In faccia al destino - 05

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Quando le Moser passavano in paese — e fuor dei giorni festivi era
assai di rado — il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il
capo dall'inferriata dell'ufficio; l'assistente del farmacista correva
sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la
partita a carte o a bigliardo.
— Le Moser! le Moser!
Ma tutti costoro, e gli altri non da meno e non da più di essi,
restavano come a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il
cielo è solo per gli eletti!
Dell'ingegner Roveni io non sospettavo affatto, perchè ero sicuro
di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava
Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e,
insieme, un po' rude.
— Un giovane serio! — ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con
Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale
lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi
cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»
E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza;
in modo che — ridendo egli poco o punto con tutti gli altri — poteva
parere un po' volgare. Anche ciò mi confermava nell'opinione che
fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero
fors'anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la
mente l'idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare
ragione alcuna.
Del resto, Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva
che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto
dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di
passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non
ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la
vita esterna che aveva lei.
In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in
Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto
raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione
prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse
perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla,
studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.
Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di
casa, senza udirla ripetere: — Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero?
— E mi chiamava spesso a voce alta: — Sivori! venga a vedere! corra!
Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia
non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la
vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di
Marcella o della madre.
Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi
d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:
— Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! — e allora a rivederci,
Marcella; o arrivederci, mamma!
Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare
il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In
quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la
vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo
scuro della camera.
A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva
il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come
di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi
occhi mi parevano più luminosi e profondi.
Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.
Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a
Sivori.
Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera,
Eugenia.
— Sa dove sia Ortensia? —; dove sia la signorina? —; dove sia la
cervellina?
No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era
stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico
convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.
Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come
avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri
allegramente.
— Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?... per farle,
dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora
perchè....: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami
nel bosco.... Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco
dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così.... burbero!
Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i
bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando
Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.
— Che m'importa delle mani? — ella disse. — Vedrà, vedrà che ciclamini!
Io li preferisco a tutti i fiori.... E lei? Qual è il fiore che le
piace di più? Dica! Voglio saperlo!
E Mino anche lui: — Di' dunque, Sivori!
— Indovinate — risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.
Mino esclamò, pronto:
— Le freddoline!
Ma Ortensia:
— I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i
papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?
Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo....
— La rosa! — gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.
Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti,
più piacesse a me.
— La rosa _thea_?
Dissi:
— Anche le _thea_ hanno le spine....
Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano
alla mente, Ortensia proseguì:
— La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso...., ma poi!
I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di
straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte
diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole
del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del
pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben
mettermi un altro nome!
— Il geranio è bello — disse Mino.
— Sta zitto, tu! L'orchidea?... — continuava l'altra. — Ma lo dica, una
volta! Il garofano?
Assentii.
Mino gridò: — È brutto!
Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:
— È vero; è molto bello il garofano!
Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei
fiori, e il garofano il più bel fiore?
Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre....
Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della
forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.
— Prendi! — disse Mino portandomene uno, di corsa.
Ecco.... Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo;
i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano
moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega
ma si tronca — _frangar non flectar_ —; le foglioline del gambo esili
ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile
verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato
cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza
semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.
Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano
all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano
esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna
la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore;
tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.
Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena
appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella
virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi,
fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono
le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è
di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e
quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua
vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per
la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi
gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono
pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono
quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta
quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che
non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio
ardente, dell'amore cupido e della voluttà!
.... Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due
o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei
occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.


X.

— Ho promesso e mantengo! — proclamò l'ingegner Roveni. — Domani si va
alle Grotte.
Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono
intorno a me per costringermi ad andar con loro.
Anna Melvi urlava:
— Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? — e sospingeva Marcella,
timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e
velava con le palpebre gli occhi soavi.
Inanimita, Marcella pregò:
— Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci
lascerà andare.
E la Melvi:
— Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo
ancora lei!
Io tacevo con un sorriso incerto.
— Non capite che Sivori non ne ha voglia? — esclamò Ortensia dopo
avermi fissato a lungo, in silenzio.
