
divagarmi.
Mi guardò e rise lui per rispetto; chè alle canzonature degli eguali
rispondeva in altro modo.
— No? — continuai. — Vostra moglie non sta bene?
— Bene; grazie a Dio.
— Foste ammalato voi?
— Grazie a Dio, nossignore.
— E l'asino sta benone! Dunque è cresciuto il prezzo della mercanzia?
— No, no! Il percalle anzi si compra meglio; anche la tela. Ma.... —
sospirò.
— Calato il prezzo degli stracci?
Scosse il capo guardandomi tuttavia incerto.
— Ah, capisco! Qualche disgrazia, forse, che non potete confidarmi....
Il poveretto, da uomo uso a longanimità, chinò la testa e tacque a
lungo. Quindi si sfogò:
— Le par poco, a lei, lavorar vent'anni, da casa a casa, a stentare il
soldo? Consumare le gambe; mangiar polenta, e non avanzarsi un soldo
per....
Io lo prevenni:
— Per aprir bottega!...
— Non è vita da cani questa?
A parte la vita da cani; ah! ah! ecco il male di Martino! Una
botteguccia nel villaggio gli avrebbe reso meno che il mestiere
ambulante; e altra volta avevo cercato persuaderlo con argomenti e
conti. Invano: la bottega era il suo sogno e il suo rovello. Più che la
stanchezza di gambe e di pazienza e peggio che la polenta lo tribolava
l'ambizione non soddisfatta. Affanno assiduo e pane quotidiano, per cui
invecchiava, gli era un'ambizione insoddisfatta! Ma io perchè ero più
invecchiato di lui? Ecco un altro ricordo: senz'aver avuto mai nè donna
nè asino che mi volesse bene, o a cui io volessi bene, come Martino,
io avevo avuto una assai più nobile ambizione. La gloria! la gloria! la
gloria!
Quanto all'asino....
Il collo dimesso, le orecchie pendule e gli occhi sonnolenti, l'asino
che io interrogavo per ridere, per divagarmi, rispondeva:
— Solita vita, caro signore! — Tritar fieno e paglia, nel sacco che
gli dondolava al collo, strada facendo; brucare acacie, arrivandoci, e
scorticare il prato quando aveva erba fresca; d'estate arrostarsi dalle
mosche con la squallida coda o drizzare il pelo indosso l'inverno;
grattarsi la schiena, nella stalla, contro il muro e fuori, in mezzo
alla polvere, con ragli e gamba all'aria; dare il buon giorno, in suo
modo, al padrone e tutto il giorno vagar con lui senza intromettersi
a contratti e a diatribe. Neppur si curava, per ragioni sue intime,
non meditate e non lamentate, delle asine in cui s'incontrasse: appena
a primavera le salutava; ma d'un saluto fraterno, o d'un reciproco
ingenuo poetico richiamo alla natura novella.
E poichè l'asino di Martino era anche utile al commercio e
all'industria, forme e prove di progresso umano; poichè all'industria e
al commercio senza dubbio è più utile un merciaiuolo che un filosofo;
poichè, secondo filosofia, di me viveva meglio il cenciaiuolo, ma,
secondo natura, del cenciaiuolo viveva meglio l'asino, fra i tre il più
sapiente era dunque l'asino e fra i tre il più asino ero dunque io!
Ridere?... Ripensavo:
Interrogai la divinità, non mi rispose. Interrogai gli uomini, non
seppero rispondermi. Interrogai le cose, mistero! Interrogai me stesso,
e seppi che non posso sapere....
Dall'asino, tutt'al più, posso apprendere che per vivere non importa
sapere; e un tempo mi sarebbe bastato opporgli: senza sapere che
importa vivere? E adesso io vivo senza sentire!
— Addio Martino! Cerca fortuna, per la bottega....
Per me non c'era più alcuna fortuna, alcuna speranza!
Voglio dirla la cosa orrenda! Voglio dir tutto!
