In faccia al destino - 19

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ridendo: «Povera bambina!» Finchè disse: «Hai scoperto che l'antica
fiamma di Sivori non è a Berlino?», e disse questo in un modo, in un
modo.... Alludeva a persona vicina, a persona che io conoscevo. A chi?
a chi? Un'«antica fiamma».... Ah un pensiero orribile mi attraversò
la mente! Non volli più vederla, colei, perchè ogni sua parola mi
richiamava quell'idea orribile.... Mi accordai con Marcella per
allontanare Anna da casa nostra. Ma incominciò la lotta che doveva
durare non solo giorni; dei mesi! Pensavo: Sivori dice che il mondo
è fango. C'è tanta cattiveria al mondo che Anna forse.... s'è intesa
d'infamare mia madre? È impossibile! Chi non conosce che donna è mia
madre? Con tutta l'anima respingevo il sospetto...., il solo sospetto
che si potesse infamar mia madre. Capite? Questo solo sospetto! Ed era
nulla! Temei, sperai impazzire perchè una voce diabolica mi suggeriva
tutto quello che dicevate voi, esperto del mondo: al mondo tutto è
brutto; tutto è finzione, menzogna! Ma se questo era vero.... Ecco,
Sivori, a che fui condotta! Orribile! Era un'idea che mi balenava
coi ricordi del vostro pessimismo, della vostra sfiducia di tutto
e di tutti. «Se il mondo è fango.... non potrebbe esser vero....
quel che sembra dir Anna?» Che martirio! Se mia madre avesse visto,
allora il mio martirio! Ma l'idea assurda, atroce dava la spiegazione
del mistero: «Ecco perchè Sivori m'ha abbandonata!» Quante volte mi
gettai nelle braccia della mamma per accarezzarla, per sentire il suo
cuore, che mi perdonasse! E quante volte vi avrei scritto: — Carlo!
impazzisco.... Tornate!... — Mi pareva che al solo vedervi mi sarei
purificata l'anima e vi avrei perdonato tutto il male che mi avevate
fatto, tutto il male che mi avevate insegnato!
Non resse più oltre; nascosto il viso con le palme, Ortensia
singhiozzò. Io la pregavo, la scongiuravo di perdonarmi; non potevo dir
altro: — Perdonami.
Ma furon pochi istanti; senza badarmi, volle pur dire come nel suo
cuore aveva salvata la virtù di sua madre.
— Lottai; vinsi. Mi svegliai dal sogno. Avevo sognato che la vita,
brutta per tutti, sarebbe stata bella per noi, per il nostro amore.
In realtà, voi non mi avevate amata; mi eravate affezionato soltanto:
sorellina! Non era stato dunque un abbandono, una fuga: era stata
semplicemente una partenza, la vostra. E la malignità di Anna non aveva
altro scopo che affliggermi per la simpatia che mi dimostrava Roveni.
In realtà, io ero stata malata, ero malata; ma guarirei. Povera mamma!
Una santa! Però dovevo imparare anch'io a stare al mondo! Non dovevo
toglier subito ogni speranza a Roveni; e cercai di sopportare le sue
maniere; di vincere l'antipatia che a poco a poco suscitava in me.
Ma quando tentò d'imporsi con le minacce, quando tentò di profanare
il segreto dell'anima mia, gli risposi no! Ricaddi; lottai di nuovo;
dubitai di non guarire mai più e invocai una sventura. La desideravo
per sottrarmi a quel martirio; per avere un dolore diverso.... Vi ho
amato?
— Povera Ortensia! — io mormorai, con un nodo alla gola.
— La sventura venne. Voi tornaste. E io vinsi ancora: con la coscienza
tranquilla potei chiamarvi fratello.... Non avreste dovuto esser altro
per me; non sareste più altro. Così avevate voluto voi un giorno, così
vi ripetei. Lo stesso vi ripeto oggi.... Dunque che pretendete?
— Che tu mi perdoni....
