In faccia al destino - 09

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_Mon amitié n'est pas semblable au baromètre_
_Qu'un air rude ou plus doux fait monter ou decroître!_
Quel povero diavolo mi aveva giudicato non indegno di sposar Ortensia
e io l'avevo ricompensato dandogli dello sciocco! Gli strinsi forte la
mano senza dir nulla.
— L'ho disturbato? Mi perdoni! — aggiunse egli ritraendosi con nobile
contegno. — Lei, vedo, medita all'aperto come me. Da quando sono
in pensione ho bisogno d'aria per trovar le idee. Ora poi che ho da
preparare il discorso per il 20 settembre!...
Chi gli avesse detto su che cosa meditavo io!
E affannoso e timoroso andai a cercar Eugenia.
Non era facile trovarla sola, la buona signora. Di solito non scendeva
a terreno che all'ora della colazione e del desinare. Riceveva nella
sua camera o la contadina o l'ortolana per i conti di compre e vendite;
o aveva la tessitrice; o la cucitrice; questa o quella paesana; e
Marcella quasi sempre alle costole. Quel giorno però essa, per caso,
era rimasta sola.
— Le ragazze e Mino sono andati a cercarvi al convento — mi disse.
Risposi palpitando:
— Vengo dalla strada maestra...., dove ho visto Guido, molto
afflitto....
— Bravo, Sivori! Venite pure a difendere il vostro amicone, che presto
presto mi farà scappar la pazienza.
— Per far scappare la pazienza a voi bisogna aver commesso un delitto.
Che delitto ha commesso Guido?
— Abusa della mia debolezza. Dite la verità, non sono troppo debole a
permettere che tutti sappiano di questi amori, fuorchè Claudio? Voi,
che mi conoscete, non vi meravigliate che io permetta dei sotterfugi?
— Guido ha buone intenzioni. D'altra parte, conoscendo Claudio....
— Sì: guai a parlargliene adesso, a Claudio, di maritar le figliole! Ma
avrebbe poi tutti i torti se si opponesse all'assiduità di Guido? Guido
non ha ancora la laurea, e, dopo, credete che suo padre sarà disposto
ad aiutarlo? Insomma, quel benedetto ragazzone dovrebbe essere più
guardingo, più serio. E già che siamo in questo discorso, vi dirò che
c'è un altro, qua, più serio, più prudente di lui....
Mi corse tutto il sangue al viso. Se Eugenia non avesse avuti gli occhi
abbassati sul lavoro, m'avrebbe letto in faccia l'enorme segreto.
— È Roveni — io mi sforzai a dire con voce ferma.
— Ve n'ha parlato Ortensia? — Eugenia chiese con ansia.
— Ortensia non crede a quel che si dice: ecco tutto.
Tanto la signora fu sollevata dalla mia risposta quanto in me pesava il
presentimento del mio inevitabile sacrificio.
Ella proseguì: — Roveni sta ai patti. Non ve n'ho mai parlato appunto
perchè ho voluto che vi facciate un concetto sicuro di lui e della
sua condotta. Francamente: ve ne siete accorto voi stesso che egli ha
simpatia per Ortensia?
— No: forse non me ne sarei accorto se non me n'avesse avvertito il
cavaliere. — E aggiunsi, per alleviarmi l'angoscia con una digressione:
— Il cavaliere è il trombettiere delle pettegole.
— Povero Fulgosi! Ma con le Melvi voi siete troppo severo.
Chiacchierano, han la lingua un po' lunga.... In fondo, però, non sono
cattive. Io non dimenticherò mai le premure che ebbero per me quando
ero ammalata....
— Anna è una civetta! — esclamai io. — Mi duole che per amor di pace
non possiate allontanarla da casa vostra.
Eugenia tacque un po' e disse:
— Dovrebbe bastarmi la vostra opinione per allontanarla subito. Ma ho
fiducia che le mie figliole non abbiano intenzione d'imitarla.
