In faccia al destino - 07

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E il giorno dopo:
— Che piova un poco, pazienza! Ma così! — Ortensia batteva i piedi per
l'ira. Soggiunse:
— È ora di finirla! Non ha desiderio d'un po' di sole anche lei?
Ebbene, sì, anch'io desideravo il sole! Con un piacere, con una letizia
lo desideravo, quale non avevo provata forse mai in mia vita.
Oh il sole! il sole!
Comprendevo la gioia che del sole avrebbe Ortensia; e dal medesimo
nostro desiderio apprendevo che la nostra consuetudine era divenuta
l'affinità spirituale da me voluta; io sentivo che finalmente godrei
del sole come Ortensia, con Ortensia.


XIII.

Il sole! Il sole!
.... Ortensia, là in mezzo al prato, con la gonna bleuastra e il
corpetto chiaro, sorgeva evidente dal verde e contro il verde; e l'aria
là in mezzo sembrava più luminosa, ed essa una forma di vita più viva
d'ogni altra e più bella.
— Ortensia! — Io la chiamai a voce alta, compiacendomi del mio grido.
— Che cerchi, Ortensia?
Non rispondeva; faceva pochi passi, l'occhio intento a terra. Ma
avvicinandomi, compresi.
— Cerchi la buona fortuna, per me?
Rispose sorridendo: — Sì.
— Non la troverai!
— Io? — esclamò col tono d'impazienza e d'ira che per giuoco assumeva
spesso. — Io non la troverò?
— Nè tu, nè altri. Del resto, non so che farmene della fortuna!
Scherzavo; ero lieto. Ella ne fu certa e sorrise, esclamando:
— Dunque il trifoglietto per l'amore!
— Che sai tu dell'amore e de' miei amori?
— So che lei un dì o l'altro prenderà moglie e che....
— Oh se per questo — interruppi —, non lo troverai il trifoglietto
dalle quattro foglie!
— Io lo troverò anche se lei non prenderà moglie! Lo voglio, e basta!
Ma là non ce n'era di pronto al suo sguardo; e sapeva dove la fortuna
ne nascondeva.
— Venga con me!
Per un viale tortuoso, fra le macchie, si giungeva a un prato estraneo
al giardino, in cui alcune donne risciacquavano il bucato in una
cisterna. A questa recava l'acqua un piccolo fosso, queto queto, alle
sponde del quale cresceva l'erba e abbondava il trifoglio.
Le donne ci osservarono tra le file dei lenzuoli stesi su corde da palo
a palo; poscia ripresero il cicaleccio e lo squasso.
— Sarà meglio la cerchi io per te, la fortuna! — dissi io.
— Avanti! a chi la trova!
E andavamo adagio adagio, lungo il piccolo fosso.
— Una sposina per Sivori: bella...., buona....
Quindi passando rapida, come soleva, dal pensiero presente a un
pensiero o a un ricordo che apparentemente non aveva con quello uno
stretto legame, Ortensia aggiunse:
— Anna.... Oh! io la disprezzo, Anna!
— Adesso....
— No, sempre; anche prima che lei venisse quassù!
— E l'accompagnavi a trovar Roveni?
— Insisteva tanto! Poi, non facevo niente di male, io!
— Ne sono convinto, di te. Ma Anna che faceva?
Mi provai ad attenuare nel tono della domanda, non la curiosità, bensì
il timore che m'induceva a interrogarla. Quasi non osavo guardarla in
faccia.
— Non so...., non posso dir nulla....
— Non vuoi dirlo!
— Non posso dire quello che non ho visto.
— E allora perchè accusi?
— Perchè...., perchè quel giorno dei pizzicotti, io scappai a veder
lavorare in fabbrica. Quando tornai e fui sotto la finestra dello
studio, sentii che Roveni sgridava ad Anna....
— Cioè?
— Diceva piano: «C'è Ortensia....» Capisce? Era lui, Roveni, che doveva
sgridare ad Anna! Dunque, mi pare....