— Vi ho già perdonato.
— Non mi basta!
— Io ho per voi la gratitudine di una sorella che vi deve più della sua
vita!
— Non mi basta! — gridai affannoso, fuori di me. — Non mi basta
perchè io t'amo come tu mi amavi un tempo; e tu devi amarmi come io ti
amo! Per il mio amore devi amarmi; per tutto quello che m'hai fatto
soffrire, e non sai; per tutto quello che t'ho fatto soffrirei! Devi
amarmi per queste lagrime; per le ferite che m'hai inferte oggi; per
la debolezza che un tempo mi faceva temere e desiderare la morte e
per la forza con cui oggi ti chiamo alla vita! Io debbo la vita a
te; ma tu non hai il diritto di togliermela: me l'hai data non solo
a prezzo d'amore, ma di dolore! Quando l'esistenza m'era divenuta un
peso inutile, per te riacquistai la facoltà di amare; ma appresi anche
che c'è qualche cosa di più alto dell'amore: il dolore. Mi sollevò il
dolore; mi diede forza il dolore, mi diede fede e bontà il dolore! Ecco
perchè devi amarmi come ti amo, come mi amavi!
Scuoteva il capo. Senza guardarmi mormorò:
— Sono forse in preda di una malìa? Mi pesa sul capo una maledizione?
Credetemi, Carlo! non posso più amare così; non sono più degna di
essere amata così! Nel cuore alle volte mi par d'avere una pietra, un
pezzo di ghiaccio; mi pare di essere condannata a un'eterna tristezza.
Quei fiori che abbiamo visti laggiù come son belli!: ma non per me.
Oggi è una giornata meravigliosa: ma non per me. Voi siete buono: ma
non per me.... Ho nell'anima la vostra tristezza d'un tempo; la vostra
disperazione.
Con le mani nei capelli esclamai:
— Adesso capisco tutto il male che ti ho fatto! — Vedevo la distruzione
di quell'anima; irreparabile.
Meglio morire!
Oh morire tutti e due!...; travolgerla meco nel lago!...
Essa disse:
— A mio padre gli han confitto le spine nella fronte, ma poi gli han
detto: sei una vittima. A mia madre le han gettato il fango addosso;
ma lei lo ignora. Io sì che ho ingoiato tutto il fiele.... Come potrei
amare? Che moglie, che madre sarei io? Che dovrei insegnare, io, ai
miei figlioli? A odiare! Ho l'odio nel sangue, Carlo! Non posso più
piangere.... E volete che ami!
.... Travolgerla meco nel lago. Finire!
Di contrasto il pensiero mi ricorse a Eugenia.
— Tua madre.... Tua madre sa.... di me?
— Sa il bene che vi volli....
— Dunque anche tua madre benedirebbe il nostro amore!
Ortensia sembrò non udirmi. Immobile, tendeva lo sguardo, come perduto
innanzi a sè, all'orizzonte. Il sole calava sanguigno e l'acqua ne
rendeva quel rossore di sangue. A un tratto....
— Ortensia! — gridai — Ortensia! — l'invocavo ebbro di gioia. Non
m'ingannavo!
I suoi occhi risplendevano dell'antica luce....
Disse piano:
— Vi ricordate, quand'ero ragazzetta, quel giorno che ci sorprendeste
sul prato del convento? Vi lasciammo lassù, solo. Ma io tornai da
voi.... Era un tramonto così.... Come ero felice, allora!
Scoppiò in pianto dirotto. Salva! Io la trassi al mio petto, al mio
cuore: salva!
E i miei baci ricuperarono quell'anima.


VIII.

In piedi su la porta di casa, con le mani ai fianchi, la Rita era
contemplata di sottecchi dal marito, che col naso e i bargigli più
rossi del solito e la berretta un po' disorientata, le sedeva di
fronte.