— Questo è giusto.... — E ripresi:
— Dunque Roveni?
— Oh, è una storia molto breve. Un giorno la Melvi madre mi avvertì
che parlando con l'ingegnere aveva scoperto in lui a dirittura un
grande amore per Ortensia. Sapendo che la Melvi è facile a esagerare in
tutto, non le credetti che poco. Anche qui, del resto, mi rassicurava
il contegno di Ortensia: con Roveni si comportava come per il passato;
impossibile ch'egli le facesse la corte e che essa non me l'avesse
lasciato comprendere. Pure volli chiarir la cosa. L'ingegnere mi aveva
già confidato che dubitava di poter restare un pezzo a Valdigorgo, e io
tornai sul discorso. Ripetè che trovando un impiego migliore dovrebbe
andarsene; e infine confessò d'aver molta simpatia per Ortensia, e
che non disperava nell'avvenire. La sua franchezza, la sua lealtà mi
piacque. Ma Ortensia è così giovane! con un carattere così strano; e
io mi sentivo allora tanto male! Non volevo preoccupazioni e angustie.
Ebbene, ottenni da Roveni la promessa che non turberebbe per adesso
la pace mia e di Ortensia. Voi siete testimonio che ha mantenuta la
parola. Ma ditemi: che ne pensate voi, di lui?
Eugenia mi strappava il cuore! Avessi potuto fuggire! scomparir in
quell'istante da questa stupida scena del mondo!
Risposi che pensavo assai bene dell'ingegnere.
— La sua condotta non potrebbe essere più corretta.
Eugenia proseguì:
— Dite pure che egli è prudente anche per non compromettersi. Ma non è
giusto? Il suo avvenire non sta solo in lui; è nelle mani di Dio. Dio
voglia che un giorno egli renda felice mia figlia!
Se Eugenia avesse detto tutto ciò in altro modo, io avrei creduto
volesse abbattere la mia insana rivalità; ma ella aveva parlato adagio,
semplicemente, e il solo dubbio di tale intenzione sarebbe stato
un'offesa.
— È giusto! — ripetei. (Fuggire! dovevo fuggire!)
Concluse Eugenia:
— Son contenta che mi diate ragione per Roveni e che non mi diate torto
per Guido.
Con uno sforzo supremo io sorrisi; conclusi anch'io:
— Gli farò una predica all'amico. E con l'affetto che ho per tutti voi,
auguro che le vostre figliole siano un giorno ugualmente felici. Lo
meritano, perchè sono buone come voi, Eugenia!
Ero sincero in queste parole. Ma un nodo mi stringeva alla gola....
(Fuggire! dovevo fuggire!)


XVIII.

La vittoria è dei forti! Questo almeno sapevo per scienza ed
esperienza. Dunque.... fuggire!; inutile competere con Roveni,
forte di nervi, di mente, di animo, di fortuna! Già nel desiderio di
Eugenia egli era eletto sposo di Ortensia e presto il capo biondo,
che avevo visto un giorno poggiare con affettuoso abbandono sul petto
materno, s'abbandonerebbe per amore su quel petto forte. Fuggire....
Quando? Ah se fui debole! se fui vile! Mi affidai alla mia debolezza
per ritardare quell'ora; per non correre subito al limite verso il
quale il destino mi spingeva e di là dal quale non vedevo che cosa ci
fosse: la tenebra; il vuoto; il nulla come un tempo: peggio che la
morte! Mi raccomandai alla ragione. La mia partenza improvvisa dopo
il colloquio con Eugenia avrebbe rivelato il mio segreto a Eugenia,
ad Ortensia, a Claudio, a tutti! Ancora qualche giorno per nascondere
il mio segreto; per distogliere ogni sospetto anche da Anna Melvi;
per compiere il sacrificio che, lontano, conforterebbe forse il mio
dolore, tratterrebbe forse il mio braccio dall'estrema insania contro
me stesso! Ancora qualche giorno!