Ero arrivato a tal punto d'insensibilità che i miei morti — mio padre e
mia madre!... — tornavano al mio pensiero, c'insistevano, ma io non ne
avevo più il sentimento! Che io non pensassi nemmeno a mia madre morta
quando nella morte scorgevo solo un fatto fisico, una trasformazione
materiale, pazienza! Ma ora le ombre dei miei tornavano a me; e non
parlavano più al mio cuore; come illusioni inutili! come niente! Ora io
pensavo che la morte non fosse annientamento della coscienza, non fosse
solo trasformazione della materia, nondimeno ogni affetto dei miei
cari, anche ogni affetto dei miei cari era spento in me! Comprendete
tutta la mia miseria?
Orribile! Se la scienza, non per effetto necessario ma per sola
conseguenza occasionale, può avere condotto un uomo, un solo uomo, a
tale estremo, sia pur maledetta la scienza!
— Buona passeggiata! — Proseguivo per l'erta via che congiunge
Valdigorgo a Paviglio. Da Valdigorgo giungeva ancora, a quando
a quando, un confuso murmure di voci e d'opere. Salivano donne
fastidiosamente liete della vendita o della compera al mercato;
transitavano carbonai e somieri: ai lati, ora spazi di campi, ora
lembi di bosco, e verdi ripe, lente o scoscese; qua donne con le
vesti succinte che ammucchiavano il fieno; là una mucca che pasceva,
una pecora che sbucava da una macchia; più oltre una casupola nitida.
Chioccolii nella fratta. Ma la vita che scorgevo e udivo intorno a me,
no, non mi ridava l'anima! Tra due massi scaturiva un'acqua sorgiva
che rigava d'una limpida vena un fossatello senza limo. Nè io avevo
sete. Un birocciaio però, venendo con la biroccia carica di legna,
lasciò procedere i muli, e gettatosi in ginocchio a terra, con la testa
indietro e teso il collo, ricevette il zampillo nella bocca; avido,
ingordo, d'un solo fiato. La gola riarsa si dilatava, palpitava al
passar del liquido e della frescura.
Ristoro ineffabile! Splendevano gli occhi all'uomo quando si rialzò
con un forte: — Ah!... — E riafferrata la frusta mentre si asciugava
la bocca col dorso dell'altra mano, egli la fe' schioccare, e mandò da
lungi un grido alle sue bestie.
A me parve un uomo che avesse ricuperato la vita.


III.

Si vedrà poi il perchè io mi costringa a raccontare la mia storia. Non
la racconto, certo, per voluttà di dolorose rimembranze — le spasmodie
romantiche han stancato il mondo, — nè per dilettantismo letterario —
bel gusto parere un letterato ai medici e un medico ai letterati! — No,
no; il mio intento è non so se più umile o più alto.
Ma poichè la prima cagione di un lungo soffrire fu l'infermità che
mi condusse a Valdigorgo, bisogna pure che io accenni un po' più
chiaramente a quel che avevo.
Medico non senza qualche nozione di psichiatria, facilmente io avrei
saputo definire in altri il mio caso. In costui — avrei detto — ci
sono indizi sicuri di «lipemania», c'è «atonia della sfera psichica»,
c'è «malinconia lucida». Se non dimostra egli stesso gravi anomalie
o asimmetrie somatiche, il suo albero genealogico deve annoverare
individui colpiti da pazzia degenerativa: costui è candidato al
manicomio o al suicidio. — Così avrei detto di un altro; ma di me mi
ostinavo a pensare diversamente, e non solo perchè mi mancavano di
quelle tali anomalie o asimmetrie gravi, e non solo perchè il mio
albero genealogico, da quante generazioni ne conoscevo, non aveva
fruttato mai pazzi o lipemaniaci.