Io, senza più titubanza avevo fissato lo sguardo negli occhi di lei per
scoprirne tutto il pensiero; nè riuscendoci, perchè volevo più del suo
pensiero, sentii il bisogno di rimproverarla ancora.
— Tu ascoltavi, sotto la finestra!
— No! glielo giuro!
In questo mentre una delle donne con la gerla piena di biancheria
veniva verso di noi. Salutò, si fermò e chiese con faccia franca:
— Cosa cerca, signorina?
— Cerchiamo fortuna, Teresa!
— Eh non ne han bisogno loro! — disse la donna sorridendo un po'
maliziosa. Ma Ortensia, ingenua:
— Non ci credi, tu, nel trifoglietto dalle quattro foglie?
E l'altra guardando a me;
— La povera gente non ci crede in queste cose!
— Male! Se tu ci avessi creduto quand'eri ragazza, adesso non faresti
più la lavandaia; saresti contessa o duchessa.
— Oh ne trovavo tanto anch'io, quand'era giovane! — confessò la donna
intanto che riprendeva il sentiero. — Ma sì! Ci vuol altro!
Per dire qualche cosa, io dissi:
— Hai sentito? Andiamo, che è tempo perduto.
— Nossignore! — esclamò Ortensia. — Io ci credo!
Così proseguimmo; lei dimentica del discorso di prima, e io tornandoci
in segreto, quasi per forza, e con un sentimento di profanazione.
Aveva appena diciassette anni: che le avevano appreso i sogni? le
letture? le compagne? l'esempio di Anna? Quanto sapeva, insomma....,
dei piaceri e delle brutture dei sensi?
Possibile che dell'amore non presentisse quei diletti che il mistero
ingrandisce alla fantasia nelle prime commozioni del sangue? Possibile
non avesse pensato che certe «brutte cose» diventano lecite e
desiderabili solo per la benedizione del prete e per il vincolo della
legge?
Che turbamento avevano lasciato nell'animo suo le audacie della
Melvi con Roveni? Che cosa, a quelle parole, terribili per me e
sollecitatrici per lei: «C'è Ortensia....», aveva immaginato? un
bacio?... soltanto? Ciò che poteva aver immaginato essa cercavo
d'immaginar io; e ora mi pareva eccessivo il mio pensiero, e ora
limitato troppo; e avrei voluto chiarirmi con inchieste che non sapevo
nè dovevo fare: il senso di profanazione s'accresceva entro di me a un
ribrezzo quale per una indagine vergognosa.
La guardavo. Sì, sì, era affatto dimentica del discorso di prima: il
sole le splendeva nei capelli; cercava, bambina, il trifoglietto dalle
quattro foglie.
Io, uomo e corrotto, non sapevo neppure perchè temevo tanto; edotto
dalla scienza, non sapevo perchè ora vedessi un male in una necessità
fisiologica, se qualche imperioso moto del sangue e dei sensi
richiamasse in Ortensia immagini sensuali. Temevo; soffrivo; e mi
consolavo a guardarla.... Mi ripetevo che voci di colpa erano giunte
al suo orecchio, ma non all'anima sua; e io avevo ben visto in lei il
contrasto fra la voglia puerile di mostrarsi perspicace e il pudore
istintivo che le faceva parere enorme quel che ricordava; il lume degli
occhi, mentre parlava, e il lieve colore passato nelle sue guance,
subito avrebbero dovuto accertarmi che a lei ripugnava rimeditare ogni
impurità, proprio per un pudore d'istinto; per uno oscuro sgomento
dello spirito; per una nativa repulsione da ciò che l'intelligenza le
aveva appreso senza volere. E la stessa sua attività fisica....
— Ebbene? Non dice più nulla? — mi chiese tutta contenta di
costringermi a pazientare con lei nella ricerca. — A che pensa? Ohe!
signor dottore!...