In quell'accordo idilliaco i coniugi aspettavano tornassi dall'aver
accompagnati gli ospiti alla ferrovia per ammettermi al discorso, che
ad essi suggeriva un'idea contemporaneamente venuta al loro pensiero.
Non sospettavano che la stessa idea fosse venuta anche a me; e a
meravigliarli già bastava il fatto di esserne illuminati ambedue in
una volta. Anzi la combinazione avrebbe avuto del miracolo se in essi
fosse stata minor opinione della loro furberia e pratica del mondo.
Però anche ai furbi bisogna prudenza quando hanno da aprir gli occhi a
chi li tien chiusi di sua propria volontà.
E per aprir gli occhi a me, lui, il Biondo dagli occhi soppiattati,
cominciò a dire alla moglie:
— Il signor Claudio dimostra più anni di quel che ha.
La moglie assecondava.
— Sicuro!; lo dico anch'io; è sempre un matto allegro; ma ha fatto i
capelli bianchi.... Eh, a stare al mondo!...
— Un uomo troppo buono. Lo so io se ha del cuore! Quando gli ho detto
della vedova dello Zingaro è andato subito al portamonete.... M'ha dato
troppo, vi dico!
— Il Signore gliene renderà merito; gli farà crescer bene il figliolo;
gli mariterà bene anche quest'altra figliola.
Pausa. Eppoi il Biondo, accomodandosi la berretta e sollevando le
palpebre verso di me:
— Che bella ragazza!
— Bella e buona — aggiunse la Rita.
Io domandai:
— Come fate a saperlo che è buona?
— Si vede!
— È figlia di suo padre!
— Sta a vedere che il signor Carlo verrà a dirci lui, adesso, che è
cattiva!
La Rita, così dicendo, rideva.
Proseguivano:
— Ha degli occhi che parlano.
— Ehm! Non vorrei io che invece di lei, poverina, fosse cattivo
qualchedun altro con lei!
— Cosa intendete dire? — domandò, furbo, il marito.
— Niente! niente! Una mia idea....
— A Molinella — affermò il Biondo — non c'è mai capitata l'uguale. Ce
n'è, qui, delle ragazze che hanno una bella dote? Ma tutte bùggere!
aria! fumo!
— La più bella dote sta nell'affezione....
— Bene! Ho un'idea anch'io, se volete saperla: che l'affezione c'è, a
quest'ora, e come! Con quegli occhi che parlano.... Si vede!
— Ma siete matti da legare! — gridai io, finalmente. Press'a poco con
lo stesso tono avevo dato un giorno dello sciocco al cavalier Fulgosi.
E la Rita: — Non ve l'ho detto che il cattivo questa volta è lui, il
signor Carlo?
— Ma non sapete — gridai di nuovo — che potrei essere suo padre?
A questo grave argomento la Rita oppose un proverbio: «Se il
marito non è in età, la moglie giudizio non ha». E il Biondo oppose
un'argomentazione che tagliava la testa al toro, meglio dei proverbio:
— Se lei, signor Carlo, avesse i miei anni, poh! avrebbe ragione
di pensarci su; ma se io avessi suoi...., ah! corpo di....! non ci
penserei su tanto!
Quindi la Rita avanzò di due passi verso me parlando più seriamente che
mai.
— Vuol campar sempre solo come un cane? Quando siam morti noi, chi ci
ha più, al mondo?
— Dove vuol trovarla una ragazza così a ragione? — insistette il Biondo
alzandosi e avvicinandosi anche lui per stringermi con la moglie come
in una tanaglia.
Io finsi un principio di resa.
— E se la ragazza non mi volesse?
Peggio che peggio! Non concepivano nemmeno che una donna potesse
rifiutar la fortuna di essere posseduta da me.
— Se questo fosse — disse il Biondo — mi sbattezzerei, quant'è vero Dio!
E la Rita scuotendo le spalle e abbandonandomi alla mia cattiveria:
— Ma lasciatelo cantare! Credete che non lo sappia che è innamorata
cotta, la poverina?