Del mio male senza dubbio c'eran cause all'in fuori dell'ordine
fisiologico. Quali cause, insomma? Vi dirò: immaginate un uomo che
credè di poter volare al cielo.... — «il sapere» disse Shakespeare
«è l'ala con cui si sale al Cielo» —, e immaginatelo quest'uomo
precipitato dall'alto del suo sogno in un abisso buio e freddo,
con addosso l'irrisione di tutto l'universo e di sè stesso. Non
comprendete? Oh come manifestarvi allora, in poche parole, la mia
miseria? Io ero vittima del mio orgoglio e mi ritenevo nientemeno che
una vittima del secolo scientifico. Nell'immenso, stupendo progresso
delle scienze nel secolo XIX avevo sorprese certe relazioni forse
sfuggite a tutti, certe comprensioni sintetiche sfuggite a tutti
nell'abuso dell'analisi; e poggiando su di esse avevo preteso di
superare i limiti della scienza.... Il meglio della mia vita era stato
sacrificato così, dolorosamente, ad apprendere la vanità de' miei
sforzi. Eran stati lunghi anni di lotta. Avanti per la verità! avanti
per la gloria!; e ogni giorno più dubitavo e soffrivo; finchè, al
crollo del mio edifizio, caddi, vinto, nel nulla. _Nel nulla!_
Forse fu ingiusta l'imprecazione di un filosofo: «Scienza, perchè
arricchisci la mente a scapito del cuore?»; forse ciò non è vero. Ma
io, che non ero più uno scienziato o che, avendo violentato il potere
della scienza, non lo fui mai, io più spaventosamente d'ogni altro
dovevo pagare il fio della mia insania: il mio cuore era esaurito; _non
sentivo più nulla_. Ecco perchè non giudicavo quest'apatia un semplice
caso di «atonia della sfera psichica».
Non basta. Negli esauriti o neurastenici è frequente la tentazione
della morte e, insieme, l'orrore della morte. Ed io pure, uomo divenuto
inutile a tutti, a tutto e a sè stesso, io pure desideravo morire e non
osavo. Ma in me non c'era un avvilimento inconsapevole: io avevo voluto
dimostrare con modo e metodo positivo che al di là della trasformazione
del nostro organismo in dissoluzione l'anima sopravvive....; e da quel
tentativo di confermare con la scienza l'antica fede mi era rimasta
l'apprensione dell'_al di là_. Ecco perchè non mi credevo semplicemente
un neurastenico. Mi credevo invece caduto non per stanchezza ma per
disperazione; e nello stesso tempo mi vedevo pessimista insanabile non
per «depressione del tono vitale», ma per la certezza che eran stati
vani i miei sforzi e sarebbero sempre vani gli sforzi della scienza a
varcare i limiti di ciò che si definì l'_inconoscibile_.
Non importa dire in che errasse, o quanto, la mia diagnosi: importa
vedere com'era grande la mia miseria. Consideravo in me effetti e
fenomeni diversi da quelli ben noti alla psichiatria, e pur scorgendone
la somiglianza con quelli, li consideravo più paurosi, d'un'entità vaga
e più vasta; la mia miseria era quindi più grande che quella di un
medico che scorga in sè stesso una malattia incurabile, con fenomeni
fisiologicamente chiari, patologicamente certi, senza tenebrose
estensioni....
Eppoi.... Eppoi, tiriamo innanzi!


IV.

Tra i pochi che venivano alla villa Moser c'era per me una sola persona
nuova; l'ingegnere che Claudio aveva assunto a dirigergli la fabbrica
di laterizi. La fornace che era stata principio alla fortuna di Moser
e che aveva dato aumento al lavoro degli operai in Valdigorgo, era
divenuta una delle più rinomate nell'Italia settentrionale; a vigilarne
l'andamento non bastò più la sola attività di Claudio da quand'egli si
fu addossato altre imprese.