Ma repentinamente io avevo osservato.... Gridai: — Là! — Nè avevo
compiuto il monosillabo che Ortensia, con più alto grido di gioia,
raccoglieva il quadrifoglietto, al margine del fosso.
— L'ho visto prima io — feci rallegrato, più che dal caso, da quella
allegrezza di lei, che bastava a dissipare dalla mia mente e dal mio
animo l'ultima ombra.
— No, prima io! Mi chinavo a raccoglierlo proprio quando lei ha detto:
— Là!
— Non è vero!
— È vero! — S'inquietava. Finchè, rabbonita, mi disse:
— A lei: glielo offro.
— Non lo voglio! Sono io che l'offro a voi, signorina, per ricordo, per
augurio, per gratitudine, per omaggio.
— Auff! — Diventando minacciosa, gridò: — Lo butto nell'acqua!
— Guai! la fortuna si vendicherebbe di tutti e due: anche di me che non
l'ho cercata per me.
— Dio! Dio! Che pazienza!
Ma infine ebbe una buona idea.
— Leveremo a sorte chi debba conservarlo; benchè sia di tutti e due.
La sorte favorì Ortensia; e io godetti anche di questo!

Ero dunque riuscito nell'intento di attenuare la mia esistenza, così
e così ricuperavo la vita con piena letizia, e dissipavo ogni fosco
pensiero e obliavo? O dovevo al sole la novella gioia? Che deliziose
ore riebbi nel giardino di Moser! Rivedendomi nei giorni del mio
rinnovamento, con che cuore rivedo il bel luogo!
Verso nord acacie e robinie e alberi in ischiera disegnavano l'erta,
con la strada del vecchio convento; e più oltre, riprese di boschi.
Alla parte occidentale, era un confine di siepi, tigli e platani: a
mezzodì la catena di monti in linea uguale, netta, tagliava il cielo;
simile a un limite remoto ma preciso. E da questo limite, d'un cupo
verde, alle ore meridiane sormontavano nel cielo cristallino nuvoli di
bambagia lucente al sole, che cadevano all'ombra delle montagne occidue
con pallore improvviso. Più spesso, sorgevano vapori bianchi, quasi
segnali d'una terra ignota e invisibile. Sopra, nello spazio di cielo,
passeri traversavano, pari a frecce, e le rondini esercitavano obliqui
voli e volteggiamenti.
Là dentro, nel giardino, ricevevo adesso impressioni di cui non credevo
più capace il mio spirito; mi beavo nell'amore della campagna. Vedevo
che riflessi metallici il sole traeva dalle foglie lisce delle magnolie
e dei lauri; come penetrava radioso tra il folto degli abeti; che toni
gialli suscitava dalle acacie e dai tigli; che denso e lieto verde gli
opponevano le tuje; di che sovrano fulgore investiva i fiori e allagava
il prato. Poi, di quelle piante conoscevo tutte le attitudini e le
movenze: dai molli abbandoni nell'aria mite, alle agitazioni penose
nella furia del vento. Anche avvertivo effluvi di profumi semplici e
commisti, alcuni dei quali da me non avvertiti mai. Certo, in quella
famiglia di piante ed erbe conoscevo pur dei rami che intisichivano,
e steli che pativano, e fiori che perdevano petali; ma tali indizi di
infermità e di morte sparivano dal mio sguardo confusi in un vasto e
complesso aspetto di giovinezza, di vita intensa, feconda, continua,
gioiosa: fiori e verde, luce e calore, giovinezza e amore!
