In faccia al destino - 18

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di vacanza.
La domenica prossima?


V.

La sera di quello stesso giorno che mi consolò la lettera di Moser, il
caso (sempre il caso?) mi volle solo spettatore d'un fatto che restò
quale orribile episodio di miseria e di sventura nella storia del mio
paese. Lo narro perchè io, atterrito un tempo dal pensiero della morte,
fin da esso derivai argomento d'esaltare la vita.
Ero tornato a casa da qualche ora e fumavo alla finestra della mia
camera. Dalla luna quasi colma pioveva sul mondo una luce di letizia.
Mi giungeva il _cricrire_ copioso e vasto dei grilli e il gracidare
delle rane e il canto dei birocciai, dalla via maestra:
Guarda la bella notte e il bel sereno!
Quest'è una notte da rubar le donne:
Chi ruba donne non si chiama ladro;
Si chiama giovinotto innamorato....;
ma al di sopra e al di là di quelle voci era l'immenso sensibile
silenzio della notte feconda, quando la natura raccoglie e rinfranca
in segreto le sue molteplici forze e si prepara alle più rigogliose
espansioni.
Improvvisamente, da sotto la finestra, il Biondo mi chiamò:
— Signor dottore!
— Che volete?
— C'è qui giù la Tisa dello Zingaro, che ha suo marito che sta male.
Bisognò discendere. E venne innanzi l'ombra della donna. Aveva due
bambini, uno a destra e l'altro a sinistra; entrambi divoravano il pane
che loro aveva dato il Biondo. Il più grandicello, trattenendosi, porse
il crostino alla madre e con un accento di meraviglia più che di gioia,
esclamò:
— Mamma, del pane!
Non sapeva credere che mangiava proprio del pane.
Senza badargli la donna, timida, mi rispondeva che suo marito aveva una
gran febbre e pareva diventato matto.
Al solito: era tifo. Scrissi una ricetta e la consegnai al Biondo; poi
dissi: — Andiamo!
Lo Zingaro, così soprannominato per il colore del viso e per la
miseria, era un risaiolo che abitava in una lurida capanna presso il
serbatoio della risaia.
A quella volta, io andavo innanzi, con la donna dietro: sola; i bambini
affamati e assonnati li aveva lasciati al Biondo e alla Rita.
La donna raccontava:
— Tornò l'altra sera dal Traghetto....
— Cos'era andato a farvi?
— In prestito, signore, di un poco di farina gialla. Non avevamo più
niente da mangiare; e qui nessuno ci fa credito, signore.
— Avrà bevuto dell'acqua laggiù.... Non lo sapete che è l'acqua che
avvelena?
Forse la donna aveva tale speranza nel mio aiuto da esserne rianimata;
o forse era in uno stato d'orgasmo, perchè mi rispose ridendo:
— Eh! lo credo anch'io che sarebbe meglio ber del vino!
Continuò:
— Quando fu a casa, e io facevo la polenta, cominciò a lamentarsi dal
freddo, che per quanto fuoco mi facessi non si poteva riscaldare; e si
mise a letto. In tutto ieri non volle mangiare. Ma questa sera mi sono
preso paura; fa dei discorsi da matto.
Dopo ch'ella tacque, le chiesi se aveva solo quei due, figlioli.
— Ah! ne ho un altro di cinque mesi. L'ho lasciato a casa per far più
presto. Dormiva.
Andavano frettolosi; io ero incitato dalla donna che mi veniva dietro,
quantunque ella tacesse e camminasse scalza. E volgevo il pensiero al
disgraziato in preda alla febbre.
Se moriva, la poveretta era condannata all'elemosina. Ma la mia
mente non poteva insistere in quella tristezza; invano il sentiero
era oscurato ad ogni tratto dai pioppi, dalle acacie e dai giunchi:
trapassando i rami e le fronde la luna, di là, pareva più fulgida, e
nel chiarore diffuso sopra e intorno a me fluiva quella pacata letizia,
l'illusione di una felicità tranquilla e uguale, per sempre.