E soli assidui alla villa, per lo più di sera, erano i Fulgosi, i
Learchi e le Melvi: pochi, perchè Moser pretendeva libertà e pace
almeno in casa sua, nell'asilo del suo riposo, sebbene anche qui
piuttosto che riposare egli svariasse la sua alacrità.
Profittando della distanza dal paese (la villa era a monte e il
paese tre chilometri a valle), Eugenia sapeva accontentare il marito
conservando buone relazioni con le famiglie paesane più notevoli senza
che queste potessero, come forse desideravano, turbar la pace di lassù.
Non la turbavano essi, i villeggianti prossimi e vecchi d'amicizia e di
consuetudine. Ma nell'infermità dei miei tristissimi giorni come eran
noiosi, insoffribili per me anche quei pochi e vecchi conoscenti!
Primo, il cavaliere Fulgosi. Un uomo invidiabile; uno di coloro a
cui il mondo serve di sfondo e cornice per la loro figura, per la
loro apparenza. Pensionato d'uno di quegli uffici che rendon l'uomo
uniforme, preciso e sciocco come un regolamento, a sessant'anni poco o
nulla differiva da quel che era stato a trenta: sempre elegante, cioè
vano; sempre amabile in società, cioè fatuo. A Valdigorgo chi poteva
competere con lui? Unico a far toilette due o tre volte al giorno;
unico a portar in tasca lo specchietto e il pettinino per considerare
ogni mezz'ora se gli scarsi capelli, d'un biondo bianchiccio e d'un
biondo sporco, celassero, ben disposti, le lacune dell'età, e se
i baffetti rilevassero l'esili punte su e contro il profilo della
barbetta, e se la cravatta, a colori sentimentali, conservasse sempre
il giusto mezzo; unico a contemplar in sè medesimo ora il candor
delle unghie o la forma delle scarpe, ora i gemelli o i polsini o le
armoniche tinte delle calze di seta; ora l'orecchia del fazzoletto,
gentilmente colorato, fuor della tasca, o il brillar degli anelli nelle
scarne dita. Per parlare egli s'era adornato della fraseologia e dei
motti dei giornalisti brillanti; spropositava spesso nella pronuncia
delle frasi inglesi, ch'eran le preferite, e ripescava, per di più,
qualche sentenza scolastica o classica.
Con aria diplomatica discuteva troppo spesso in politica, poichè
un'ambizioncella politica gli si era inacidita nel cuore, nè ancora
aveva cessato di ripetere a se stesso: _j'attends mon astre_.
Aveva il suo programma nel motto «ordine nella libertà e libertà
nell'ordine» senza che paresse comprenderne egli stesso il pieno,
solenne significato che pareva attribuirvi. Infatti questo amatore
della libertà nell'ordine, questo amabile _gentleman_, era stato un
tirannico capo-ufficio ed era adesso un petulante marito pensionato.
Angustianti smorfie e _tic_ nervosi gli opponeva la signora Fulgosi;
ma apostrofandolo «imbecille» in casa, la moglie non mancava mai di
chiamarlo «cavaliere» fuori. Ella portava a Valdigorgo la correttezza
dei modi e la scorrettezza dei pettegolezzi e degli isterismi
aristocratici. Il loro figliuolo, Pieruccio, nato certo in conseguenza
di un litigio, manifestava, ora più che sedicenne, com'erano
inconciliabili anche in lui la natura materna e paterna. Fastidioso e
incoercibile per metà del giorno; compassato e affettato la sera, dopo
la _toilette_; antipatico sempre.
Involontario riscontro ai Fulgosi facevano i Learchi. Egli, Learchi
padre, era un risaiolo arricchito. Aveva dunque il diritto d'insegnare
agli altri la maniera di viver bene. In tutto si sarebbe dovuto fare
come aveva fatto e faceva lui. Ignorante e testardo; gran mangiatore e
non minore bevitore e fumatore di pipa. Ligio alle pratiche religiose,
vi tranquillava la coscienza; si assicurava con esse a star di là,
anche meglio che di qua, e frattanto sorreggeva il perfetto egoismo
cattolico dicendosi clericale «e me ne vanto». Sua moglie, la signora
Redegonda, era buona di cuore e sempre ilare; ma di testa piccola.