Per la mia vita infelice, per la mia triste giovinezza, per quel che
avevo sofferto e avrei da soffrire resistendo a vivere, impetravo da me
stesso qualche giorno ancora! — Rimasi. E intanto dissimulare, fingere,
mentire! Perduta la rettitudine del procedere, dubitavo e temevo. Mi
spaventava il dubbio che Ortensia s'avvedesse del mio dolore e dei miei
rossori; se ne avvedessero gli altri.
Avrei voluto conoscere quel che pensassero o dicessero di me la Melvi
madre, la Fulgosi e la Learchi; ma in ognuna temevo ragioni di celarmi
il loro pensiero. E per tutte queste indagini e per tutti questi
sospetti provavo come il disgusto di un avvilimento indegno di me e
della mia passione.
Peggio; a quando a quando mi abbattevo del tutto come sotto una
condanna meritata. Avevo voluto rivivere; non potevo rivivere che così
miseramente.... Quale un cieco che smarrito cerchi un sostegno, io
cercavo adesso Ortensia. Essa era la luce dei miei occhi.
Il suo sguardo, il riflesso dei suoi capelli, l'armonia della sua voce,
l'euritmia delle sue forme potevano nel mio animo sconvolto come (non
esagero) il sole che fenda l'oscurità e spazzi via un nembo. «A ogni
costo essa non deve soffrire!» — giuravo allora con un sentimento di
pietà e di gioia, con tutta la voluttà del sacrificio.
Non so dire con che cuore in quegli ultimi giorni la vedevo tornare a
me al mattino, sorridente e viva. Ella sorgeva adagio dalla scala della
terrazza, e giungendo su la soglia si fermava un istante: staccata dal
fondo arioso e chiaro, nella fresca e chiara veste, m'appariva immagine
sorridente, vivace, palpitante. E poi diceva: — Buon giorno....
Nè so dire di quale refrigerio mi era la sua voce. Il dolce suono
dell'accento paesano or si prolungava or si rinvigoriva in una
particolare dolcezza di timbro; in una soavità calda e tremula nelle
vocali forti, che s'acuiva a una intonazione nitida se elevava
o affrettava la parola o rideva. — Parla! — le dicevo, quasi per
raccogliere quell'armonia nel cuore e non perderla mai più.
Ma alla prima gioia di rivederla e di riudirla, sottentrava dopo pochi
minuti il cordoglio, la disperazione. E dovevo fingere, celarmi!...
Poi ebbi una nuova perplessità.
Perchè essa non era più mattiniera come una volta; tardava tanto a
discendere?
Un mattino quell'attesa fu anche più lunga.
— Dorme Ortensia? — domandai a Mino, che scendeva le scale.
Mino portò l'indice al naso, perchè tacessi; corse in tinello e tornò
con due bei grappoli d'uva: uno bianco e uno rosso.
— Glieli porto.... Come riderà a vederli quando si sveglia! — Si avviò;
tornò indietro:
— Ne ho mangiata tanta anch'io! Ne vuoi, Sivori? — Io gli diedi un
bacio. — Va, va; portali a tua sorella!
Salì infatti, per discendere poco dopo e dirmi:
— A vederli s'è svegliata!
L'immaginavo nell'atto di spiccare le dolci grane, desiosa, gioconda,
senza pensiero di me che l'aspettavo triste, solo, pensando a lei;
la scorgevo riabbandonare il capo al cuscino, dipartire dalla fronte
i capelli e guardare la striscia di cielo per le imposte socchiuse.
Ricadeva, dopo la prima allegrezza, nella pigrizia piacevole che lascia
il sonno non del tutto scosso dalla frescura del mattino di settembre,
e appena appena abbassando le palpebre raccoglieva ad una ad una, quasi
dalla luce esterna, le idee. Erano ricordi? desideri? propositi per
l'oggi? speranze lontane? Era amore?
Ah non per me, che aspettavo ansioso, da basso: ella stessa non sapeva
per chi, ma non per me, fermo nel proposito di non dirle: «il tuo
affetto, sorella, non mi basta più!»