Ortensia! Ortensia!
.... Finchè tornai a riflettere, quasi rimorso, all'ufficio che
dovevo compiere; e solo allora pensai che poteva essermi necessario un
lenzuolo, per un impacco.
Chiesi alla donna:
— Un lenzuolo l'avete?
— Oh, signore! Dove vuol che l'abbiamo un lenzuolo? Sono tre anni che
non ne ho più uno!
Io stavo per dirle:
— Tornate indietro a prenderlo, a casa mia, quando la donna fece:
— Cos'è là? — Tendeva la mano.
Un bagliore: dietro i pioppi che separavano il campo dalla risaia. Un
bagliore d'incendio.
Che cosa poteva essere? Che cosa bruciava? Non era stagione da bruciar
stoppie o rovi nei campi. Una cascina? una casa? Ma non ce n'erano da
quella parte, non ce n'erano così vicine!... Il «capanno».... dello
Zingaro?
— Brucia il capanno! — urlò la donna urtandomi, precedendomi,
correndo.... Una furia; e gridava, forsennata, il nome del marito;
invocava Dio, invocava aiuto. Le sue strida di «aiuto» trafiggevano
quel silenzio atroce, quella serenità divenuta subitamente spaventosa.
Era vero: bruciava il capanno!
Muto, con lo sguardo teso al bagliore e alla distanza da superare,
correvo io pure, e nell'approssimare mi pareva di scorgere l'ombra
dell'uomo in delirio che agitasse le vampe dentro un cumulo denso e
fondo. Era in salvo, l'infermo? O.... bruciava anche lui? Correvamo.
E.... — il sangue mi si gelò nelle vene —: non mi aveva detto
quella sciagurata che aveva lasciato a casa il figliolo più piccolo?
«Dormiva».
Infatti chiamando aiuto, chiamando il marito quasi potesse udirla, essa
teneva come sospese quelle terribili grida su di un grido che non osava
gettare.... Oh tutto ciò straziava il cuore; gravava, enorme peso, sul
capo!... Correvamo, correvamo.
Vicini, ormai: la donna tacque. Ad ogni nostro passo innanzi
l'incendio, così luminoso di lontano, affoscava; le lame rossastre
tagliavano la fumana prorompendo dalla piccola finestra, dalla porta,
alzandosi sul culmine.
Era un soffoco di fumo greve, un tanfo di canne abbruciacchiate. E
non una voce....; nessuno! Morti?... Fossero almeno morti, prima....,
d'asfissia!
Ah no!
Dio! Dio!... no; un vagito! là! Dinanzi all'uscio, era; in un involto
di cenci! Là era il bambino! Lo raccolse, la madre; riebbe la voce: un
grido di gioia sovrumana: — _El mi ragazzól_! — mentre là dentro....
Nessuna altra voce!; muto, anche l'incendio.
D'impeto, senza coscienza del pericolo, avanzai alla porticella:
ma fui respinto dal fumo infuocato, come per l'urto a una parete
solida. Ritentai (la donna urlava adesso il nome del marito, strappava
l'anima). Dovetti ritrarmi, appena in tempo! Con fracasso il tetto
precipitò; l'abituro si sfasciò in una rovina fiammeggiante e
fumante....
Non so dire in che modo urlava e che diceva quella donna frenetica col
bambino in braccio; non posso ricercare quello che io provassi allora
assistendo al fumare della rovina; a immaginare il corpo umano che si
era contorto nelle fiamme; a comprendere la verità....
Compresi la verità a poco a poco. Un istinto di generosità paterna,
l'amor di padre aveva spinto quell'uomo delirante a mettere là in
salvo, dalla sua disperazione, la piccola creatura; poi, con mostruosa
demenza egli aveva dato fine al male che lo affannava, aveva dato fuoco
alla sua intollerabile miseria.


