In faccia al destino - 11

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volto, che l'improvvisa gioia illuminava accrescendo l'orrore delle
pupille spente, esclamò:
— Ortensia di Claudio!
— Mi vuoi ancora bene, _Giovannin_?
Egli rispose, goffamente solenne:
— Come a Dio!
— Prendi — dissi io, buttandogli alcune monete nel cappello.
— Voi chi siete? — domandò allora il cieco perplesso, serio;
meravigliato egli stesso, pareva, che la voce non gli manifestasse di
subito la persona. Finchè rise dalla enorme bocca, che mostrava i denti
candidi, e con modo di stupida furbizie:
— Ah! Lo so chi siete!
— Chi sono?
— Lo so! lo so!
Era contento; godeva a indugiare nella risposta. Esclamò infine:
— Siete....: lo sposo di Ortensia!
Ella arrossì, mentre io ridevo più stupidamente del poveretto.
— Suona _Giovannin_....; — Ortensia disse con intenzione ironica,
nell'avviarsi.
Quando fummo di nuovo al cancello (e il cieco straziava l'«addio, mia
bella, addio!») essa mormorò:
— _Giovannin_ è forse da invidiare!
Io avevo l'angoscia alla gola; avrei voluto ribattere: «Anch'io
credetti invidiarlo un giorno! Ma tu in avvenire sarai felice!»
Chiesi invece, per celarmi:
— Dove vai?
— Su in casa, a cucire.
Nè la rividi in tutto il giorno. «Mette a prova la sua forza di volontà
— io pensavo. — Se resiste alla tentazione di star meco le ultime ore,
resisterà all'amore fino a guarirne, e forse in breve». Anche lei più
forte di me!; ed essa ignorava quant'io soffrivo!
Sul tardi Eugenia, passando dalla sala terrena e scorgendomi solo, si
meravigliò e ristette.
— Ortensia non è qui, con voi?
— No: m'ha detto che saliva a cucire.
La madre scosse il capo.
— Al solito — disse —: ieri si è divertita, e oggi è un brutto giorno.
Vedete se ho ragione di lamentarmi? Non si fa forza nemmeno per non
dispiacere a voi, gli ultimi momenti che siete qua.
Che dire? Pregai che la lasciasse queta; tentai scusarla con lo stesso
argomento: il malumore, dopo le ore di svago, era segno di una rara,
bella facoltà spirituale....
— Voi la scusate sempre! — disse l'ingenua madre.
Quindi volse il discorso alla mia visita alla fabbrica, della quale
l'avevo informata la mattina.
Credei desiderasse sapere se Roveni m'aveva parlato di Ortensia. Ma
ella mi prevenne:
— Roveni v'ha parlato di Moser? degli affari?
E vedendomi incerto, aggiunse:
— Io non so nulla, non debbo saper nulla. Claudio è fatto così....
Parla di tutto in casa, fuor che degli affari. Ma la notte è spesso
desto....; sospira. Temo mi nasconda qualche cosa di brutto.
M'affrettai a dirle del disegno che Claudio aveva di comporre una
società e che Roveni approvava; sebbene Claudio stentasse a ridurcisi.
— Vorrebbe esser solo; far tutto da solo. Però sarà meglio limiti le
sue fatiche....
— Certo che sarà meglio! Così non potrebbe continuare. Si consuma
l'esistenza....
Tranquillata intorno a ciò, Eugenia mi domandò se Roveni mi aveva
parlato di Ortensia.
Con acerba soddisfazione della mia coscienza, con l'acre voluttà di
contrappormi all'ingegnere e di essere forte come egli non avrebbe
immaginato mai, le risposi di sì: me ne aveva parlato; mi aveva
manifestato chiaramente le sue intenzioni.
Egli l'amava tanto, Ortensia, che aveva giurato a sè stesso: — o
Ortensia, o nessuna!
— Farà felice la vostra figliola; e sarà degno di lei.
Questo dissi!
— E di Ortensia, voi, che cosa pensate?