L'universo per lei consisteva nella cucina, dove esercitava molt'arte,
e con ingenua rozzezza stupiva a ogni altra cosa che non fossero
manicaretti, pasticci, dolci d'ogni sorta. Felici entrambi dell'aver
maritata bene, a un ricco, la figliola, aspettavano per di più la
consolazione di aver dottore il figliolo. E questi — Guido — poteva
piacere o spiacere al pari d'ogni cuor contento.
Quanto alle Melvi, la madre non riusciva a nascondere a me l'ipocrisia
e la malignità della paesana che non potè mai uscir di paese e che in
paese vuol sembrar amica di tutti perchè invisa a tutti. Lingua iniqua!
Ma quante esclamazioni, espansioni d'affetto! La bontà si sarebbe
detto trasudasse da tutti i pori della sua piccola e grassa persona;
la virtù in lei sembrava tanta da permetterle di congratularsi a ogni
nuovo matrimonio che s'annunciasse o celebrasse a Valdigorgo, quando la
rodeva l'invidia, la tormentava il dubbio di non poter accalappiare un
marito per la sua Anna;, la sua Anna, irresistibile, per lei, di vezzi
e più di carne. Ed Anna.... Che dire di _Anna Melvi_: come esprimere
quel che io provo ora, scrivendo queste due parole?
Di rado tutti costoro, nei primi giorni del mio ritorno lassù, si eran
trovati insieme alla villa. Di solito l'una e l'altra mamma saliva
da Eugenia, e sol talvolta, quando Eugenia riposava, le ragazze e i
giovani si erano raccolti nell'ampia sala a terreno, o nella terrazza,
ai loro giochi di pegni, mentre Moser si divagava aizzando il cavalier
Fulgosi contro il Learchi padre. Io per lo più avevo cercato scampo
nella mia camera, col pretesto di dormire.
Ma venne la buona novella; il medico curante, pago della mia
approvazione non che del buon effetto delle sue cure, annunciò che a
giorni permetterebbe alla convalescente d'alzarsi.
Eugenia era in piena convalescenza. Ed io?... La sera della buona
novella andavo per la casa cercando invano di raccogliere in me il
senso di quella letizia che vedevo fuori di me. Non potevo fingere
un piacere che mi sfuggiva; avrei voluto fuggire accusandomi quale un
amico indegno; neppur mi commoveva la gioia di Claudio!
Egli fece portare due bottiglie nel salotto, per gli amici; e mi
attendeva con Fulgosi e Learchi. Dovetti entrare.
— _Lupus in fabula!_ — esclamò il cavaliere. — E Claudio: — Sentite
questa! Quando eravamo all'Università a Bologna, io agli ultimi anni
e Sivori ai primi, facevamo qualche scappata a caccia nelle risaie di
Molinella. Ci accompagnava un omicciattolo, un falegname soprannominato
il Biondo.... Ah! il Biondo! ma par di vederlo! Aveva uno schioppo che
pareva un catenaccio; mirava chiudendo gli occhi, e non sbagliava un
colpo. È vero?
Accennai di sì col capo; non celando la poca voglia di riudire aneddoti
della mia biografia. Ma Claudio proseguì:
— Dunque mentre io e il Biondo stavamo alla posta delle anitre, e non
pensavamo che alle anitre, quel bel matto lì (e accennava a me) era
spesso colla testa nelle nuvole e metteva giù lo schioppo per guardare
al libro che portava in tasca. Una bella maniera d'andare a caccia! Non
si sarebbe accorto d'un rinoceronte quando leggeva. Ma un giorno che
ritornavamo in barca — era d'autunno inoltrato — io gli prendo il libro
e glielo scaravento in mezzo all'acqua. Cosa fa lui? Spicca un volo e
gli va dietro alla pesca.