VI.

Al raccapriccio seguì tosto in me una commozione paragonabile a quella
che proverebbe un credente nella subitanea rivelazione della divinità.
Prevalse in mie alla visione orribile dell'incendio e della donna
pazza per dolore e angoscia, l'immagine stupenda della madre che nel
raccogliere salvo il suo bambino m'era sembrata impazzire di felicità;
e più che la pietà del miserabile, perito orrendamente, poteva in me
l'ammirazione per la forza arcana e portentosa che aveva costretto il
misero padre ad esentare dalla distruzione la creatura del suo sangue.
Mai, per nessun fatto che esaltasse l'amor di padre o di madre, mai
io ero rimasto commosso in tal modo: una luce che non era di scienza
mi illuminava ora il mistero della vita; e la ragione delle sue leggi
imprescindibili e la ragione della morte mi si manifestava d'un tratto
nella rivelazione del bene sommo conceduto ai viventi. Quanto affetto
aveva condotto quell'uomo spietato verso sè stesso ad aver pietà del
suo nato! Quanto affetto aveva sollevato la misera donna a dimenticar
fino il padre dei suoi figli, che bruciava là sotto, perchè ella
gioisse così, nell'istante che ricuperava il suo figliolo! Quale gaudio
sublime è negato dunque a chi si rifiuta alla procreazione? che è
mai la morte se non il mezzo a trasmettere questo, il maggior gaudio
dell'esistenza?
Invece di dire: «la morte è necessaria a propagare la vita» si dovrebbe
dire (io pensavo): la morte è necessaria a propagare la felicità
dell'esistenza e la felicità si attinge soltanto nella procreazione.
A consolare gli uomini privati d'ogni fede la filosofia moderna ha
detto loro: «La morte non esiste perchè la vita è continuo rinnovamento
e continua trasformazione».
Invece io pensavo: «La morte esiste, ma il più gran dolore che la morte
può dare è nulla in confronto alla più gran gioia che dà la vita, e
la più gran gioia della vita è nell'amore per le creature della nostra
vita».
Ed io a quarant'anni, nella virilità piena, ignoravo quest'amore così
grande che oltrepassa la capacità della vita individua; così grande da
render riguardoso della vita l'uomo che con frenesia feroce la troncava
in se stesso!
Un desiderio nuovo penetrava ora la mia passione, la rischiarava del
tutto; m'infondeva un senso di vitalità potente: proverei le gioie
dell'amore paterno; Ortensia sarebbe la madre della mia prole!
E per un contrasto men strano forse che naturale la memoria di mia
madre, in quei giorni, mi accompagnava nei noti luoghi più viva che
mai.


VII.

Avevo predisposti il Biondo e sua moglie alla visita che m'aspettavo,
ma avevo anche raccomandato loro di non far troppi preparativi e di
fingersi ignari, per lasciar a Claudio il piacere dell'improvvisata.
La domenica, al giungere del secondo treno del mattino, il vecchio
indossò la giacca da festa e calcò in capo la berretta nuova; la
vecchierella, ben pettinata e tutta nitida, si strinse intorno al collo
un fazzoletto di seta rossa che su l'invernale gabbano di flanella
a scacchi e sotto il candor dei capelli dava segno di primavera
e d'allegrezza; ed entrambi s'appiattarono in casa ad attendere,
palpitando. Io guardavo di fuori, dal prato.
Ahimè! Il treno giunse; ristette; ripartì; e l'attesa fu vana.
Proteste e brontolio della Rita, che aveva fatto sin la torta! Ma il
Biondo ripeteva:
— Volete scommettere che vengono con la corsa delle tre e mezza?
Ci colse. Poco dopo che fu passato quel treno, eccoli spuntare.
Ma non tutti: soli Claudio e Ortensia.