— Ha molta stima di Roveni; dalla stima verrà la simpatia, l'amore.
Questo dissi! Avevo vuotato il calice sino alla feccia! Ma Eugenia,
la buona amica che per bontà mi leggeva nel cuore, questa volta non mi
lesse nel cuore.


XXIII.

L'agonia cominciò la mattina dopo; la domenica. L'ultimo giorno! Perchè
si ostinava Ortensia a starmi lontana anche in quelle ultime ore? Per
nascondermi il suo dolore, l'amore, lo sdegno? Per dimostrarmi la sua
fierezza? Avrei dato metà del mio sangue per rivedermela lieta dinanzi
ancora una volta, come quando accorreva ad augurarmi il buon giorno, e
il sorriso in cui m'appariva tutta la sua persona placava la cura che
mi rodeva. Non più quel sorriso! Mai più! Patire, frattanto, il castigo
quasi d'un delitto; dubitare che fosse insania non l'amore ma l'azione
generosa che mi era imposta da un destino crudele.... Ortensia!
Ortensia! Era una crudeltà.... Non poter chiamarla a voce alta per
quelle ultime ore; non poter invocarla a sostenere con la sua presenza
quell'agonia....
Dalla terrazza udii affrettare passi alla mia volta. A distrarre la mia
pena veniva invece il cavalier Fulgosi con un fascio di giornali, che
sollevava e agitava come un trofeo.
— Dottore! _Hurrà!_
_La Campana_ e _Il Corriere della Valle_, allora giunti, riferivano
che alla festa del 20 settembre in Valdigorgo era stato presente anche
un illustre scienziato; perciò il cavaliere veniva a portarmeli così
per tempo, e a portarne copie alle signorine. Ma perchè io partivo
l'indomani? Avrei potuto, dovuto attendere a partir con lui e con la
sua signora appena Pieruccio sarebbe ritornato da Varezze, ove era
guarito....
(Pieruccio era guarito!...)
— Si guarisce presto dell'amore a diciassette anni! E le medicine della
giovinezza sono dolci. Ma alla mia età — sospirò Fulgosi traendo di
tasca lo specchietto — è amaro non poter ammalarsi così! A me non resta
che trovar dolci le amarezze della politica. Eppoi...: _tout passe,
tout casse, tout lasse!_
Per non apparir gioioso, qual era, della réclame che s'era fatta egli
stesso nei giornali, si mutava a quell'aria di melanconia.
Sospirò e disse:
— Lei, dottore, almeno ha la scienza....
— _Almeno?_
Vedendosi in pericolo, aggiunse subito:
—.... se sdegna l'amore.
— E chi le ha detto che io lo sdegni?
— Nessuno.... Immagino....; suppongo....; forse.... Ah! è qua l'amabile
Ortensia. «Venite a noi parlar, s'altri nol niega!»
Ortensia, che sopravvenendo salvava il cavaliere dalla china
perigliosa, non si curò di lui e si rivolse a me concitata, quasi per
ira mal rattenuta:
— A messa in paese io non ci vado! Vado all'Oratorio. M'accompagna lei,
Sivori?
Io non avevo ancor risposto che Fulgosi s'inchinò come a una regina, e
disse:
— Anch'io, se crede.... — Ma ella l'interruppe, evidentemente decisa a
non volerlo.
— Domenica prossima m'accompagnerà lei, cavaliere.
— Volentierissimo! Parigi val bene una messa!
— Farà lei questo sacrificio.... — E Ortensia mi guardava.
— Un sacrificio — il cavaliere oppose — che il corrispondente della
_Campana_ invidierebbe. Legga, signorina, che cosa si dice qui.... — E
le porse uno dei giornali.
Da prima sommessamente, poi forte, Ortensia lesse; ma nel suo volto
pallido la lettura sostituiva tosto alla noia un'impronta di sarcasmo.