Però il Biondo e la Rita sarebbero stati meno entusiasti di Ortensia
quando avessero conosciuta questa lettera, che ricevevo il giorno dopo:
_Carlo_!
Vi ho promesso di scrivervi, ierisera, ma non vi ho detto il
perchè.
Io vi voglio bene, vorrei correre da voi, dirvi: sono vostra per
sempre e saremo felici!
Ma per quanto saremmo felici? Con quali dolori saremmo condannati
a scontare la nostra felicità? Non di voi diffido! non di voi!
Diffido di me e del destino. Non è debolezza che mi trattiene,
credetemi, Carlo! È forza, è resistenza; perchè io non voglio
veder soffrire per me, per causa mia!
Mi direte che saremo più infelici a non essere congiunti, a vivere
separati così, poichè ci vogliamo bene; direte che io non vi amo
come mi amate voi. Invece io sono orgogliosa del vostro amore e
vorrei abbandonarmi a voi senza più temere, per la vita e per la
morte!
Ma ora sento d'aver fatto più male io a voi che voi a me e temo
di dovervene fare ancora. Temo, temo..., e vi scongiuro Carlo:
riflettete! non sono più quella di una volta. Che non dobbiate
pentirvi! Ve ne scongiuro piangendo, ora che posso piangere!
Ah per voi due, Biondo e Rita, questa ragazza ha meno giudizio di
quel che pareva? Per voi, quando una ragazza ha chi le discorre di
buon animo e lei gli vuol bene, non ci dovrebbero più essere tante
dubbiezze?
Ortensia non dovrebbe piangere, ma cantare a squarciagola, come ai
vostri vent'anni, o Rita?
Ebbene; sentite, cari vecchi! Io vi assicuro che Ortensia diventerà mia
moglie!
. . . . . . .
(E Roveni?)


IX.

La mia gran fede, che aveva riscossa e commossa quell'anima, la
riscaldava a poco a poco.
Diverse espressioni ricorsero nelle sue lettere che significavano in
lei il prossimo, compiuto ritorno a sè stessa. Questa, per esempio:
Ho sognato che mi passavi una mano su la fronte e così mi toglievi
ogni antico male, ogni brutto ricordo. La dolcezza del sogno m'è
rimasta tutt'oggi nelle vene; mi è parso di sognare tutt'oggi e di
vivere in uno splendore.
Le mie visite non erano frequenti. Essa mi imponeva lo stesso riserbo
che per il passato. Perchè?
Diceva: — Voglio aver la consolazione di dire io al babbo: «Io sono più
ostinata di te, ma Sivori è più ostinato di noi due insieme! Si è messo
in testa di sposarmi, e bisognerà cedere!»
Quando direbbe ciò?
Oh anche in questo indugio, che sembrava un capriccio, c'era tanta
delicatezza! Prima di tutto io comprendevo tacitamente il perchè voleva
rivelar lei al padre il nostro segreto.
Per quanto ottimista, Claudio come resterebbe se la notizia gli venisse
da me o se Eugenia gli dicesse: — Sivori domanda la mano di Ortensia?
— D'un amico come me non era da dubitare gli domandassi in moglie la
figliola in compenso dei quattrini che mi doveva; ma, insomma, per
quei maledetti quattrini gli potrebbe essere amareggiata una gioia che
Ortensia sperava piena e perfetta se lasciassi fare a lei.
Poi Ortensia non aveva torto del tutto quando esclamava:
— Abbiate pazienza, signor dottore! Volete che i miei credano che sono
tornata buona solo per voi? che torno allegra, solo per voi, che non
penso che a voi?.... Ho dei rimorsi — aggiungeva più piano. — Con mio
padre, quando si sforzava di nascondere il suo dolore, ero sgarbata
e urtante; avrei voluto vederlo soffrire come soffrivo io. E con
la mamma, quando mi ribellavo alle sue parole di conforto, alla sua
rassegnazione? Mi ricordo di certe sue occhiate che adesso mi sembrano
quelle di una povera creatura ferita a morte, tant'ero irritata,
cattiva!... No, Carlo: è troppo presto dire a lei e al babbo che sono
disposta ad abbandonarli. Lasciamo passare almeno qualche mese, che
s'avvezzino un po' a questi luoghi, a questa solitudine....