Andai alla loro volta. Moser più spontaneamente lieto di quel che non
fosse stato da un pezzo, sbraitava:
— È un'ora che ti chiamo! Ho cominciato a chiamarti dalla stazione! Sei
diventato sordo?
E Ortensia:
— Il babbo, se non ero io a trattenerlo, si metteva di gran corsa....
— Ma è l'ora questa?... — io dicevo. — E Eugenia e Mino?
Rispondevano insieme:
— Mino non ha meritato la vacanza....
— Non ha imparato la costituzione di Servio Tullio!
— La mamma ha dovuto restare a casa a far la guardia....
— Ohe! Biondo! Pulicreta! Siete ancora al mondo? — urlava Moser.
Mormorava Ortensia.... (Come bella!... Vestita di chiaro; un po'
riscaldata in viso; e si levò l'ampio cappello, e il sole la irradiò):
— Il maestro ha riferito al babbo che Mino non ha voglia di studiare
e che non passerà all'esame.... Non è da compatire? Ha sofferto anche
lui; ora si distrae. Il babbo questa volta è stato inflessibile.... Ma
— chiese forte — perchè dite che non è aria buona quaggiù?
— In primavera....
— L'aria! — m'interruppe Moser. — L'aria, sì, è sempre quella: un po'
pigra; ma buona anche qui, perchè, grazie a Dio, siamo in Italia!
Il resto, bambina mia, è mutato. Tutto mutato.... Non vedi? Io non
riconosco più nulla: mi sembra tutto vecchio!; fino quegli olmi giovani
là mi sembrano decrepiti.
Non pensava che invecchiato era lui.
— Anche la casa è sempre quella, dici tu, Sivori? Ammetto: «Salve,
dimora casta e pura!» Ma intanto il Biondo non c'è! la Pulicreta non
si vede! Bisogna cantare, invece, il _De profundis_?... Ohe, Rita detta
Pulicreta! Ohe tu che fosti il Biondo! Venite! Sorgete! Fuori!
E come Lazzaro all'imposizione di risorgere, il Biondo mosse la
testa fuor della porta, poi uscì del tutto con la berretta in mano,
inchinandosi al forestiere che fingeva di non conoscere. Moser rimase
fermo, a bocca aperta.
Diceva il Biondo:
— Io lo ravviso...., questo signore...., e non mi posso ricordare....
Corpo....! Direi che ravviso anche quella signorina lì; e sono certo,
certissimo di non averla mai vista! Certissimo!
Ma Claudio assalì il vecchio mentre faceva tal meditazione con le
palpebre basse e l'obbligò a scoprir le pupille:
— Sei tu davvero?! il Biondo?!
— Ma è lei?!... Claudio! Ah corpo!... il signor Claudio! Rita! Rita!
Venite a vedere chi c'è! Il signor Claudio! il cacciatore! l'amico
del signor Carlo....; — e intanto Moser per poco non lo schiacciava
abbracciandolo.
Ortensia sorrideva. Rise alla seconda scena, quando comparve la donna.
— Oh Vergine Santissima!: il signor Claudio!
— Oh Vergine Pulicreta!, come siete vecchia! Qua che vi abbracci anche
voi.... — E staccandosi da lei: — Una bella vecchietta, però! Camperemo
cent'anni, noi due!... Evviva!
E lei a ripetere: — Oh che matto! che matto!
Indi i complimenti alla signorina:
— Me ne rallegro tanto di vederla così bella! La mamma cosa fa? Sta
bene?
— Su, presto! Dammi lo schioppo! Due colpi, prima d'andar in paese a
trovar le vecchie conoscenze.
— Ma non si può, signor Claudio! È tempo proibito, adesso! — avvertiva
il vecchio.
— Dammi il «catenaccio» ti dico!
Il Biondo dovè portargli lo schioppo secolare, che Claudio chiamava il
«catenaccio».
Caricandolo — prima la polvere; poi la stoppa; poi i pallini, e ancora
stoppa — Moser brontolava:
— Questo almeno non è invecchiato!