— Non fu così — interruppi fiaccamente.
— Così! Proprio così! Il Biondo è ancor vivo e sano, e sebbene sia
il tuo fittavolo, adesso, è un galantuomo capace di testimoniare la
verità.... Bene! noi sudammo a pescar lui, l'amico; lo tirammo su
sporco e fracido come si meritava; e con la tremarella addosso. Io
gli davo quanti pugni potevo, più per sfogare la rabbia che m'era
venuta che per mantenergli la circolazione del sangue, e Sivori, lo
credereste?, si lamentava: — Il mio libro!... Il mio libro... Non ho
capito una cosa!... — Non vi dico altro! Quasi quasi si era affogato
solo perchè non aveva capito una cosa!
— Non è vero! — brontolai. — Era un'edizione pregevole....
Nessuno mi badò. Ridevano tutti, e più di tutti rise il piccolo Mino,
che era venuto in cerca di me. Non desiderando di meglio che sottrarmi
alla filosofia del buon senso, chiesi al ragazzo che cosa voleva.
— Se mi comperi i burattini, ti racconto una bella favola.
Ripigliò Moser: — Sublimi poi erano le discussioni col Biondo
falegname! Sivori sosteneva che ammazzare una quaglia era uno strappo
all'anima universale, come diceva lui; il Biondo invece sosteneva
che Domineddio non avrebbe creato le quaglie se non dovessero essere
mangiate arrosto. Avevano così diversi punti di vista che Sivori con
cinquanta colpi non strappava nulla, e il Biondo — lo confesso, lo
ripeto — tirava meglio di me! Ma le quaglie chi le mangiava? chi le
gustava di più? Ah quei bocconcini di anima universale! Altro che
Spinoza eh, Sivori?
Risero di nuovo. Finchè Mino tirandomi per la giacca mi forzò ad
appartarmi con lui in un angolo. Ivi solennemente prese a raccontare:
— «Castelli in aria».... Beppe andava per il bosco.
Intanto udivo Learchi sentenziare, vuotato il bicchiere:
— La filosofia sta nel seguir la volontà di Dio, ricordandosi però che
lui dice: «Aiutati che t'aiuto!»; e quando la coscienza è tranquilla,
tutto va bene a questo mondo!
— Il mondo bisogna farselo! — ribatteva Moser. — Farsi una, famiglia;
lavorare per la propria famiglia e non pensare ad altro!
— Io sono fatalista — avvertiva il cavalier Fulgosi. — «Sua ventura ha
ciascun dal dì che nasce....»
Tratto dall'astuccio il piccolo pettine, il cavaliere si pareggiò i
baffi, si mirò allo specchietto; poi aggiunse che io ero uno di quelli
nati apposta per far camminare il mondo.
— Senza filosofia, caro signor Learchi, il mondo non camminerebbe. È la
scienza delle scienze, che innalza l'umanità. Excelsior!
— Il mondo andrebbe benone lo stesso! — urlava Learchi. — Religione,
fede per sopportare i guai; e basta!
Mino tornò da capo:
—.... Beppe andava per il bosco, e trovò un pulcino. Lo portò a casa e
lo mise a dormire nella stoppa. Beppe diceva: Quando il pulcino sarà
grande, diventerà una gallina; e la gallina farà le ova e comprerò
un'agnellina. E l'agnellina diventerà una pecorina, e la pecorina farà
le ova....
Le ova della pecorina? Mi sovvenne delle mie opere. Il pulcino morto
nella stoppa della scienza? Il mio ingegno!... Questa, questa, o esimio
cavalier Fulgosi, questa è la morale della favola!