Mi parve di vedere un'anima intristita. E quando dalle lodi del
cavaliere «oratore splendido», degno di essere assunto non pure «alla
più alta carica municipale, ma a quella di rappresentante dell'intera
nazione», il corrispondente passò a descriver la festa, a nominar
le persone cospicue del pubblico e a vantar le «ideali parvenze»
delle signorine Moser, allora Ortensia proruppe: il cavaliere rimase
innondato da un'onda di torbida ilarità.
— Ma bravo! Bravo, signor cavaliere! E lei crede che nessuno se
n'accorga? Ah Ah! Ma la corrispondenza l'ha fatta lei! Tutti lo
capiranno; e se qualcuno non lo capirà, lo dirò io! io! a tutti!
Fulgosi affogava. Si mise a scongiurare:
— No, signorina, non lo creda; non è vero; non lo dica!... Anche se
lo crede, per carità non lo dica!... _Noblesse oblige_.... Lei così
gentile perchè vuol rovinarmi?
— A tutti! Tutti debbono saperlo! Mamma, Marcella, venite a leggere che
coraggio ha avuto il cavalier Fulgosi!
Fortunatamente Eugenia e Marcella, le quali venivano già pronte per
andare in paese, interpretarono quello sfogo come uno scherzo; e io
stesso m'intromisi a mutar la cosa in gioco.
Salvo, il cavaliere s'accontentò dei ringraziamenti che gli fece
Marcella; poi s'accomiatò più frettoloso di quando era venuto.
— Dunque — disse Eugenia — tu, Ortensia, che fai?
— Vado all'Oratorio.
— Un capriccio!
— Con Sivori, ci vado!
— Meno male! — disse Marcella. — Un capriccio questa volta che ha una
buona intenzione!
— Io vado con la mamma — interloquì Mino, che certo aveva qualche
affare in paese. — Piuttosto, di', Sivori (e mi susurrò all'orecchio):
— Mi prendi a Milano?
Risposi sogguardando a Ortensia, quasi per mitigare con la mia dolcezza
l'asprezza di lei.
— Volentieri, caro amico! Ma la difficoltà più grande è il permesso del
babbo. Bisognerà trovare una buona ragione o una grossa bugia.
Il fanciullo meditò a lungo, finchè quasi sapesse che a me non era più
difficile quel che ancora era difficile a lui:
— Dilla tu, Sivori, la bugia!
Intanto Ortensia raccomandava alla sorella; e alla madre: —
Spicciatevi: se no, perderete la messa! — E a me: — Andiamo?
Appena ci fummo incamminati io vidi che dalla concitazione,
dall'eccitazione di pocanzi il suo animo era caduto in una depressione
angosciosa. Che battaglia aveva sostenuta, in sè stessa, per esser
meco l'ultima volta! Certo non affidava più alcuna speranza a quella
gita, ma voleva forse che io comprendessi il male che le avevo fatto,
o comprendessi quant'era grande l'amore che io avevo ostinatamente
respinto. Il dì innanzi aveva resistito in un proposito di fierezza:
poi la passione doveva averla persuasa ch'era per lei maggior forza
confessarmi tutto. Se non che ora, a ritrovarsi sola meco, non poteva
nemmeno celare il panico che le incuteva il suo fermo proposito.
Procedeva a capo chino, senza trovar parola. Tornava la giovinetta
inesperta, intimidita dalla stessa passione che le aveva data tanta
forza. E io dopo la scena di pocanzi mi sentivo più colpevole: avevo io
forse intristita quell'anima?
Finalmente disse:
— Sono stata cattiva con Fulgosi! Ora me ne dispiace....
A udir la sua voce così diversa, a vederla così rabbonita, ebbi un
infrenabile moto di consolazione entro di me; le sorrisi.... L'amore ci
voleva buoni entrambi, nell'ultima ora che stavamo insieme! Il sole, il
cielo ci volevan buoni se non potevamo essere, per quell'ora, felici!