— Badi, signor Claudio, che ci sono i carabinieri; il delegato può
credere che siano schioppettate di socialisti! — ammoniva ancora il
Biondo. — Ai tempi che corrono....
E io:
— Ti proibisco di tirare alle rondini!
Ne accennai il nido ad Ortensia.
— No! babbo! sii buono! — pregò essa con pietà che parve
improvvisamente ridestata in lei. — Hanno il nido!
— Lasciatemi fare! I rondoni sono scapoli!
E sparò contro una rondine, s'intende, senza colpirla.
Dopo che la colazione fu divenuta merenda e mentre Claudio e il vecchio
s'incamminavano verso il paese, io e Ortensia prendemmo il sentiero
più breve per giungere alla risaia. Ortensia non aveva notizia della
sciagura dello Zingaro; nondimeno evitai la parte ov'era stato il
«capanno» e la condussi a costa della landa, di dove più spaziava lo
sguardo. Ella guardava, con poche parole: io godevo che lo splendore
del giorno le penetrasse nello spirito. Mai più chiaro cielo; mai aria
più aulente e quieta; mai più vivaci fiori nell'aperta piana, in cui il
fieno maturava per la seconda falciatura.
La varietà dei colori assorgeva concorde dal verde come quella delle
voci in una sinfonia meravigliosa: giallo di stelline, crocifere e
ranuncoli; lilla di porrette; viola di morette, castagnole e salvie;
bianco di magnugole e nigelle, ravizzi e narcisi; rosa di ginestrine,
lupinella e trifoglio; rosso di serpillo, sorbastrella e papaveri;
porpora di graziole; cilestre e azzurro di giacinti e fiordalisi, di
poligole e buglasse....; e margherite da per tutto! Quante!
Di tratto in tratto Ortensia si chinava a spiccare un fiordaliso, o un
garofano, o un geranio campestre. Poscia tendendo la mano esclamò:
— Oh gettarsi là, in mezzo; a correre e cantare!...
— Va! — dissi io.
Ella sorrise triste:
— Non si può, senza calpestare.
Timidamente, nei tardi passi, io avvertivo che il suo sguardo era
pieno di ricordi. Ma il suo sguardo era triste, mentre in me pareva
approfondirsi la coscienza dello spirito, estendersi la capacità vitale
d'ogni senso, vibrare ogni minima forza a una sconosciuta armonia. Che
giorno!
Rapiva una letizia lieve quasi di sogno eppure tenace e valida; era
un'illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà intorno; un vago
desiderio, continuo, di continuo esaudito nel fluire degli attimi; e
più che la promessa della semplice felicità umana, ferveva nel sole,
nell'aria, nella terra palpitante di fecondità, una felicità certa e
immanente, naturale e sublime.
Ma Ortensia era triste....
Giungemmo all'argine. Quasi per frenare una sensazione troppo forte,
essa teneva la mano contro il cuore: attese prima di salire e disse: —
Qui l'aria mi sembra più greve.
— Anche pochi passi — diss'io — e saremo al serbatoio.
Di su l'argine mi domandò perchè la risaia era così divisa, in tanti
quadri.
Risposi:
— Perchè il vento non agiti l'acqua e l'acqua non rompa le pianticelle
ancora tenere.
— Ma dell'acqua ce n'è poca!
— L'acqua è ancora fredda, e, al contrario, la prima messe del riso ha
bisogno di caldo.
Eran dimande e risposte che protraevano altre dimande e altre risposte.
Io aggiunsi:
— V'immaginate la vita delle risaiole a strappare, ad una ad una, le
piante maligne, con l'acqua alle ginocchia, i piedi nel fango e il sole
che batte sulla schiena?
— Disgraziate anche loro! — E accennando: — Quegli alberi là?
— Sono i salici del serbatoio. Andiamo!
In breve fummo al luogo d'imbarco; lo schifo era legato a un piuolo....