Il sole! il sole! Finalmente nell'eterno splendore che avvolgeva
tutte le cose io rivedevo l'energia della vita universale e nella
vita universa tornavo a sentire me vivo. Al cielo, che bianco intorno
al divino lume diventava con insensibile gradazione del più puro
cobalto e del più puro indaco, tendeva da tutta la terra un'anima
sola, letificata: e in quella letizia comunicavano con voci udibili
e con voci inaudite le anime di quanti corpi volavano per l'aria; le
anime di quanti corpi correvano e indugiavano su la terra, o serpevano
tra l'erba, o si ricercavano sotto terra; le anime di tutti i fiori e
le anime d'ogni natura vegetativa; le anime delle acque fluenti, dei
fuochi e dei vapori latenti; le anime in tutte le forme ancora ignote
ad occhio umano, e l'anima mia. E per l'addietro io avevo infranto
in me il vincolo di tale comunione! Per essere felice, m'ero staccato
dalla universale vitalità; al lume del sole avevo creduto poter opporre
il lume del mio pensiero, e vivere! Pazzo!
Ora io mi gettavo su l'erba col gaudio di un bambino che ritorni tra
le braccia della madre. Navigavo con lo sguardo per il cielo fin dove
lo sguardo poteva resistere, e ascoltavo ogni più debole suono, e
addentrandomi con lo spirito nelle sensazioni molteplici, smarrivo
felice la continuità del mio pensiero. Oh non pensare! non pensare mai
più! e vivere!
Nè pensavo ai filosofi che predicarono il benefizio del tornare
all'amore della terra e della campagna: sentivo in me una virtù
superiore alle loro concezioni.
E non pensavo al piacere di chi va per i campi in traccia della sua
scienza di cause e di effetti, nè alla consolazione del poeta solitario
il quale chiama cielo e terra a testimone del suo amore.
Perchè io sapevo di una vita più viva, di una consolazione più pura,
di una gioia più umana e naturale insieme: quella della fanciulla che
viveva meco là fuori, nel giardino, con finezza sensitiva, con anima
ignara, con intelligenza serena. Per Ortensia tutto viveva; a lei tutto
parlava, senza sua riflessione, spontaneamente. Strapparla via di là,
a un tratto e per sempre, sarebbe stato come recidere un fiore.
Ella ne recideva, dei fiori, per adornarsene; ma alcune volte l'udii
dire: — peccato! —; e altre volte notai che dalla pianta non staccava
il fiore più bello.


XIV.

Chi mi richiamava a cose più gravi?
Moser a vedermi «così chiaro», come egli diceva, diventava più chiaro
anche lui.
La sera, di ritorno a casa, m'abbracciava, esclamando:
— Te lo dicevo io? L'aria di Valdigorgo fa miracoli! Non ti resta che
abbandonare per sempre Spinoza e compagnia, e sarai l'uomo più felice
del mondo!
Quanto a lui, Moser, continuava la sua vita di lavoratore indefesso
e fiducioso. E gli argomenti che egli adduceva a sostegno della sua
fiducia, mi persuasero a poco a poco che la disparità di criteri fra
lui e Roveni indicasse in Roveni un po' di gelosia per la superiorità
di Moser. Il direttore avrebbe voluto primeggiare in tutto e su tutto,
nell'azienda; dominare anche il principale, perchè tal era la sua
natura; di qui il suo malcontento.
Così mi tranquillai, e tranquillato non pensai più agli affari di
Moser. Solo, ad accorgermi che negli occhi di Roveni persisteva
un'ombra, ne riferii il motivo al dissidio, lieve del resto, che egli
aveva con Claudio. Del resto, all'infuori di quell'ombra, la quale
poteva essere anche indizio di stanchezza, nulla appariva di mutato
nelle abitudini e nelle attitudini del giovane ingegnere. Mi par di
vederlo allorchè veniva a noi, la sera, dallo studio di Moser, là dove
l'aspettavamo. Si arrestava su la soglia della sala o della terrazza,
quasi a prender possesso della situazione. La sua prima occhiata era
diritta alla mia volta; ma non me ne meravigliavo, perchè di solito
ero nel gruppo giovanile, e di là prorompevano le grida che sfogavan la
lunga attesa; applausi di Anna e Ortensia; rimproveri a mezza voce di
Marcella; comiche esclamazioni di Guido.