— Ma credi che tua madre non ci legga in faccia il nostro segreto e non
ne goda? — le dicevo io.
— Non importai Vorrei anzi che indovinasse tutto; anche la nostra
riserbatezza. Così si abituerà meglio all'idea del mio abbandono.
.... Io andavo alla Ca' Rossa due o tre volte la settimana.
O di giorno o di sera, erano ore di felicità.
Ivi, alla Ca' Rossa, avanzando l'estate, mi ristoravo in quella
frescura spirituale che v'infondeva la novella quiete.
Ortensia m'appariva più bella nella veste umile, con il lungo grembiule
attinente alla persona ardita e disinvolta; e la gola, che sorgeva
bianca dal corpetto un po' scollato, e la nuca scoperta sotto l'onda
dei capelli copiosi strettamente raccolti, davan cenno di forme che la
salute rifiorendo renderebbe in breve tempo perfette. Più era lieta se
colta in faccende di massaia o di giardiniera. Perchè già il lazzeruolo
proteggeva una corona di molti vasi in cui era solo da temere l'eccesso
dell'acqua che Mino v'impartiva; ed erano questioni con la sorella,
che pareva averli inventati lei i garofani e i gelsomini e l'arte di
coltivarli!
Dall'altro lato della casa schiamazzavano galline in un piccolo
recinto, e Ortensia sperava ricavar tante ova da farne spedizione fin
a Milano; ma un _cocodè_ poco naturale rivelava spesso che Mino a ber
le ova cantava con la stessa gioia che le galline a farle. Ah quel
Mino! A sentir lui non gli piacevan solo le ova fresche; gli piaceva
anche l'astronomia. Nell'infinito riscintillamento di una sera senza
luna accennai ad Ortensia massaia che anche in cielo passeggiava una
chiocciola con un drappello di pulcini; e Mino cominciò a pretendere
gli dicessi i nomi di tutte le stelle: tutte!
Infatti, oltre che la Stella Polare gli insegnai a riconoscere la
smeraldina Vega e il rubicondo Antares, Arturo e il Delfino, e, benchè
pianeti, Marte e Giove.
Disgraziatamente gli esami di Mino pretendevano ben altro!; e durante
il giorno egli faceva altro che studiar grammatica, aritmetica e
storia: martellava, inchiodava, impiastricciava dei più vivi colori
certi fogli che avrebbero sbigottito fin un pittore impressionista.
Incarcerato nella sua camera, vi declamava per cinque minuti i verbi
irregolari o la costituzione di Servio Tullio; poi governava una tribù
di formiche restìe ai suoi ordini. Redarguito, rispondeva piangendo
d'aver appreso a scuola che chi studia troppo, muore; e poichè il
troppo è relativo all'indole e al giudizio delle persone, asseriva
in coscienza che studiare due ore al giorno era per lui uno sforzo;
e gliene doleva sinceramente perchè avrebbe voluto diventar ingegnere
navale o ufficiale d'artiglieria.
Di conseguenza, a luglio fu bocciato agli esami in tutte le materie
(in astronomia non l'interrogarono). Dopo di che gli pesò addosso la
minaccia di essere messo in collegio se non riparasse in autunno.
Perciò avrebbe studiato in luglio e in agosto più di due ore al giorno,
a costo di morire, se per distrarsi dalla pesante minaccia del collegio
non avesse anche studiato la marcia reale al suono di un'ocarina di
terracotta, e se non avesse dovuto perfezionarsi al tiro al bersaglio
per divenire un bravo ufficiale d'artiglieria.
Mio buon Mino!


X.