.... Non mi sarei dunque stancato mai d'interporre sempre, da per
tutto, la mia accidia? Con stento ero entrato là nel salotto a udir
parlar di me; con stento ascoltavo il ragazzo....; ma appunto perciò
avrei dovuto avvertire un risveglio nella mia volontà. In me c'era
già stato qualche mutamento notevole. Non seguirebbe questi mutamenti,
sebbene lievi, una riscossa dell'anima? Come in un barlume riflettei su
le mie impressioni e le mie azioni dei giorni innanzi.
Già Mino era riuscito a farmi guardar il mondo attraverso un vetro
color rosa e a farmi dire con lui che così il mondo era più bello;
mi aveva costretto a inventare e a narrargli una favola, che ora
ricambiava con: «Castelli in aria» e con le ova della pecorina. Già
la timida Marcella mi aveva veduto salir più spesso a trovar la madre
e a sorprender lei nell'ansietà delle faccende domestiche, la cui
importanza ironicamente esageravo. Ortensia poi aveva ripresa con me
tutta la confidenza d'un tempo, di quando era la mia «piccola amica».
Ah se avessero potuto immaginare che fatica mi costava tutto ciò!
Ma intanto io mi domandavo perchè non approfitterei del loro aiuto
a ricuperare il dominio della mia volontà. Volli restar con Mino;
volli vedere che facevano gli altri.... Mi affacciai alla porta della
sala dove la signora Fulgosi cominciava a tempestar un _waltzer_
sul pianoforte; le ragazze e i giovani le facevan chiasso d'intorno.
Quand'ecco tonò una voce gioconda.
Era l'ingegnere preposto da Moser a dirigere la fabbrica di laterizi.
— Arrivo! Pazienza! — egli rispose alle voci che lo chiamavano.
Ma prima corse a consegnar delle carte a Moser, a dargli notizie, a
prender ordini. Di sulla porta io l'osservavo.
L'ingegner Roveni quando parlava d'affari era parco nelle parole,
immobile, attento. Aveva risposte pronte. L'antipatia che mi separava
da tutti gli estranei non poteva resistere contro di lui; anzi dal
primo giorno che l'avevo visto non mi era spiaciuto quel giovane
dalla fisionomia decisa: non bella per il naso breve un po' all'insù,
ma abbellita da due folti baffi biondi; e dalla persona robusta e a
mosse un po' dure, quasi di macchina non ben levigata e non in piena
attività, eppure in un perfetto equilibrio di tutte le forze alla
regola dell'arbitrio. Per una inesplicabile contraddizione non mi
spiaceva quell'uomo, ambizioso, si vedeva, fin dal modo di camminare.
Passandomi accanto egli mi salutò con un franco:
— Buona sera, dottor Sivori! — e andò difilato a prender Anna Melvi per
ballare il _waltzer_.
Io mi riaccostai agli uomini seri.
— Che fibra! — disse Claudio, che ora parlava di Roveni. — Tutto il
giorno lavora per me e la notte studia per sè.
Aggiunse che Roveni s'occupava con passione in studi d'elettricità.
Quindi disse:
— Io penso con dolore al giorno che dovrà abbandonarmi.
Una risposta mi venne al pensiero e alle labbra: — «Hai un mezzo molto
semplice per trattenerlo: dagli in moglie una delle tue figliole».
Ma sarebbe stato come dire a uno che possegga un tesoro: — dallo
al tale —, o almeno sarebbe stato come proporre un sacrificio
intempestivo; perchè nel sereno egoismo del suo amor famigliare, Moser
non s'era ancora accorto che le figliole pervenivano all'età da marito.
Perciò tacqui.
E feci bene. Rientrando poco dopo nella sala dove ballavano, scorsi
d'improvviso che la maggiore delle sorelle Moser e la più adatta al
Roveni (il quale era sui ventotto anni), aveva già disposto del suo
cuore.