— Che giornata! — io dissi guardando intorno allo svoltar della
viottola. Solo in un punto vapori candidi quasi impercettibili velavano
il cielo: sul resto, nel chiaro azzurro, andava diffuso il sole ormai
autunnale, e per i dorsi bruni dei monti e per gli spazi verdeggianti,
e i molli declivi e i campi tracciati di solchi e carraie, effondeva
una dolcezza che non ha la primavera. Sui tetti d'ardesia, nel
paese, la luce si rifletteva come ad accenderli; prorompeva entro le
finestre; vibrava intorno il campanile dalla croce scintillante in
alto. Con più frequenza che in primavera giungevan pigolii dai campi, e
richiami nitidi di luì e gazzarre festose di passeri. Bianche farfalle
sorpassavano la siepe; vagolavano a due a due: lievi anime in rincorse
d'amore. La costa boschiva dell'antico convento era immersa in un
fulgore immoto, in uno splendore coerente e meraviglioso.... Io mi
ricordai d'un tramonto....
Ortensia guardava anch'essa; e ripetè: — Che giornata!
Indugiava quasi ad assaporare quella dolcezza; scosse il capo come
quella dolcezza le si mutasse dentro, nell'animo, in una mestizia
profonda. Quindi, per dire qualche cosa, disse:
— Don Pietro si spiccia in venti minuti. Ma il priore, in parrocchia,
non la finisce mai.
Aggiunse: — Del resto, per pregar bene non basta un minuto?
— Anche meno, per chi può pregare. Tu non puoi; me lo confessasti.
Senza titubanza, ma con un breve rossore, ribattè:
— È vero. Quand'ero così allegra, dopo la guarigione della mamma, non
ne sentivo il bisogno, di pregare, neppure per un secondo.... — La voce
le cadde interrotta perchè interruppe l'espressione del pensiero, che
doveva compiersi nella esclamazione: «ma ora!...» Riprese: — Lei però
non prega nemmeno quando è triste. Non crede a nulla!
A niente: nemmeno a lei, che mi amava! Invano ella mi aveva voluto
tanto bene; invano mi amava così; e io, che non raccoglievo dalle sue
parole il rimprovero e le lagrime, io ero perverso; ero spietato, io,
che non osavo guardarla negli occhi e sorprendervi quanto amore vi
tremava per me!
Esclamai:
— T'inganni! Oggi credo fino a me stesso! Mi sento buono oggi.... E tu?
— Mi sembrava di correre su l'orlo di un precipizio con il senso della
vertigine. — E tu credi a ciò che senti?
— Certo!
Tacque a lungo, dopo. Voleva pur dire; e non osava; finchè i nostri
occhi s'incontrarono.
Disse:
— Ho sempre pensato.... una cosa strana!: che ci rassomigliamo, noi
due.... Ma io non so esprimermi! Ecco — proseguiva rianimandosi — se
non ci rassomigliassimo, io non avrei tanta fiducia in lei. Invece,
credo che con lei non avrei paura di nulla, che potrei seguirla, a
occhi chiusi, nei più grandi pericoli....
Fin nelle parole c'era una voluttà d'abbandono! Perchè, strappato ogni
ritegno, dimesso ogni infingimento, io non la riceveva ed essa non
s'abbandonava nelle mie braccia? Fui per scongiurarla: «Abbi pietà di
me, di noi! lasciami fuggire! Non dir più una parola!»
Sorrise.
— Ma quante volte ho creduto che lei mi credesse sciocca! Per fortuna,
mi consolavo a indovinare....
— A indovinare che cosa?
—.... i suoi pensieri....; che so?...; le cause del suo malumore. Lei
invece.... non ha mai indovinato nulla di me!
— Questo ho indovinato: che hai l'anima di tua madre e il cuore di tuo
padre.
Il suo sguardo s'accese di una gioia istantanea....
Intanto chiamava la campanella dell'Oratorio, e affrettammo.
Poi rallentammo i passi senza che ce ne accorgessimo. Quando avrei
voluto chiederle: — a che pensi? — mi chiese essa:
— A che pensa? — provocandomi, per disperazione, a finir quell'angoscia.