.... L'8 settembre, giorno di festa, Ortensia mi scriveva:
Sono felice, oggi! Se tu fossi qua, Carlo, saresti felice come me
a vedere che oggi io sono proprio quella d'una volta. Domandalo
alla mamma se non corro e canto e non l'abbraccio così forte
che essa è costretta a dirmi, come allora, cervellina! Tutto il
brutto è passato; non mi ricordo più di altro che ti voglio molto
bene, che vi voglio tanto bene a tutti e che.... Zitto, signor
dottore! Mi guardo nello specchio; vediamo la sposa.... Poh!;
non c'è male.... Il merito sai di chi è? dell'aria e della festa.
Non senti anche tu che la festa è nell'aria, oggi? Dottore, se vi
vedessi sorridere da incredulo mi dispiacerebbe, perchè io alla
messa ho pregato per la nostra felicità e perchè sento proprio
che la mamma ha ragione; bisogna aver fede. In questi luoghi
cantano le litanie in un modo malinconico; eppure quando le donne
e i ragazzi hanno finito il canto, mi pareva che tutti dovessero
essere felici come me.
Quando siamo tornati dalla chiesa io e Mino, il babbo ci è venuto
incontro tutto allegro anche lui e mi ha domandato: — Sivori viene
oggi?
Tu forse sospetti che egli cominci ad aprir gli occhi? No, no! sta
sicuro! Solo non può ammettere che si stia allegri in casa senza
la tua presenza. Gli ho detto che verrai domenica.
— Domenica non è oggi, — ha brontolato lui — e mi pare anche a me
che questo sia vero.
Oggi avresti dovuto esser qui! Ma chi sa che prima di sera.... Se
giungi, dico tutto al babbo, oggi....
P. S. Invece di te è arrivata una lettera di Marcella che annunzia
per sabato o domenica la sua venuta con Bebe e con.... Non te lo
dico con chi verrà invece di Guido; no e no!
La venuta di Marcella mi darà più forza per aprir gli occhi al
babbo e per salvar Mino dal collegio.
Non voglio che restino qui soli, quest'inverno, i nostri vecchi!
E chi pensava più a Roveni?


XI.

Colui il quale invece di Guido accompagnò Marcella a trovare i suoi
era, manco a dirlo, il cavalier Fulgosi. Ma per che complesse vicende
famigliari la gelosa signora Fulgosi se n'era andata in licenza a
Varezze con il tenente Piero suo figliolo, lasciando o relegando
il marito a Valdigorgo? Forse la sua fosca gelosia s'era spenta al
brillare delle spalline figliali? O la gloria delle figliali imprese
l'inteneriva come l'avevano inasprita un tempo quelle del marito, e
lui, il cavaliere, godeva di una relativa e nuova libertà? O con quali
finezze diplomatiche giustificava egli le sue scappate da Valdigorgo a
Milano e meritava il permesso d'accompagnar Marcella a Bologna?
Non so e non m'importa rispondere; so che il cavaliere m'accolse alla
Ca' Rossa con tutti gli antichi segni di deferenza e ammirazione. Mi
avvertì subito che la scienza aspettava ansiosamente il profitto dei
miei studi sulla malaria, o la pellagra, o il tifo, o il socialismo,
o qualche altra malattia fisica o morale o sociale per cui mi fossi
umiliato a medico condotto a Molinella.
Io intanto ammiravo lui. Con risoluzione eroica egli aveva raso dal
mento e dalle ganasce la stopposa barbetta, conservando solo, per un
più adeguato uso della tintura, gli esili baffi; e i capelli lasciati
crescere dove ce n'erano e appiccicati a ricoprire, con economia, la
lacuna nel bel mezzo del cranio, gli facevan da parrucca. Rideva ora a
bocca un po' più stretta per attenuare la novità di qualche dente. E
anche l'abito bigio, attillato, e il gilet bianco e il ventaglietto,
che gli risparmiava troppe assidue contemplazioni di sè medesimo
nello specchio del pettinino, gli conferivano un'aria di baldanza tra
giovanile ed estiva.