Quando giunse, mi parve che i suoi occhi mi leggessero in cuore; che
il mio segreto le fosse già manifesto; ch'ella stessa fosse mutata.
E durante il giorno mi parve che le sue assenze per le faccende
domestiche si prolungassero troppo. Forse la tratteneva Eugenia, che
forse già sapeva di me....
Voglio confessare tutti quei miei affanni, quelle mie debolezze, quelle
mie tristezze!
Non solo provavo vergogna dell'infingimento: quel mostrarmi allegro e
disinvolto con Eugenia e con Moser; quello sforzo a padroneggiarmi e a
non mutar colore se si parlava d'Ortensia ch'ella non ci fosse, o al
sopravvenire improvviso di lei; quel cercarla non più franco e senza
incertezza come prima, ma con desiderio irrequieto; quell'attenderla a
lungo in un luogo senza parere...: non solo! La gelosia divenne in me
torva quale la gelosia di un uomo in preda a un amore senile; maligna
e gretta quale la gelosia di un marito vecchio per una moglie giovine.
Invano a veder Roveni ballare con Ortensia, nelle ultime sere, tentai
persuadermi che egli amava senza impeti e senza urti; a sorrisi di poca
significazione ed a inavvertibili occhiate, quasi prendendo l'amore per
un gioco tranquillo: ogni suo sguardo, ogni sorriso, ogni atto valeva
per me un'ardente ed evidente espressione d'amore; nè l'avaro che vide
rubarsi un tesoro patì mai tanto quanto io a seguire con l'occhio, nel
ballo, Ortensia e Roveni. Se parlavano, mi avvicinavo per udirli; se
ridevano, ne chiedevo, dopo, il perchè a Ortensia.
A poco a poco mi si faceva strada nell'animo il sospetto che fossero
d'accordo per ingannarmi; solo per il piacere d'ingannarmi; oppure
pensavo che Ortensia mentisse meco per pietà, accortasi della mia
passione; o anche perchè fosse stata sua madre a pregarla d'avere
misericordia di me....
A questo punto! A tal punto cresceva il mio soffrire che in certi
momenti mi pensavo in diritto di confessare il mio amore.
Ma non dovevo. Per la sua felicità, non dovevo! per la pace di Claudio
e di Eugenia, non dovevo! per la mia dignità e per il mio orgoglio, non
dovevo! Soffrire e tacere! Vederla ignara e tacere! Vedermela portar
via, e tacere!
Spiavo. Un pomeriggio Roveni venne ad attendere Moser. Io lasciai
che egli si accompagnasse, per il viale del giardino, con Ortensia,
allontanandomi con un pretesto. Poscia, di nascosto, li prevenni dalla
parte opposta e mi nascosi dietro la macchia ch'era intorno agli abeti
gemelli. Quando afferrai che parlavano di _lawn-tennis_ ebbi tal gioia
da svelarmi con un grido, come fossi là per impaurirli.
Alla gelosia ingiusta, seguiva più tormentoso il rimorso; e per
purificarmi del veleno che mi sembrava avere ingoiato, avrei versato
il sangue a gocce, da ferite. Che, dolcezza se avessi potuto domandar
perdono a Ortensia! Per giustificarmi almeno un poco, entro di me,
ebbi desiderio di narrarle i miei antichi amori; di apprenderle il
disprezzo, il ribrezzo, la nausea, la cattiveria che me n'era rimasta:
accrescerle così orrore della sensualità, della colpa e del tradimento;
ma avrei fatto male e mi vinsi.
Eppure si sarebbe potuto credere che qualche cosa di quel che turbinava
nella mia testa giungesse alla mente di Ortensia.
Uscì a dire con disgusto:
— Anna, che sguaiata! Non ha avuto il coraggio di chiedermi se
l'accompagnerei ancora alla fabbrica?
— E tu?