— Che si fa? — domandava, sembrava comandare Roveni.
Se gridavano _polka_ o _waltzer_, egli afferrava, senza indugio nella
scelta, o Anna o Marcella o Ortensia, e trasportava la ballerina
seguendo la novella foga della signora Fulgosi, sotto le cui rapide
mani il pianoforte scontava le colpe del cavaliere.
Veramente Roveni rideva poco o punto, e per me sarebbe stato non
bell'indizio se non ci fossimo trovati in mezzo a compagni che
ridevan tanto. Mi pareva ch'egli dovesse sentirsi di tempra diversa
e più forte. Sorrideva a pena pur quando Ortensia voleva strisciar il
_waltzer_ con il cavalier Fulgosi e il povero gentleman era costretto
a scomporsi e ricomporsi alle norme dello strascico musicale, che la
moglie protraeva per dispetto.
Talvolta però scherzava anche lui, l'ingegnere. Non di rado si
schermiva dai giuochi e attaccava discorso con le signore e con i
soliti contendenti politici, il cavaliere e il vecchio Learchi. Mi
chiamava allora senza badare ad Anna, che l'avrebbe sempre voluto al
suo fianco.
— Qua, dottor Sivori! È vero o no che in paese è corsa la voce....
Serio, mi obbligava ad attestare una strampalata notizia di sua
invenzione, la quale era un po' scandalosa e faceva sobbalzare per le
risa l'adipe della Melvi madre. Oppure dal gruppo degli uomini diceva a
voce alta verso di me: — Me n'appello al dottor Sivori! È vero o no che
la guerra è nella natura delle cose? È vero o no che secondo Darwin, o
Spencer che sia, la prevalenza della forza è la legge dell'esistenza
universale? Dunque i fautori della pace universale sono i peggiori
nemici della società. I socialisti poi...., a domicilio coatto! in
galera! mitraglia!
Io assentivo allo scherzo, pur osservando che anche in questo si
rivelava l'energia dell'uomo.
Il vecchio Learchi grugniva: — bravo! —; e il cavaliere spalancava le
braccia.
— No, dottore, no!... Non faccia _bonne mine à mauvais jeu_! Stasera il
nostro bravo ingegnere è un po' _farceur_. Prima di tutto, confonde i
socialisti con i più nobili, più puri pensatori della pace universale!
Eppoi...., eppoi condannare _sans façon_ tutti i socialisti,
condannarli in nome della scienza...., ohibò...., è un'eresia! La
scienza è amore!
E giù uno sproloquio per finire con la libertà nell'ordine e viceversa.
Ma parlava con arte il cavaliere, mentre ascoltava e osservava sè
stesso. Il suo gestire era effetto di lungo studio, perchè gli altri
ascoltatori ammirassero i polsini, i gemelli nei polsini, gli anelli
delle dita, il candore e l'arco delle unghie. Ed ora tendeva il braccio
agitando due o tre volte la mano aperta a dita aperte; ora col gomito
nel braccio della poltrona abbandonava la mano fuor del polsino quasi
fosse sostenuta da quello; or appuntava all'avversario l'indice teso
fuor del pugno mollemente socchiuso col pollice a contatto del medio;
or apriva ad arco ambedue le braccia e concedeva la vista d'ambedue le
palme nell'atto del porgere....
Bisogna anche dire il perchè da quando era stato bandito Pieruccio
l'eloquenza del cavaliere navigava per il _mare magnum_ della
pacificazione sociale. Da che moveva in lui, a che tendeva il desiderio
di così vasta idealità?
Moveva dalla guerra domestica; intorno a cui informavano le Melvi. La
lontananza di Pieruccio aveva sollevato l'impenitente Don Giovanni,
il _vieux marcheur_, da un grave peso, dal timore di scandalizzare
il figliolo; e un giorno la signora l'aveva sorpreso mentre egli
affrettava gli approcci alla facile fortezza della cameriera. Questa,
bandita a sua volta, era andata rivelando per il paese le velleità del
padrone e la gelosia frenetica della padrona; onde chiacchiere e risa.