— A nulla!
— Non si può non pensare a nulla. La notte, al buio, cerco il sonno
e non lo trovo, se mi viene in mente qualche cosa....; e provo a non
pensarci. Ma che! Non ci si riesce!
— Tu hai diciassette anni — ribattei amaramente: — io venti di più.
Alla mia età si può anche non pensare a nulla!
Ma pensavo, ancora, al male che avevo fatto!
Che possanza ogni mia parola, ogni mio atto, a poco a poco, di giorno
in giorno, aveva avuta su quell'intelligenza e in quel cuore!
— Non hai fiori oggi — dissi chinandomi a raccogliere un fiore di
colchico.
— Mi dia quello!
— No. È velenoso.
— Che importa? Me lo dia, Carlo!
E mentre lo fermava al petto:
— Non voglio più dirle: Sivori. Carlo: che bel nome!
Dal tono della voce m'accorsi che nel suo segreto più volte ella doveva
aver ripetuto forte, così, il mio nome.
— Andiamo: arriveremo a messa finita!
Quando arrivammo il campanello indicava il _Sanctus_; le donne
s'inginocchiavano.
Ortensia s'avvicinò a loro, là, dove ci eravamo rifugiati il dì della
bufera. Ed io, poggiato al pilastro, liberamente, adesso, avvolgevo
Ortensia del mio sguardo.
.... Dove andrei? in qual parte scamperei ai mio soffrire?
M'accogliesse, anzi che monti aprichi e boschivi, una landa;
m'arrestassero lo sguardo i muri d'una città anzi che estendermelo un
orizzonte sterminato: che importava? Per tutto ella mi seguirebbe a
farmi soffrire! Dolente immagine, mi seguirebbe? o ridente? Salva del
mio amore? felice un giorno nell'amore di Roveni? Ah se tutto non era
vanità come l'ombra che ci proteggeva; se tutto non era illusione come
la fede che le pareva sentire adesso, perchè il suo Dio non le toccava
il cuore e non le diceva: «Sii di me solo?»
Non impazzivo! All'Elevazione abbassai gli occhi, per non vederla, e
cercai invano nel mio cuore una preghiera infantile.
Ma se non potevo pregare, neanche potevo più maledire! Impossibile in
quel trepido silenzio invocare, come un tempo, un disordine enorme che
lanciasse il mondo delle passioni umane nelle tenebre e nella morte!
Impossibile sognare mai più che una potenza suprema, mostruosa e gaia,
si rivelasse a por termine alla sua commedia, ordinando: «Basta! Basta
con l'amore!; col dolore!» Per i buoni, per gl'ingenui, per i forti,
— se non per me — una fede, un Dio, c'era! E gettando lo sguardo
all'aperto: «Sì, tutto nell'autunno deperirebbe e ingiallirebbe, e
marcirebbe nell'inverno; ma in quel cielo cristallino e fervido, in
quella letizia luminosa e festiva, risplendeva, certa, una promessa di
vita.
Dal mio stesso dolore, nel sacrificio, non rampollerebbe un bene?...
Senza più ira, senza più gelosia mi provai a riguardarla....
E quando, finita la messa, la vidi venirmi incontro con quel sorriso di
dolore non più respinto, ma palese e quasi solenne, io era deliberato
al pari di lei. Lasciammo sfollare; indugiammo per il sentiero
risalutando chi oltrepassava e ci salutava.
Tra gli ultimi fu una coppia amorosa. La giovane arrossì; il giovane ci
fe' un saluto confidenziale.
— Lo ravviso....
— È un operaio della fabbrica. — Ma sì dicendo Ortensia ristette. Non
più vane parole!
— Domani, dunque.... È deciso?
Irremovibile nel pensiero, con il pensiero di fatalità che la parola
comprendeva, risposi:
— È necessario!
Anche qualche passo procedemmo; Ortensia, a capo chino, oppressa.