— Io le ho risposto di no. — Perchè no? — mi ha chiesto. — Perchè no! e
basta. — E lei: — Avrai da tener compagnia a Sivori. A te, che gli vuoi
bene, non fa le critiche che fa a me.
— Certo che gli voglio bene a Sivori: tanto tanto! — Gliel'ho detto
perchè ci ha rabbia. Ma non parliamone più, di colei. Mi fa ribrezzo!
Se non che un istante dopo aggiunse:
— Sa che Anna studia il canto?
— Per caffè-chantant è adatta — io mormorai.
— E sa che nome mi ha messo a me, per canzonarmi? «La Regina Ortensia
di Valdigorgo.» Crede di farmi dispetto! Eh! perchè faccio spesso a mio
modo e dico: piace a me e basta; e comando a tutti, anche a Sivori, il
nome non mi sta male!
— Anche a Roveni comandi?
— Sì che anche Roveni mi ubbidirebbe! Ma non comando mai nulla, a lui.
Io ripresi, senza più sorridere, con risoluzione che sembrò improvvisa:
— Anna lasciala cantare. Quanto a me, presto la libererò del mio
fastidio. Tra pochi giorni me ne vado....
A questa notizia Ortensia mi guardò incredula; balzò in piedi; venne
a me, che le sedevo, di fronte, su la poltrona alla parete opposta, e
severa, con un atto imperioso della mano:
— Non voglio!
— Ma io non ti riconosco per la Regina di Valdigorgo!
Con voce mutata, meno forte, seria, ella ricordò:
— Il babbo non la lascia partire prima che cada la neve. Non sono
d'accordo? — E rianimandosi: — Immagini, Sivori, la prima neve quassù,
che delizia! Immagini: tutto bianco.... I monti, là; e il giardino
tutto coperto; gli abeti, così alti, vestiti di bianco! E correre
fuori, là in mezzo? — Ma dubbiosa dell'efficacia della sua descrizione,
pregava con tutta la grazia degli occhi, della voce; premendomi con una
mano al braccio.
— Stia qui da noi, Sivori, finchè andremo in città, a Natale.
— Impossibile!
— Io e Mino non la lasceremo partire.... Pensi al dispiacere di Mino!
Ripetei: — Partirò a giorni.
— Mi getterò in ginocchio, a' suoi piedi.... Lasciarmi qua sola!
Le pareva che resterebbe sola!
— Ti restano tanti: il cavaliere....; Anna....
— Zitto! Non la nomini!
— La signora Learchi....; la Fulgosi.... — E in altro modo dissi: —
Roveni....
— Cattivo! Cattivo! Oh com'è cattivo! Anna ha ragione quando le dice
cattivo! — S'allontanava imbronciata.
Io....: ancora soffrire! ancora! ancora!
Era così dolce soffrire! Ancora ebbi pietà di me.
— Resterò due giorni di più e dirò a tutti: sono rimasto due giorni di
più, non per voi, per Ortensia! Sei contenta?
Allora tornò lieta.
— Due giorni? Proprio! Qua il lunario, che le dirò io il giorno della
partenza! Non ha nemmeno un calendario? Oh che uomo! — Uscì; tornò col
calendario, dicendo:
— Ne abbiamo? Dodici. Dodici settembre. I Santi vengono? Al primo
novembre. Dunque.... Dunque Sivori dovrebbe partire il tre: va bene? Il
tre per non lasciarmi sola il giorno dei Morti, con quella malinconia.
Otto e tre fanno undici.... È deciso!
Annunciò a voce alta, a una folla, immaginaria:
— Il dottor Sivori partirà da Valdigorgo fra due mesi, l'undici di
novembre! Avete inteso, signori? Ordine mio: della Regina Ortensia di
Valdigorgo!
Io pensavo ai monti e al giardino bianchi di neve. In tinello, il fuoco
acceso e crepitante.... Fuori, nel silenzio, fioccava; e tutti eravamo
attorno al fuoco; e io a raccontar favole, che Mino ascoltava da su le
ginocchia di Ortensia.... Ma rialzando gli occhi....: Ortensia aveva
perduto ogni segno della vivacità fanciullesca di pocanzi.