Il ridicolo!
La famiglia Fulgosi nel ridicolo!
— Colpa vostra: vergognatevi! — diceva la signora.
— Colpa vostra! — ribatteva il marito. — Siete nervosa nervosa nervosa!
E bisbetica! e accattabrighe! Gentildonna in apparenza; in realtà,
povera donna! Sì: povera donna!; lo ripeto senza tema di essere
smentito: povera donna!
Senza smentire, la gentildonna scagliò una spazzola a scomporre
l'accurata pettinatura della barbetta maritale.
Onde l'idea di fondare in Valdigorgo il «Club della caccia» con
inaugurazione al 20 settembre. Sissignori: dalla guerra famigliare
nacque nel cavaliere il desiderio di portare la pacificazione sociale
a Valdigorgo.
Dividevano il paese: socialismo germinante fra gli operai della
fabbrica Moser; moderatume governante in municipio con irremovibile
fede nel consiglio: «Adagio, Biagio!»; codineria collegante il grasso
priore al non men grasso e più cocciuto Learchi, ai quali tenevan
bordone clienti o satelliti in buon numero.
Anche lassù covava dunque l'odio di classe. Covava? Generava nelle
osterie, nel caffè di mezzo e nel caffè grande, lunghe e feroci
discussioni, che alla lor volta partorivano odii personali, indegni
del vivere civile, dell'amor di patria e dell'alta politica quale
insegnarono Cavour, Bismarck, Gladstone, e quale insegnava il cavalier
Fulgosi.
La pace è il maggior bene dei popoli, dei paesi, di un paese! Il
cavalier Fulgosi nel caffè grande esortava al bene di Valdigorgo:
«Primo passo, unitevi, o cittadini, nel nome dello _sport_!» Solo
_sport_ a Valdigorgo era la caccia. Ebbene: in un club ove si
raccogliessero per amor della caccia avversari d'ogni sorta, quanti
dissidi potrebbero esser composti, quante questioni risolute, quante
diatribe mitigate, quanti danni riparati, quanti vantaggi provveduti!
Perciò l'idea del cavaliere comprendeva la sublime elevazione di un
volo lirico: dall'amor della caccia all'amor della pace, all'amor del
paese, all'amor della patria tutta! Il proposito poi d'inaugurare il
nuovo club nel giorno anniversario della compiuta unificazione della
patria con la capitale Roma, non aveva forse qualche cosa del moderno
machiavellismo cavouriano, bismarchiano o gladstoniano? Come potrebbero
esimersi dal partecipare alla festa nazionale cacciatori d'ogni sorta,
fossero pure socialisti o clericali, se l'invito apparentemente non
chiamava che a festeggiare l'amor della caccia e della cacciagione?
Fin il sindaco, che cominciava a dubitare della sua resistenza nella
onorifica carica da molti anni occupata, ascoltò il consiglio del
segretario:
— Appoggi! appoggi! L'idea del cavaliere è buona.
Ma segretario e sindaco, poveri ingenui, ignoravano che cosa meditava
il cavaliere! (Alle prossime elezioni....) Intanto essi favorivano. E
il comitato presieduto dal cavaliere si mise a raccogliere soci; e un
comitato di signore s'adoperava ad accumulare premi che rendessero più
gloriosa una gara di tiro nel dì solenne.
Se non che non cessavano le battaglie nella famiglia Fulgosi e nelle
vicinanze. La signora Fulgosi dubitava che la cameriera attirasse il
marito in paese e faceva ancora volar le spazzole. Inoltre al signor
Learchi padre bastava, per politica, bere, mangiare, pipare e predicar
la castità ai rondoni....
Diceva: — Cacciatore è chi va a caccia; io a caccia non ci vado; quindi
del suo club, stimatissimo signor cavaliere, non so cosa farmene.