Marcella, la florida Marcella, trovò opportunità a narrarmi che
partendo da Milano il cavaliere s'era messo in mente d'apparire, agli
occhi dei viaggiatori ignari, quale suo marito e padre del bimbo. In
vagone egli aveva discorso in modo da evitare l'uso del _lei_, e fino
a un certo punto c'era riuscito. Ma quando Marcella aveva udito uno
dei compagni di viaggio susurrare a un altro: — Che moglie giovane ha
quel vecchietto! — aveva essa rotto l'incanto dicendo, per una dimanda
qualsiasi: — Scusi, cavaliere....
Egli però si era consolato ad ogni stazione con l'esporre dallo
sportello il bambinone, che accarezzava paternamente senza timore di
passare per nonno.
A dir vero la timida Marcella, che rideva così di gusto, si era fatta
ardimentosa! Ne diede prova anche più vivace mentre io e Ortensia ci
rubavamo il suo Bebe. Ortensia pareva divorarlo a baci fragorosi, ed io
glielo rapii.
— _Tivovi_! _Tivovi_!
— Vuoi più bene a Sivori o alla zia? — gli chiese la madre.
Risposi io ch'egli voleva più bene a _Tivovi_, perchè lo baciava meno
forte e non gli faceva male e lo faceva trottare su di un ginocchio.
— Già! — esclamò Ortensia fingendosi irritata meco: — io faccio del
male anche quando faccio del bene? Cattivo! Oh come è cattivo Sivori!
E Marcella:
— Chi non vi conoscesse direbbe che siete cane e gatto, voi due!
Dimandò Ortensia:
— Ci conosci, tu?
— E come! Tutti e due.... (si battè coll'indice in mezzo alla fronte
per dire che avevamo entrambi poco giudizio). Se vi metteste d'accordo,
una buona volta!
— Faremmo una pazzia sola — io dissi ridendo.
— Ma la fareste finita: sarebbe ora!
Guardai Ortensia. Ella esclamò:
— Io non voglio, farla finita! Sempre cane e gatto noi due! E il gatto
sono io!
Soffiava contro al bambino e lo minacciava con le unghie.
Egli mi sfuggì, per rincorrerla.
Allora Marcella mi susurrò:
— Se il babbo non fosse cieco, o io potessi parlare....
— Zitta!
— Sì, sì: starò zitta; ma è ora di finirla! Aspettatevi un tiro
birbone, Sivori!
Ed io m'aspettai il tiro birbone. Chi m'avrebbe mai detto che Marcella
me ne giocherebbe non uno ma due, e uno più ardito dell'altro?
Dopo colazione, Bebe e il cavaliere — che ci promise una grande,
strepitosa notizia per l'ora del desinare, _entre la poire et le
fromage_ — andarono a godersi un meritato riposo; e mentre Ortensia
attendeva a faccende e Claudio e Mino conversavano fuori all'ombra con
Cleto l'ortolano, Eugenia mi disse che lei e Marcella avevano una cosa
da dirmi.
Marcella m'aspettava nella camera da pranzo. Su la tavola era un
piccolo pacco e a quello ricorsero gli sguardi delle signore, che
sorridendo l'una all'altra non mi celavano un grande imbarazzo.
— Parlo io o parli tu? — chiese Eugenia alla figliola.
— Tu, mamma. Sivori mi mette sempre un po' di soggezione.
— Poco fa non si sarebbe detto — osservai io, ridendo. E Marcella:
— Ma adesso si tratta di tutt'altra cosa!
— Che cosa mai?
Eugenia cominciò:
— La notizia, che il cavaliere ci ha promessa speriamo sia bella, ma
è più bella questa che vi diamo noi ora. Grazie a Dio, Learchi s'è
riconciliato con Guido.
La figliola scosse il capo:
— No, mamma; non cominci da quello che importa di più a me e a Guido.