Ma s'arrestò di nuovo raccogliendo tutta l'energia della sua volontà
per guardarmi, parlarmi, dirmi con tutta la pietà, con tutto lo strazio
del suo cuore nella voce:
— Carlo! Che cosa le ho fatto, io?
La guardai. Tacqui un istante.
— Senti! Senti che cosa mi hai fatto! — esclamai in uno sfogo di
gratitudine e di passione. — Senti! Io ero un miserabile perchè non
credevo più in me; desideravo la morte, la distruzione, il nulla; io
era cattivo perchè invocavo a dividere un soffrire ignobile, per un
egoismo feroce, un'anima buona, e cercavo una sorella. Ma la sorella
vedeva sereno il cielo, ridente la terra, lieta come lei ogni cosa.
Era tanto giovane! Sua madre era guarita, ed essa coglieva dei fiori,
e cantava. E la giovinezza e la vita poterono più che l'apatia e la
morte: io fui vinto: essa mi fece rivivere: mi ridiede la coscienza
della vita.... Ecco che cosa mi hai fatto!
Oh quello sguardo, allora!
Continuavo:
— Ma io che farò per te?... Non è lontano il giorno che io scorgo, che
io invoco per te, per i tuoi.... per lui, lui, che ti ama e ti vuol
sua.... Io sento fin da oggi quel che t'augurerà quel giorno tuo padre.
E tu sarai felice, perchè noi ti vogliamo felice! Tu dovresti essere
felice, pienamente felice, per sempre! Ma se a Dio non bastassero le
preghiere di tua madre; se contro il destino non bastasse il nostro
volere; se mai in un lontano tempo la sventura passasse sul tuo
capo....
— Carlo! Carlo!
S'abbandonò, rompendo in singhiozzi, disperata, al mio petto.
Io la risollevai un poco perchè, piangendo, vedesse nei miei occhi
l'anima mia....
E la baciai nella fronte.


XXIV.

_Tànn!... Uno.... Tànn!... Due...._ Sei tocchi così. Fosse la
campana di bronzo buono, o l'aria pura fosse più capace che altrove
d'estendere, limpide e vibranti, le onde dei suoni, l'orologio
di Valdigorgo cantava le ore. Rispondeva a colpi piccoli, nitidi,
frettolosi, da lungi, quello di Paviglio.... Mezzanotte.
Io davo volta nel letto. A che pensare per non pensare a _lei_?
A quel che m'aveva detto Moser. Dopo desinare l'avevo affrontato nello
studio mentre egli, allo scrittoio, faceva conti.
— Claudio: parto domattina con la prima corsa. Debbo essere a Milano
nel pomeriggio; e ci sarò!
— A Milano? Benissimo! Sabato ci debbo essere anch'io. Puoi attendere.
Ci andremo e torneremo insieme. — E si era rimesso a scrivere e a
borbottar cifre.
Sapendo che irritarmi gl'impedirebbe d'irritarsi, avevo ribattuto in
tono decisivo:
— Ti ripeto che io debbo trovarmi là domani!
— _Tredicimila e quattrocento lire_.... Dicevi? Domani? Bene! Se è
vero, va! Sabato però ci vedremo; torneremo insieme.
— Ti ripeto che mi converrà forse prendere la via del Gottardo....
— _Mattoni seimila_!... I preventivi di Moser fallan di poco, caro
amico! Gira e rigira, la spesa non sarà inferiore alle ventottomila
lire.... Eh! Eh! proprio così!... Dunque? Ma che Gottardo! ma che
Gottardo! Ti dovrebbe venire la malinconia di viaggiare, adesso! Non
sai che tutto il mondo è paese ma che il più bel paese del mondo è
Valdigorgo?; salvo il rispetto, s'intende, a Molinella, dove pure
abbiamo riso molto...., col Biondo.... Ah! Mi dimenticavo le finestre;
il ristauro alle finestre!...
Una pausa. Poi:
— Ho voglia di rivedere il Biondo e la Rita.... Bei tempi quelli! E
tirare alle folaghe?... ora che sono presidente del _Club_! Perchè
no? Se mi riesce.... Sai che ho in mente di prendermi due soci nella
fabbrica?