Religione ci vuole! Altro che caccia!
A parte la religione, l'ingegner Moser non andava più a caccia;
l'ingegner Roveni non aveva tempo di andarci; Sivori — l'illustre
pensatore — che cosa poteva cacciare? Eppure eran stati dei primi ad
associarsi. Perchè? Per vantaggio del paese, per amor della patria
tutta!...
.... In uno di quei giorni in cui si faceva scarrozzare a spese del
futuro club, il leggiadro cavaliere piombò alla villa mentre io ero con
Ortensia ed essa stava leggendo.
— _A quelque chose malheur est bon_! — egli disse entrando nella sala.
— Dolentissimo di non aver trovato l'ingegner Moser....
— Il babbo non torna che domattina — l'interruppe Ortensia.
— Me l'ha detto la signorina Marcella.... Felicissimo però, se
non disturbo, di mettermi al coperto e trattenermi in così amabile
compagnia. Come vedono, torniamo da capo. — Poi in accento toscano: —
Il tempo si rimette.... a piovere, Dio bonino!
Sorgeva infatti un nuvolone nero.
— La signorina leggeva? Ah! Dickens! Lo conosco poco, a dire la verità.
Non è uno de' miei autori. — E strizzandomi l'occhio: — Io preferisco
De Koch.
Gli chiesi:
— Come va il club?
— _All right_! — Mi prese a braccio per susurrarmi in modo che
Ortensia udisse: — Bisogna persuadere l'ingegner Moser ad accettare la
presidenza effettiva.
— Saremo invitati anche noi alla festa? al banchetto? — domandò
Ortensia.
— Invitate, sì: diavolo! Ma banchetto, no! Un _lunch_....
— Con molte paste!
—.... e _farewell_!
— Chi fa il discorso?
Sorrise.
— Forse io....; si capisce: per non urtar nessuno, al 20 settembre, ci
vuol tatto, _savoir-faire_.
E poichè tuonava:
— Niente paura! Sempre non è seren, sempre non piove!
Ma Eugenia e Marcella chiamavano
— Ortensia! Ortensia!
Marcella correva al piano di sopra ove il vento sbatteva vetri e
finestre.
— Una nuvola che passa! — garantì il cavaliere seguendo Ortensia, che
usciva, con gli occhi mollemente pecorini. — Quindi scosse il capo per
asseveranza a quanto diceva. — Sempre più bella, quella ragazza! Ce
ne sono delle più belle?... Grazie! Ma bellezze che non dicono niente;
Ortensia invece.... che simpatia! che _charme_! Eh eh! Il mio Pieruccio
non aveva poi tutti i torti.... Solo, alla sua età le ragazze sono
pericolose; meglio le signore, per imparare ad amare. Laggiù a Varezze
non gli mancherà occasione di far pratica, a quel ragazzo!
Una pausa. Eppoi:
— Tornando a Ortensia, beato lei, dottore!
Io, che guardavo fuori, al tempo, mi rivolsi con un'occhiata feroce. Ma
egli continuò:
— Lei è un uomo superiore ad ogni sospetto, superiore in tutto. Su di
lei non è possibile far malignità, è inutile fin ripetere: _Honny soit
qui mal y pense_. Voglio dire che lei può gustare tutta l'amabilità
della signorina senza dar la minima ombra; la loro è un'invidiabile
amicizia, un'_entente_ semplicemente cordiale. Però mi consenta dirle
anche che se Ortensia avesse solo qualche anno di più....
— Lei scherza! — feci io, aspro.
— Non scherzo niente affatto! Che a lei questa mia idea non sia
venuta, è naturale, perchè lei è un uomo superiore. Ma per me, non
ci sarebbe niente di strano; anzi ci sarebbe da rallegrarsi d'un così
bel matrimonio...., fattibile, ora aggiungo, fattibilissimo pur con la
differenza di età che ci corre fra la signorina e lei.