A che pensava?


XIX.

Mi amava?
Al sospetto rispose in me un proposito che poteva già essere effetto
di rimorso: «Ortensia non deve soffrire!»; e per i pochi giorni che
resterei ancora lassù, saprei attenuare ogni espressione affettuosa,
ponderare ogni parola, correggere ogni sguardo, affinchè l'affezione di
lei per me non prorompesse in amore e dolore, e il mio sacrificio fosse
pieno e grande.
«Non deve soffrire! Come vuole sua madre, deve viver lieta sino a
quando Roveni le manifesterà le sue intenzioni. Allora amerà e andrà
sposa felice».
Virtù? Sacrificio? Non eran vane parole. Ma il pensiero di perderla
interamente, tardi o presto, mi dava tale spasimo da scusarmi d'ogni
pensiero più insano.
«Che io mi posponga a Roveni, è giusto; ma non è giusto che io creda
alla felicità di Ortensia perchè egli le darà i gaudi dell'amor
materiale ed ella soggiacerà alla turpe legge dei sensi».
Ed eccomi a chiamar ribelli sublimi coloro che rifiutano di vivere nel
mondo per rifiutarsi alla legge universale, bestiale e prepotente; e si
mortificano e muoiono lieti d'esser sfuggiti all'inganno del piacere e
d'aver servito alla sensualità. Avessi potuto rapir meco, salva da ogni
cupidità e da ogni bruttura, la vergine che aveva inteso in me un bene
libero da quella esperienza materiale e torbida!
Ed ecco un altro tormento. In me, ora, un involontario contatto della
persona con Ortensia, sedendo vicini o passeggiando, o l'abbandono
innocente e confidente della sua mano alla mia, che non la ricercava,
destava un sospetto oscuro, improvviso, infrenabile, rapido come un
brivido: nel mio sangue, non nella mente.
Il mio pensiero ripugnava da quella istintiva concitazione sensuale,
mentre io la vedevo e la sentivo così fervida e giovine. La guardavo
fisso, con un timore doloroso. E lei diceva:
— Perchè mi guarda così?
Alla dimanda, mi si allargava il cuore, perchè non scorgevo ne' suoi
occhi nemmeno l'ombra di quel mio sospetto; perchè il suo sguardo
mi cadeva limpido nell'anima quasi a purificarla subito; perchè
rivelandosi ignara, fin nella voce, del motivo che io aveva avuto
a guardarla così, essa non attendeva risposta nè mostrava dubitare
d'altro motivo che non fosse un affettuoso e semplice indizio di
tenerezza....
Ma il più lieve contatto d'altri, o un altro sguardo, avrebbe potuto
proporle e insinuarle il desiderio; una differente stretta di mano
avrebbe potuto darle la sensuale commozione che non le davo io.... E un
altro la contaminerebbe!
In confronto a questa infamia — era un medico che la chiamava
un'infamia! — sembrava cessare ogni colpa nel mio amore nobile e puro;
e mi dicevo che se Ortensia mi amava, mi amava allo stesso modo di me,
nè proverebbe mai voluttà più grande....
.... Mi amava?
Era tanto mutata!; o mi pareva. Diversa nei modi: non accorreva più
come una volta, non rideva più con l'impeto di prima; diversa nello
sguardo, più luminoso e profondo; e in tutta la persona di lei sembrava
definirsi la gravezza di un intimo raccoglimento, d'una meraviglia
deliziosa, intensa, continua; quasi d'una beatitudine meditata e
riflessiva.... Se pure non m'ingannavo!
La consideravo con timida gioia. Ma diveniva tosto una gioia affannosa,
paurosa; e con più speranza che timore mi ripetevo:
«Forse m'inganno».


XX.