E rivolgendosi a me:
— Anche voi dovete esservi meravigliato che Guido non facesse nulla
per mio padre, quando avvenne la disgrazia. Allora tutti i rimproveri
cadevano su di me. Ortensia....
— Questo è inutile — interruppe Eugenia. — Basta che Sivori sappia la
minaccia di tuo suocero....
— Appunto! Noi non lo dicevamo, ma mio suocero aveva minacciato di
diseredare Guido. Avete capito? Odiava tutti; me più di tutti, e la mia
creatura....
Necessariamente Guido non aveva potuto compromettersi ad aiutar Moser
con quel pericolo addosso: che alla morte del padre gli rimanesse solo
la parte legittima dell'eredità.
Ripigliò Eugenia: — Il vostro intervento, Sivori, ebbe anche l'effetto
di mitigare quell'uomo.... — E alla figliola: — Racconta tu....
— Adagio, mamma! Prima bisogna dire che cosa la signora Redegonda mi
scrisse dopo che il marito ebbe recuperato il suo avere. Mi scrisse
che quell'avaraccio riteneva il dottor Sivori un gran galantuomo e
cominciava a ritenere l'ingegner Roveni una canaglia. Allora lei non
lo lasciò più vivere; gli diceva sempre: — Bella figura avete fatto
col dottor Sivori quando venne a trovarci! Bella stima avrà di voi il
dottor Sivori a udire che odiate fin il vostro sangue!; — e così via.
Dopo aver disposto il marito a vergognarsi, un bel giorno la signora
Learchi aveva detto di voler andare a Milano. Il marito rifiutava di
accompagnarla. — Andrò sola — disse lei.
E sì che la signora Redegonda non aveva mai viaggiato da sola; non era
uscita da Valdigorgo che due o tre volte in vita sua! Il marito dovè
cedere; l'accompagnò; ma giurò che non avrebbe messo piede nella casa
di suo figlio.
E la signora Redegonda: — Ci andrò sola. Mi aspetterete su la porta. —
Ma quando furono su la porta giurò a sua volta che non sarebbe discesa
finchè il marito non fosse salito a prenderla.
Di nuovo animosa e rapida Marcella riferiva la scena intercalando
frequenti: avete capito? capite?
— Guido, capite? arriva a casa e vede.... suo padre con nostro figlio
in braccio!
Anche Eugenia rideva di gusto.
Già: Learchi era salito; era entrato in casa chiamando ferocemente:
— Redegonda! Andiamo via! Vado via!
Ma la moglie voleva desinare, prima. E si era messa ad apparecchiar la
tavola, mentre Marcella fingeva di preparare in fretta il desinare già
preparato.
Bebe piangeva a veder quel vecchiaccio; la signora Redegonda glielo
pose in braccio perchè lo quietasse lui. Allora arrivò Guido.
— Bella scena! — ripetevo io.
Ma Learchi si era vendicato a tavola; perchè tra un boccone e l'altro
non aveva risparmiato mortificazioni, e alla fine si era alzato dicendo
al figlio:
— Il vino è amaro; ma ho mangiato bene.... Buon pranzo; bella casa!
Devi guadagnar molto.
Guido colse la palla al balzo:
— Guadagno abbastanza; se continuo così, in pochi anni pago i debiti.
Immaginarsi la faccia del Cerbero!
— Debiti! Debiti! Hai dei debiti?
Era una bugia credibile quella di Guido, giacchè Learchi ignorava gli
aiuti che la signora Redegonda dava a Guido.
Marcella proseguì:
— Debiti! debiti! — urlava il vecchiaccio. — Andiamo via! Via! —
Strappò seco la signora Redegonda, la fece sin piangere.... alla sua
maniera.
— Ride anche quando piange — notò Eugenia.
— In conclusione.... Adesso parla tu, mamma....
(Eravamo al _quia_ e Marcella perdeva l'animo tutto in una volta).
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