— Si annoierà più a restare in casa — ribattevan le altre.
— No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!
Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava
malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia
svogliatezza.
Io le dissi:
— A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non
mi vuoi?
Rispose forte e soltanto:
— Sì!
— E io ci verrò!
Il dì dopo andammo dunque noi sette — io, i tre giovani e le tre
ragazze — a far colazione alle Grotte.
Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro
l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi
reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in
apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me
stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?
Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che
guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte
di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del
fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco
o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra
montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e
bistorti.
L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella
veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con
Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella
nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente
come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il
mondo è mio», disse:
— Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto
lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io
stanotte.
Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli,
e colsi l'occasione per dirgli:
— Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.
Senza guardarmi l'ingegnere mormorò:
— Vedremo.
—.... Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.
— Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?
Era grato anche a me, che l'accertavo di no.
Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè
non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno
di più....» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero.
«Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere
libero. Costui è un uomo!»
Egli proseguiva:
— Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei
potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che.... Basta! La vita è
lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.
Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche
aveva compiuti gli studi.... Poi ripetè che a Moser egli era tanto
affezionato....
Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle
sue parole, e in quella reticenza: «È vero che....», per cui si era
trattenuto da una confidenza inopportuna?
Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era
quel giorno mentre mi camminava accanto — più alto e più robusto di me;
energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col
cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo
sicuro come il passo — anche ora mi sembra naturale che allora io
soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava
di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in
lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che
nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la
stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.
Proseguiva:
— Ho lottato sempre e non dispero di vincere. — Aggiunse: — Lei è di
quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il
denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?
— Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra — risposi.
— La forza di volontà non basta! — ripigliò il giovane. — Bisogna ben
determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie
forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre,
correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser
corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore,
appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile.
Io riuscirò dove voglio?
Interrogava l'avvenire.
— Lei riuscirà — dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a
Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe
dovuto raccogliere la mia attenzione. — Lei sa misurare gli ostacoli e
li abbatterà.
— Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche
intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere
che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non
è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per
colpire poi a spada tratta....
Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in
me stesso.
E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità
dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.
— Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco —
disse Ortensia.
Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata
interrotta da un nebbione formidabile.
— Dovemmo pernottare in una capanna.
— Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire — disse Marcella a
Ortensia.
Pieruccio affermò:
— Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!
— Non è vero! — gridò Guido. — Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla
capanna, per paura di perdervi.
— Ci arrivammo!
— Storie!
Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così
piccola impresa.
— Oh che notte, là dentro! Che notte! — ripeteva Marcella. Raccontava
Ortensia:
— Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare
un poco. Che freddo!... Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle
in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò
che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare
perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva
le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le
portavano due guanciali!
Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro
particolare ricordo:
— Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.
L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: — Lei non dovrebbe saperlo se
io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.
Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro,
perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione
del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità,
alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia
memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di
una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia
era lontana da me, lieta senza di me.
Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a
levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che
vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava:
— Noiosi! —, e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.
Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale
attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona
eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la
studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia
voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e _qua
qua_. Gli disse Pieruccio:
— Fa l'asino, che ci riesci così bene!
Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane
accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque
una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle
ragazze.
Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità
di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre
più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di
un'illusione necessaria.
Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per
persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a
poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.
Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che
io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un
affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.
Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i
desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni),
se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia
speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto
a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve
interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei
soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da
me.
Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco,
sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia.
Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?
Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in
quella passeggiata!
Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a
mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo
specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese
dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.
— Signor dottore: vuole? — mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e
Anna accorrevano.
Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:
— Voglio veder io! voglio vedere!
Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra
per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche
da Roveni. E risate e grida.
Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.
— Oh l'infelicità del primo amore! — dissi con l'ingegnere. — Che
fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito
formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare;
con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe
specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli
occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce
mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le
facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare
qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella
per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar
intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare
il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa
il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso
e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a
trovar un gesto che non sia goffo.
Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia;
mi fissò e disse:
— Brutto giorno, oggi! — e via!
A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su
di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i
nostri nomi.
Disse Roveni: — Che bella voce ha Anna! — E forte: — Canti, signorina
Melvi!
Allora la monellaccia, con voce squillante:
L'amore è una catena!
L'amore è una catena
che non si spezza....
.... Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più
che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati.
Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano
e appianavano i massi — e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi
dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da
lungi le mine — le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico
cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne
il prezzo.
Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io
invidiai la gioia di vivere!
Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale
disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie
umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il
taglio avido dei denti?
E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.
Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e
neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro
lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole
batteva irradiato dalla scarsa corrente.
Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una
nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e
morto. Morire così!
Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più
incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più
oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che
ebbe.
.... Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia,
Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni,
senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.
Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e
s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità,
o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito
a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè
riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo.
Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E
veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala
di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su
di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce
pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.
Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu
riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar
l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla
fiammella.
Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato,
a far la colazione che un servo aveva predisposta.
Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano
frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti
raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde,
or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce,
casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran
brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.
D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe
quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora:
l'_Angelus_ vibrò nell'aria.
Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi
tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre,
che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case
per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io
corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e
traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e
ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un
morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e
fresca.... Infelici i poveri!
Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?
— Qual è la villa De Mol? — chiesi. Me l'accennarono.
— Perchè? — mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.
Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta....
Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!
Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù
di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e
ragazze vestite di bianco l'accompagnava; e gli alberi del viale, per
cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del
corteo. O la felicità era d'intorno a me?
Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano?
Ascoltai.... Anna e Ortensia, alla fabbrica Moser, erano entrate
furtivamente nella dimora, nella camera di Roveni.
— Quando? — chiesi.
— L'altro ieri.
— A far che?
— Non ha sentito? — Ortensia proseguiva. — Tutto sossopra! Abiti,
biancheria, cravatte.... Ma Anna non ha fatto in tempo, come me, a
scappar via, e Roveni s'è vendicato!
— In che modo?
— A pizzicotti.
Io guardavo, stupito, l'ingegnere. Egli, indifferente, corresse:
— Non è stata vendetta, ma legittima difesa.... Ecco la vita! Quei due
avevan già forse contaminata l'anima d'Ortensia!
Dissi aspramente: — Ogni malesempio vien da Anna.
Ma senza temere e ridente Anna mi chiese:
— Cosa può dire, lei, di me?
Risposi: — Niente, io....
Ella si alzò, mi si avvicinò minacciosa tendendo le mani:
— Se lei pensa male di me le cavo gli occhi!
— Troppo! — le susurrai —: basta spegnere la candela.
— Ah infame! — Dica subito cosa ha pensato.... Subito!
All'orecchio le dissi (ecco la vita!):
— Ho pensato che si può spegnere una candela per infiammare un uomo.
La ragazzaccia protestò:
— Maligno! Perfido! Non è vero!... —; poi, a vedermi un sincero
disprezzo negli occhi, mi volse le spalle mentre diceva forte: — Me ne
infischio!

.... E il ritorno fu triste. Roveni, silenzioso e come dolente del
tempo perduto, andava innanzi tagliando a colpi di giunco le vette che
sopravvanzavano alla siepe; Marcella e Guido, a braccetto, procedevano
poco loquaci, come marito e moglie; Anna conversava sul serio con
Pieruccio, forse perchè discorreva di me; e Ortensia mi faceva
indugiare a nominarle piante e fiori, per affrettarmi dopo. Ma anche
lei era molto diversa del mattino; era stanca, si vedeva, di sè stessa.
Mormorò:
— Povero Sivori! S'è annoiato, eh?
Invece di rispondere le domandai:
— Dov'ero io, l'altro ieri, quando siete andate da Roveni?
Non si confuse.
— Dov'era? E chi lo sa? Lo cercammo da per tutto; in casa; nel
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