O forse tutto era un inganno? Per difendermi del male che facevo e che
avevo, inveii contro me stesso e rimproverai Ortensia. Innamorato, al
pari di tutti gl'innamorati forse io ero uno stolto che alla donna
reale aveva sostituito la creatura del suo sogno. Troppa bellezza,
troppa intelligenza avevo attribuito a quella ragazza diciassettenne;
e bisognava rompere l'incanto, non solo per risparmiarle soffrire, ma
per risparmiarmi soffrire.
Era bella; nessuno poteva negarlo: un fiore. Beltà però facile a
deperire presto, come accade di tutte le bionde.
Poi mi meravigliavo perchè adesso Ortensia non chiacchierava più
come per l'addietro, e la credevo perciò innamorata? Ma taceva solo
perchè tacevo io! A suggerirle argomenti, era stata loquace: da sè non
trovava da dire cose notabili. Del resto, le donne molto intelligenti
si dimostran tali nell'eleganza e nel buon gusto: Ortensia non aveva
sempre buon gusto.
— Perchè ti sei messa questa giubba grigia, che ti sta così male?
— Comincia a far fresco, la mattina.... È di flanella. Ma non la
porterò più.
— Te l'ho detto un'altra volta che è un colore che ti fa parer brutta.
— È vero; non me ne sono ricordata.
E io, dopo una pausa:
— Sei infatti molto smemorata, Ortensia! Tua madre e tua sorella hanno
ragione di dirtelo.
Rispose paziente, con un queto sorriso:
— Metterò giudizio, e lei non avrà più da sgridarmi.
Ahimè! I tentativi di rompere l'incanto erano vani! Essa mi guardava in
un modo....
Ma a quella frase di «metter giudizio» rammentai le raccomandazioni che
mi aveva fatte Eugenia e che avevo dimenticate da un pezzo. Tuttavia
aspro ripigliai:
— Tua madre desidera che io ti corregga.... Son gli ultimi consigli.
Essa, con un tremito nella voce (non m'ingannavo), esclamò:
— Ultimi? perchè ultimi?
— Ti ripeto che debbo partire lunedì. Sbigottita, pallida (non
m'ingannavo), mi fissò dicendo:
— Non lo credo; nessuno lo sa, in casa!
— Lo sapranno oggi stesso.
— Ma perchè? che è stato?
Ed io, col cuore che palpitava come il suo:
— Nulla.... L'altro dì te lo dissi pure che sarei partito a giorni.
— Io credevo scherzasse.... Non mi promise....?
L'interruppi:
— Fu una promessa della tua fantasia. Eccoti un consiglio: non
affidarti mai alla fantasia contro le imposizioni della realtà.
Questo le dissi, io, che avevo tentato invano di romper l'incanto!
Ma essa si strinse nervosamente le mani, a capo chino; poi mi guardò
in quel modo.... Non m'ingannavo! Mi sembrò di vacillare; non potei non
mitigare la voce, non dire:
— In realtà.... tu sei buona.
— Buona? — Sorrideva così triste!; un sorriso di amore dolente.
— Sì, buona! — proseguii fingendo di non capire e cercando pretesto
a inasprirmi di nuovo. — Il mondo invece è cattivo! Che dolore
sarebbe per me, un giorno, se dovessi apprendere che tu ti sei mutata
all'esperienza del mondo!
A sua volta, quasi suo malgrado, ribattè fiera, aspra:
— Lei ha poca fiducia in me; ed io ne ho tanta in lei!
— Che sai di me, tu? — esclamai senza più chiaramente avvertire quel
che mi dicessi. — Ricordati che ogni infamia è possibile: anche quelli
che stimiamo di più ci possono mancare!
Il mio pensiero, trasportato dalle mie stesse parole, corse a Roveni.
Ma indietreggiai; contenni l'impeto della gelosia, a cui stavo per
abbandonarmi.
— No: esagero. Non tutti quelli che stimiamo si dimostrano indegni
della nostra stima. Io di Roveni....