Sì: la timida Marcella...., con Guido Learchi.... Mentre con Roveni
ballava Anna Melvi e Ortensia con Pieruccio Fulgosi, Marcella e
Guido si dicevano meno parole con le labbra che cogli occhi; vedevano
l'uno negli occhi dell'altra la propria felicità. Non ne mostravano
meraviglia nè la Melvi madre nè la signora Learchi, che assistevano
da presso il pianoforte. Meravigliato rimasi io; poi disgustato per un
turbamento strano; poi, preso da una voglia anche più strana di ridere,
ridere d'ironia. — Forse per rivivere vivendo con questi ragazzi dovrei
fare all'amore anch'io? — mi chiesi; e fissai Guido ridendo.
Egli venne da me rosso in faccia, con l'indice al naso:
— Zzz.... zitto, per carità!
— Oh! credi che anche gli altri non abbiano gli occhi per vedere?
— Gli altri fingono di non vedere e non dicono nulla — rispose con voce
dolente. Sorrideva anche lui, ma per timore. Ed io per spasso quasi
crudele chiamai Marcella:
— Debbo dar retta a Guido?
Ella era divenuta più rossa di lui; si provava a fingere, a nascondersi.
— Perchè? che vuol dire?
— Debbo aiutarvi?
— Non so..., non capisco.... Mi lasci andare!
Invece la strinsi al braccio e le chiesi piano:
— Gli vuoi molto bene? —; e la guardavo negli occhi come per impedirle
di sfuggirmi. Sentiva essa la punta della cattiveria nelle mie parole e
nei miei modi apparentemente scherzosi? Ah io volevo distrarmi: volevo
sottrarmi a me stesso: interpormi meschinamente alla vita che vedevo
fuori di me, e che mi sfuggiva!
— Non è vero!...; non so.... Chi gliel'ha detto? — rispondeva la
poverina, cedendo a poco a poco.
— E tua madre lo sa?
Abbassò gli occhi, esitando ancora:
— Sì.... credo di sì; ma il babbo, no! — Mi scongiurava con i begli
occhi.
— Il babbo presto o tardi dovrà saperlo!
— Oh per amor di Dio non dica nulla! È tanto buono lei! Non ci
comprometta, Sivori! Guai, guai, se il babbo lo sapesse ora! — Pregava
apertamente; sperava nella sua preghiera ed in me, e appariva ancor
timorosa del pericolo. Soave creatura!
Anna Melvi, rasentandoci, ammiccò; fece: — Zzz.... — e ruppe in una
bella risata; e i due colombi, Guido e Marcella, mi scapparono.
Passavano davanti a me, intanto che Anna afferrava Pieruccio e si
slanciava con lui, Roveni e Ortensia. Forse anche questa una coppia
amorosa? Mi sembrarono estranei l'uno all'altra. L'ingegnere era
tutto intento a condur giusto il passo e a non farsi scorger peggior
ballerino di quel che era; e Ortensia non dimostrava che il piacere
della danza: in un pieno abbandono d'ogni energia al ritmo; con ogni
energia raccolta e diffusa nel giacere che le vibrava nel sangue, tutta
la persona di lei esprimeva giovinezza lieta, e solo gioia e grazie
ignare. Nondimeno allorchè ella cessò il ballo e venne a me, io le
dissi con intenzione maligna:
— Bel giovane, Roveni....
Oh! essa non si turbò per nulla! Rise domandando:
— Lo dice a me?
— A chi dovrei dirlo, piuttosto?
— Ad Anna.
— E due! — esclamai persuaso che Ortensia intendesse svelarmi in Anna
e nell'ingegnere il secondo paio d'innamorati.
Appunto allora Roveni, il quale conversava e scherzava ugualmente con
le vecchie e con le giovani, lasciava la Melvi madre e la Learchi,
e come avrebbe parlato a qualsiasi altra delle ragazze domandò a
Ortensia: — Sarà lei che farà ballare il dottor Sivori? — Ma Ortensia
non fece in tempo a rispondergli, perchè Anna si staccò d'un tratto da
Pieruccio, lo piantò e si porse a Roveni; e via.
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