— Mi fido poco io, di voi! — fece Ortensia, per un istante eccitata
dalla novità.
— Alla prova! — esclamai io sostenendola all'entrar nella barca; e
sciolsi la corda.
Ai primi colpi di remo, ella fu persuasa della mia valentia.
— Bravo! — Poscia guardando intorno mormorò quasi vinta: — Bello!
Infatti anche l'acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra,
chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie, or
scarse or copiose in cannucce e giunchi, e chiusa all'ingiro dalle
sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano,
soavemente, per quella frescura.
Canerini di valle s'elevavano con un vocìo sottile, così lieto da
crederlo non voci di paura ma di più viva gioia nel volo.
Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta e ristette
dove l'acqua, bruna bruna sotto l'ombra, rivelava un brivido, al rezzo.
Udimmo uno sparnazzar d'anitre e di folaghe; poi, silenzio.
— Restiamo un poco? — io domandai.
— Sì.
D'improvviso, Ortensia esclamò: — Avete sentito?
Dopo un fruscìo d'ali e di fronde udimmo un richiamo.
Io allora feci avanzare la barca, perchè ella rimovesse le fronde. E
gettò un grido di meraviglia.
Un nido di folaghe....
Ma era giunta, finalmente, l'ora. Ella lo sentiva; io ebbi un
tumultuoso risveglio di tutto il passato: propositi, prove di
abnegazione, battaglie; vittorie angosciose; angosce di lontananza;
tormenti di gelosia; rimorsi; disperazioni; speranze; tutto, tutto
sarebbe stato inutile se io in quell'ora non avessi vinto!
Abbandonati i remi afferrai la destra di Ortensia; la interrogai a
lungo con lo sguardo prima di parlare.
Ella sostenendo il mio sguardo aspettò le parole che non poteva più
evitare.
— E la spiegazione?
Arrossì. Chiese, risoluta:
— Volete soffrire? farmi soffrire? Ebbene, son pronta! Dite dunque,
dite! Che cosa volete sapere da me?
— Perchè siete così mutata con me? Perchè mi guardate con diffidenza?
Perchè non vedo più nei vostri occhi la luce d'un tempo? Perchè,
Ortensia, mi hai detto che non ci comprendiamo più e non comprendi
tutto il bene che io ti voglio?
Stringevo la sua mano con tremito convulso. Nella mia attesa doveva
trasparire il timore d'una grande speranza che stia per mancare, di una
disperazione forse che stia per prorompere: ella ritrasse la destra,
la passò su la fronte come a diradare e schiarire una folla d'idee
confuse; poi, pallida, ma con voce più ferma della mia:
— Sono mutata: è vero; ma non solo con voi, con tutti! Vi guardo così,
come dite, perchè vi temo.
— Che male...? — Volevo dire che male potevo farle ancora.
M'interruppe:
— Vi temo perchè v'illudete e la vostra illusione ci renderà più
infelici tutti e due. Sì: non ci comprendiamo più. V'illudete!
Credete che io possa tornare quella di una volta.... È impossibile!
Riflettiamo, Sivori: che ero io una volta? Sciocca, ero. Dopo che la
mamma fu guarita — vi ricordate? — mi pareva che avessero creato il
mondo apposta per me, per la mia felicità. Quella mia spensieratezza,
quella mia gaiezza vi fece vedere in me una ragazza diversa dalle
altre.... Ma v'ingannaste: ero una cervellina come tante altre. Solo,
avevo molto cuore. Voi mi attribuiste più intelligenza di quella che
avevo e non conosceste il cuore che avevo: da qui tutto il male.
— Ah no! Se non avessi conosciuto il tuo cuore non avrei sofferto
tanto; non ti avrei amata così! Tutto il male fu nel mio amore che
non seppi nascondere; questa fu la mia colpa! Ma l'ho scontata....