Non scherzava il cavaliere, e che piacere mi fece!; come di una
gratissima improvvisata. La mia antipatia per lui finì d'un tratto. Non
era un uomo sagace?
— Che acquazzone! — esclamai.
— Una nuvola che passa. Ma senta: un mio amico, il commendatore
Fiscaglia, ha sposato, a cinquant'anni, una ragazza di ventidue; e sono
felici, con un bel maschiotto.... La questione sta nella scelta; nel
volersi bene....; purchè, intendiamoci, si sia ben portanti e sani....
Trasse l'astuccio dello specchietto, e pareva dire: «Se io fossi
vedovo!»
— Lei, dottore, non ne conta cinquanta delle primavere. Quante ne
conta? Trentasei, trentotto? Ebbene, francamente, senza complimenti,
per la pura verità, se io fossi nella signorina Ortensia io non
esiterei un istante nella scelta, tra lei e....
A questa parola di «scelta» io mi era rivoltato d'improvviso,
fissandolo non so come; come chi aspetta una cosa inaudita, come chi
minaccia un guaio a un incauto.
Ma il cavaliere aveva già preso lo sdrucciolo, e sebbene avvertisse il
passo falso dovè tirare innanzi.
—.... non esiterei nella scelta tra lei e l'ingegnere Roveni.
Roveni?... Ero pallido, immoto nella persona e nello sguardo. Il mio
stupore, forse più che altro, esprimeva il dolore profondo d'un animo
generoso colpito a tradimento. E al dolore sottentrava irrefrenabile lo
sdegno.
Con il presentimento di una battaglia più dura di tutte le altre, il
cavaliere aveva tolte dall'astuccio le sole armi che potessero levarlo
d'imbarazzo: lo specchietto e il pettinino; e con tutta la disinvoltura
che potè assumere, con la più tenera occhiata de' suoi occhi pecorini,
con l'ingenuità di chi spera ancora di riparare dopo averla fatta
grossa:
— Che sia poi vero quello che si dice? — domandò.
Io l'investii:
— Si dice?...
Più pallido di me, tenendo il pettinino nella destra e lo specchietto
nella sinistra, a mezz'aria:
— Non assumo alcuna responsabilità — mormorò: — Nessuna responsabilità
delle chiacchiere altrui.... Si dice, dicono, lo dice anche la mia
signora, che la signorina Ortensia sposerà.... l'ingegner Roveni.
Stavo sempre immobile, quasi aspettando ancora. L'altro, al mio
silenzio, si smarrì del tutto, precipitò sino in fondo.
— Sarebbe un matrimonio già combinato....
Allora io gli gettai in faccia una sola parola:
— Sciocco!
E tornai a guardare il cielo. Fremevo, cieco d'ira; tremavo; non vedevo
più l'altro, che balbettava:
— Ma.... ma...., dottore.... È un'offesa....
Ancora tacqui. Durante il nuovo silenzio freddo e pesante il poveromo
si chiedeva che cosa gli restasse a fare. Intascare l'astuccio....
E poi? Mandarmi i padrini. Se no, la dignità del futuro sindaco di
Valdigorgo correva un rischio terribile. Un _gentleman_ a rischio di
parer vile! Ma, d'altra parte, urgeva non comprometter la pelle. Che
fare, dunque? Ah l'ingegnoso diplomatico che trovata ebbe!
Arditamente e solennemente disse:
— Dottor Sivori: lei mi ha offeso; lei ha offeso.... un vecchio!
Quasi disperato, per salvarsi, riconosceva ciò che altrimenti gli
sarebbe stato più grave di ogni insulto: si confessava vecchio!
Ma non solo per questo io ruppi in una risata ironica, mentre Ortensia
stava per rientrare....
E a veder Ortensia, il cavaliere, come ricuperasse l'anima che il
mio riso respingeva su l'abisso, con uno sforzo sublime di spirito,
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