— È una bella idea, perchè tu lavori troppo; abbracci troppo....
— Se mi riesce, dopo, faccio una scappata a Molinella a trovarti....
Ma.... Tutto sommato: _Ventottomila e settecento lire_.... Meno è
impossibile!... Ma a te di fermarti a Molinella, per un pezzo, non ti
consiglierei. Voialtri Spinoza avete il nemico dentro di voi; avete
bisogno di distrazioni più che del pane per vivere.... Oh! mi credi
proprio un imbecille?
Nel dir questo aveva gettata via la penna e m'aveva piantati gli occhi
in faccia.
— Perchè?
— Credi che non me ne sia accorto, io, che te ne vai press'a
poco com'eri quando venisti da noi? Non è vero che abbi necessità
d'andartene! La verità è che dappertutto stai male! che neanche
l'amicizia ti basta! che neanche Valdigorgo ti basta! Ma sei ancora in
tempo per far l'ultima prova. Spicciati! Ammogliati!
— Se tu sei un galantuomo, e se io sono infelice, dovresti dirmi che
sarebbe un delitto trascinassi una donna nella mia infelicità.
— Ma perdio! — egli gridò esasperato —: perchè sei tanto infelice?!
perchè?
Gli avevo risposto quello che una volta sarebbe stata la verità piena
e che purtroppo adesso non ne era che parte:
— Perchè non ho nessuna fede.
E a reprimere il suo sorriso più di pietà che di scherno, avevo
soggiunto:
— Io non sono come voialtri che sapete prenderla pel suo verso la vita!
Voi sapete perchè siete al mondo, perchè lavorate, perchè soffrite,
perchè amate, perchè godete.... Voi leggete nel vostro destino; nel
mio, io non so leggere. Lasciami andare al mio destino: quello che è e
quello che sarà.
— Il tuo destino è qui! — Claudio si era alzato in piedi; rosso di
collera; si era battuta con la mano la fronte. — Qui! Nella testa!
Altro che filosofia! Sai cosa ho da dirti? Che è peccato mortale
volerti bene! Non lo meriti! Ti vogliam bene tutti; Eugenia, le
ragazze, Mino; e per compenso, tu: «Lasciatemi andare al mio destino!»
al Gottardo!
Dopo il quale sfogo la scena si era conchiusa con un fraterno abbraccio
e con la mia promessa di tornar presto....
.... Di nuovo mi voltai per il letto; pensai ai saluti degli amici
dopo la conversazione: Roveni serio, sempre uguale a se stesso, m'aveva
stretto forte la mano; il cavaliere si era industriato a commuoversi,
con di più la preghiera d'inviargli le mie opere, cui farebbe degna
meritata réclame; la sua signora m'aveva augurato buon viaggio con
smorfie gentili e disinvoltura aristocratica; Guido, al quale avevo
imposto di passare, scrivendomi, dal lei al tu, m'aveva detto addio
grato e ridente nella faccia tonda, quantunque gli spiacesse la mia
partenza, che gli diminuiva sempre più la libertà di amoreggiare e gli
toglieva un protettore....
Le Melvi, per fortuna, non eran venute....
Transitava intanto, nella notte fonda, un tinnio di sonagli col rumor
basso delle ruote....
Ed Eugenia mi aveva detto: — A Molinella ci avete i ricordi; ma la
vostra casa, è qui. Nessuno vi vuol bene come noi.
E Marcella:
— Domani avremo tutti la luna!
.... Io cercavo con gli occhi chiusi il sonno e non trovavo che le
tenebre; e se li riaprivo, scorgevo dalla finestra aperta la serena
oscurità celeste. In attesa, così, del giorno.
Finalmente: _Tànn_!... Un'ora.
.... Quanti giorni ero rimasto lassù?...
Dodici giorni dopo il mio arrivo avevamo portato Eugenia in giardino....