Ortensia, Ortensia! Quanto soffrire! Se io fossi stato più forte, se
non ti avessi indotta ad amarmi, la passione non avrebbe fatto cattivo
un uomo che forse non era cattivo; non dovrei incolparmi della rovina
di tuo padre....
— Non è vero....
—.... e tu forse.... — almeno io lo desiderai allontanandomi da te....
— tu saresti stata felice!
Ella appuntò l'indice della sinistra verso i miei occhi.
— Vedete? Ecco come mi avete conosciuta! Pensate anche adesso che io
avrei potuto amare un altro come amai voi! Anche adesso ignorate il
bene che vi ho voluto.... È una crudeltà! un'offesa! Mi difendo, ora!
Dovete sapere tutto il male che mi avete fatto!
Sempre più concitata e pallida riprese:
— Sentite! Vi amavo fin da bambina! Per quello che udivo dire di voi
da mio padre, da mia madre, vi avrei amato anche se non vi avessi
mai visto; ma vi conoscevo. Ragazzetta, quando si parlava d'amori e
di nozze, dicevo: «Voglio sposar Sivori». A diciassette anni, quando
v'aspettavamo a Valdigorgo, dicevo: «Sono grande! sono una ragazza!,
ma non voglio pensare a nessun altro che a Sivori, voglio pensare
sempre a lui. Nessuna donna potrà mai dirgli, a Sivori, quel che gli
dirò io un giorno: ho pensato sempre a voi; non ho mai pensato che a
voi!» Veniste. Eravate così triste; infelice, malcontento di tutto.
E mi diceste se volevo essere io la vostra sorella. Sorella! Avevo
udito dirvi che bene sarebbe stato per voi quest'affetto; e mi parve
una cosa sublime. Fui felice a scorgere il bene che vi facevo. Ma ero
tanto inesperta! A poco a poco il mio affetto mutava, diveniva quale
doveva essere, come era prima, ma più grande, molto più grande! E mi
accorsi che anche voi mi amavate di più, in un altro modo. Oh allora!
Il mio amore, diventò così grande che il bene di una sorella era nulla
al confronto, era uno scherzo; un amore così grande che m'impauriva.
Io vi amavo in modo che mentre sembravo così coraggiosa non osavo
parlarvi, molte volte! molte volte tardavo a cercare di voi e avrei
voluto nascondermi; e non potevo più vivere senza vedervi. Era un
amore in cui entravano molte fanciullaggini, molte sciocchezze, forse;
ma in cui c'era anche dell'orgoglio, della fede. Non pensavo più che
poteste sposarmi: ve lo giuro! Mi bastava sapere che voi mi amavate.
Non so esprimere quel che provavo: c'era in me una vita diversa,
più forte.... Io, tanto inesperta, ingelosivo del vostro passato, io
dubitai di non amarvi abbastanza! Così vi amavo! E mi abbandonaste! Non
aveste pietà di me.... Speravate che io vi dimenticassi? Il martirio
cominciò invece con la vostra partenza! Non trovavo ragione del vostro
abbandono. Le parole che mi diceste di ritorno dalla messa erano state
un pretesto.... Come potevate credere, voi, che io potessi amare un
altro? Un pretesto! Forse voi non volevate per moglie una giovinetta?
Ma voi mi amavate: l'avevo visto! Il nostro amore, l'amore come io lo
pensavo non doveva avere paure o riguardi: era un pretesto anche la
differenza d'età! Perchè dunque? Voi nascondevate il vostro amore ai
miei; pareva un delitto.... Ebbi un dubbio....
— Quale? — domandai ansioso, con un brivido nelle vene. (Non era,
forse, un dubbio suscitato dalla calunnia di Anna,: che io fossi stato
l'amante di sua madre?...)