— Sivori! — Ortensia gridò, sdegnata, quasi minacciosa, come non
l'avevo mai vista.
— Lasciami dire. Di Roveni io ho tanta stima che non posso pensare alla
tua felicità senza pensare alla sua felicità.
Allora essa mormorò:
— Non credevo....; non credevo.... — e fuggì via. Non credeva che io
fossi spietato!
.... Annunciai poco dopo a Eugenia che partirei il lunedì prossimo.
Eugenia mi disse:
— Perchè non restare ancora un po' da noi? Speravamo restaste fino
all'inverno!... Volete andar laggiù, in pianura, in autunno?
Non andrei a Molinella.
— Farò come Roveni. Andrò anch'io lontano a cercar lavoro; ma con
minori speranze di lui!
— Vedete che non siete guarito? — la signora mormorò notando il modo
delle mie parole. Scoteva il capo; e come un giorno aveva detto:
«perchè Dio non v'ha dato una sorella?», ora disse:
— Se aveste una famiglia, vostra....
Questo dovevo udir io, da sua madre, senza rompere in pianto!
A desinare, dalle occhiate bieche di Claudio mi avvidi che Eugenia
l'aveva già informato della mia decisione. Mi avvidi anche che n'era
informata Marcella: Ortensia arrossì, guardandomi....
Quanto mi amava!


XXI.

Assistere alla commedia della vita col pianto nel cuore: anche questo
è la vita!
Alla festa del XX settembre, in Valdigorgo, che avrebbe dovuto
redimere il cavalier Fulgosi dal ridicolo in cui egli asseriva d'esser
precipitato per colpa della moglie, anch'io risi; ma la comicità dei
casi è solo nella mia memoria mentre ho vivo nel cuore il dolore che
in me accompagnava la stentata ilarità. Sì gran dolore risento, da non
poter indugiare nel racconto, quasi per un senso di profanazione. Tre
immagini, del resto, importa solo che io rilevi dalle ricordanze di
quel dì e le scorga nella lor propria luce: in luce d'amore, Ortensia;
chiaramente perfida, Anna Melvi; nella penombra da lui sempre cercata,
Roveni.
E mi rivedo, prima, nella sala del Municipio, rigurgitante di pubblico;
con il popolo in fondo; con le file delle signore in cospetto
all'oratore e, dietro, in poltrone, le autorità del Comune e del
Circolo che s'inaugurava. L'oratore parlava su di un palco, davanti a
un tavolino; e il discorso procedeva alla volta della pace universale,
tediosamente inzeppato di frasi a doppio senso, per congiungere il
tema della caccia alla politica. «Sappia l'Italia che il _punto di
mira_ dei Valdigorghesi è il bene della patria»....; e così via: col
_paretaio_ della difesa nazionale; con le _poules_ e il _bersaglio_ del
patriottismo....
Durante il fastidio dell'enfatico sproloquio, Ortensia cercava con
insistenza il mio sguardo. Mi sorrideva, e quel lieve sorriso senza
circospezione, senza sospetto, nell'innocente abbandono di un bene
che nulla più può contenere, mi angustiava di consolazione e di pena.
Ritraevo gli occhi da lei provando l'impressione che quello sguardo mi
rinnovasse l'anima; e pur conservando nella vista mentale l'amorosa
immagine, non resistevo alla tentazione di tornar a guardarla e
tremavo all'istantaneo riscontro dei nostri occhi. Là fra le altre
essa era sovrana non solo per la bellezza, ma perchè il suo aspetto
aveva perduto ai miei occhi ogni apparenza d'adolescente ignara, e io
la vedevo in tutto lo splendore della giovine innamorata e orgogliosa
dell'amore che le fioriva in petto. Ora temevo che gli altri ci
sorprendessero; ora, in un impeto di insania, avrei voluto che tutti
scorgessero come essa mi amava.
Sola cosa buona che facesse il cavaliere era quella che con la sua
personcina elevata sul palco impediva a Roveni di scorger Ortensia.
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