Curioso però il pensiero di Eugenia, a indagare il mio male nei primi
giorni della mia dimora lassù! Con che sorriso io avevo risposto al
dubbio di lei, che soffrissi per una passione d'amore!
Già: Amore e morte....
Cose quaggiù sì belle
Altre il mondo non ha; non han le stelle!
.... Un tempo io avevo studiato il terrore della morte in animaletti:
in un sorcio; in una cavia. Ferii un giorno una passera, che precipitò
senza un grido dall'albero, e quando fui per raccoglierla, sollevò
le palpebre invocando pietà e aperse il becco come per l'ultima
inspirazione di vita. Mi pareva vederla....
Meglio saltar dal letto; vestirmi; spalancar le vetrate e mettermi alla
finestra, al fresco. O no; meglio rivoltarsi e guardare con gli occhi
chiusi alle tenebre vorticose; meglio il buio che le stelle! Aspettare.
Suonerebbe pure quel maledetto orologio, che non aveva battuta dei
quarti d'ora; e i quarti dell'orologio di Paviglio erano così deboli
che non mi giungevano.
Proprio una maledizione! Quando stavo per assopirmi transitò un'altra
biroccia.... Finchè, volta di qua e torna dall'altro lato....: _tànn_!
Ah finalmente suonarono quelle maledette due ore!...
Ma che mi veniva in mente adesso? quanta demenza travolgeva la mia
povera testa? Che fatica persistere al desiderio d'alzarmi; d'uscire
piano piano; e andar sotto quella finestra! Forse era socchiusa.
Temeva addormentarsi....; voleva essere alzata alla mia partenza....
Come Pieruccio! Scendere e mettermi sotto la finestra di _lei_.... Ma
Pieruccio era guarito dalla sua passione!
Io partivo com'egli era partito. Non guarirei? Avrei almeno il conforto
d'aver compiuta una buona azione.... E dopo? Non vederla mai più, se
Roveni basterebbe alla felicità di lei! Quetare il dolore in una vita
nuova, se quest'affetto aveva rinnovato in me una sorgente di vita;
vivere.... Oh meglio non pensarci!... Vivere con un vano ricordo
d'amore era la mia sorte....
Ah Roveni, lui sì che vivrebbe felice! Vile io ero stato! Vile!
Avrei dovuto dirgli: — Io, io stesso, che l'amo, vi voglio felice! —
Immaginavo un conflitto tra me e lui, quale sarebbe potuto avvenire. —
Voi non sapete come io l'amo! Io che ho più anni, più esperienza, più
pensiero, più anima di voi!...
Rispondeva Roveni: — Io sono giovane; e voi, ormai vecchio! Io ho
pensato sempre alla vita; e voi ancora pensate alla morte! Io sono
forte; e voi? La vittoria è dei forti!
Al sorriso che immaginavo seguire a tali parole mi raccoglievo in me
con stento angoscioso....
Eppure dovetti cadere un poco nell'incoscienza del sonno, perchè
presto, mi parve, suonarono le tre. Ma una eternità ci volle prima che
un gallo cantasse.
Quando cantò balzai dal letto, da _quel letto_, per sempre!
Era uno stellato splendido. Da quanto tempo non avevo guardato alle
stelle! Nel loro palpitante mistero vidi una luce che non avevo visto
mai: una luce d'amore; sol ragione della vita alla nostra meschina
conoscenza.
Finalmente, alle cinque, Claudio batteva all'uscio.
— Svegliati, che è tardi!
— Pronto!
— Faccio attaccare....
Non uscii che quando ebbi udito il rumore della carrozza.
— Se perdi la corsa, casca il mondo! — brontolò Claudio. — Non mi sono
fidato di nessuno; neanche della sveglia! Andiamo?
— Aspetta.... — diss'io. — Indosso il _paletot_.... I guanti? Sono
qui.... Aspetta! Ho lasciato l'ombrello.
— Andate a prendergli l'ombrello! Presto!
— Il caffè, signor dottore? — pregava la vecchia cameriera reggendo il
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