— Dubitai aveste, lontano, una donna amata.... Mi sarei uccisa di
rabbia; ma anche questo sospetto cadde. Il mio amore era superiore a
tutto; doveva essere il solo, il vero amore anche per voi; e avrebbe
dovuto infrangere ogni vincolo. Ridete! Mi appigliai a un'idea stupida:
che mi aveste messo alla prova.... Mia madre si maritò a diciott'anni;
quando io avrei la stessa età, sareste tornato per chiedermi ai miei in
isposa. Pazza addirittura: vi aspettavo per il dì del mio compleanno!
In questa speranza avevo ore di tal gioia, di tal fede che mi pareva
di essere felice come da bambina. Ma queste furon poche ore; quante ore
invece furono atroci!
A questo punto Ortensia passò di nuovo la mano su la fronte e disse:
— No. Son cose che non posso, non debbo confessarvi!
— Parla! — gridai io riafferrandole la mano e dimostrando con che
passione l'ascoltavo. — Debbo saper tutto il male che t'ho fatto!
— Ma non tutto il male che m'han fatto gli altri.
Col brivido di pocanzi insistetti:
— Gli altri: chi? Anna Melvi? L'ho immaginata la sua perfidia....
Parla; di' tutto!... Voglio saper tutto!
— No! — ripetè. — La perfidia di Anna aveva del resto, lo stesso motivo
del mio dolore, della mia disperazione. Anche per lei c'era un mistero.
Perchè mi abbandonaste?
Gli occhi d'Ortensia mi fissavano con intensità.
Vedevo orrore nelle sue rimembranze le pensai ch'ella mi rinnovasse
quella dimanda, conoscendo interamente la malignità di Anna. La fissai
a mia volta, e adagio, con voce divenuta sicura, e con la forza della
coscienza, le dissi:
— Ortensia! Io sono un miserabile risorto alla vita. Ma non si risorge
alla vita senza riacquistare una fede. Almeno questo credo: che mia
madre non sia morta del tutto. Il suo spirito aleggia forse intorno a
noi. Ella forse mi ode. Ebbene: per l'anima di mia madre che io credo
m'accompagni oggi teco, come in un consenso d'amore, per l'anima di mia
madre io ti giuro, Ortensia, che t'abbandonai solo perchè il mio amore
non ti rendesse infelice, perchè tu fossi un giorno sposa felice d'un
altro!
Un sorriso o uno spasimo prevenne su le labbra di Ortensia, queste
altre parole:
— Ne io nè Anna potevamo credere a tanta generosità, a una rinuncia per
beneficenza! Io avevo desiderato di morire.... Avevo messo l'amore a
pari della morte: non potevo metterlo a pari dell'interesse! E Anna....
Oh Anna spiegava le cose dal punto di vista della sua bassezza....
— Così dicendo chinò il viso e si strinse convulsamente le mani, per
frenarsi. Ma non potè non soggiungere: — Io non l'ascoltavo, Anna; però
l'udivo e le sue parole eran veleno che m'entrava nel sangue.... Voi
credete d'avere indovinato qualcuna delle sue insinuazioni? Che! furono
piccoli morsi, soltanto, nei primi mesi. Dopo, diventarono ferite che
mi squarciarono il cuore.
Tacendo di nuovo Ortensia accrebbe in me l'impressione del suo strazio.
Ma d'un tratto, con l'eccitazione a cui già l'avevo vista abbandonarsi
a Valdigorgo, proruppe:
— Sì: avete ragione! Dovete saper tutto! Il vostro giuramento accresce
i miei rimorsi, ma c'è la vostra parte di colpa da chiarire! Anna —
sentite — mi diceva: «Sivori ti ha abbandonata?» Non le rispondevo;
scuotevo le spalle. Essa sorrideva. Eppoi, dopo qualche tempo: «Sivori
è rimasto fedele a qualche antica fiamma». Il mio interrogarla,
conoscere la verità a prezzo del mio stesso dubbio! E che ne sapeva
lei? Avrei voluto sangue; e tacqui sempre. Essa lasciò passare qualche
tempo, eppoi: «Hai finalmente scoperto il mistero?» O mi compiangeva
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