Falco della rupe; O, La guerra di Musso - 06

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sulla via del Castello con Gabriele. Mirava egli i molti edificii di
Musso, i tanti altri casamenti contadineschi, e i palazzotti sparsi in
que' dintorni, in cui gli abitatori menavano vita sicura sotto
l'immediata protezione del Medici che ne era il Signore, e in alcuna di
quelle case, andava pensando, poteva rinvenirsi un albergo convenevole a
sè, ad Orsola ed a Rina, ove lasciandole, per recarsi ad affrontare
rischii e combattimenti, avrebbe conservato l'animo tranquillo sul loro
destino, qualunque si fosse stata la sorte che lo attendesse.
Dell'esecuzione di tal divisamento, ch'egli fermò tosto in pensiero, ben
comprendeva doverne dare contezza al signor Gian Giacomo, senza la cui
concessione, un uomo qual egli si era, non avrebbe potuto trovar mai chi
quivi l'accogliesse; si fece quindi a tenerne parola a Gabriele, sulla
cui cooperazione faceva fondamento, appoggiato a quanto aveva in suo
favore operato.
"Si vede, signor Gabriele, gli disse, che questo è il paese dove si
battono gli scudi e i cavallotti[4], e che qui tutti ne hanno a ribocco:
ogni giorno par dì di fiera, tanta è la gente che vi viene a trafficare:
i ricchi signori lasciano le altre terre per starsi in questa, sì che a
guardarsi dintorno sembra un bosco di case; se Musso va aggrandendosi di
tal passo, diventerà tra poco qualche gran città da farne invidia a
Como. Qual differenza tra questi bei fabbricati e il mio povero casolare
che sta solitario sulla montagna come il nido di un uccello selvatico.
Voi il vedeste, e lo potete dire. Ma pure sappiate ch'io non avrei mai
avuto desiderio di cangiare quel mio coviglio con alcune di queste
abitazioni, e nemmeno col castello d'un re, se non fosse un sospetto che
m'è entrato in cuore, che un giorno o l'altro i camicioni rossi[5]
abbiano a montare la sù, e cogliendovi le mie donne alla sprovvista,
trattarle col vitupero con cui adoperano que' cani scellerati contro
chiunque dà loro nelle mani. Oh! se s'attentassero salire la montagna
quand'io mi stessi sotto il mio tetto! Ne li sentirei venire se avessero
il piede di volpe, e appostandoli col mio moschetto, ne manderei più
d'uno a rotoloni giù per gli scogli come tronchi di quercie spaccate.
Darei poscia io stesso il fuoco al mio casolare, e mi condurrei Orsola e
Rina sulle alture dei monti, dove essi cercherebbero indarno
d'innoltrarsi d'un passo. Ma temo che abbiasi a battere la selva
mentr'io mi son lontano, ed ho per ciò determinato di farle snidare di
là per condurle in sicuro".
[Nota 4: Così chiamavansi alcune monete di vario valore su cui era
impresso un cavallo portante un guerriero, che venivano nella zecca di
Musso in que' tempi coniate.]
[Nota 5: Venivano per ischerno disegnati in tal modo i soldati Ducali,
perchè portavano sull'armatura una sopravveste di quel
colore.--_Misaglia_.]
"Saggiamente tu pensi (rispose Gabriele fatto attentissimo a quel
parlare, ed a cui il suono del nome di Rina fe' salire un lampo di
rossore sul volto): è dover tuo di provvedere alla loro salvezza, chè
nel luogo ove ora si trovano può essere ad ogni istante minacciata: le
intraprese e le azioni tue ti fecero sì noto, che è gran meraviglia che
i nostri nemici non abbiano per anco fatto prova d'assalirti sulla tua
rupe: e certo se accingendovisi prendessero tua moglie o tua figlia, che
la Vergine le protegga! sfogherebbero su di esse lo sdegno che nutrono
da tanto tempo contro di te. E chi potrebbe colà difenderle? chi
accorrere in loro soccorso, per strapparle a quegli inferociti che ne
farebbero strazio per farti sentire più crudele e tremenda la loro
vendetta? In quella isolata dimora da cui sta con te assente ogni amico
tuo, invano spererebbero nella foga del periglio, che da Nesso
giungessero armi e braccia in aita? Bene pensasti adunque di mutare
soggiorno, ed agevole riuscir ti deve di trovarti un asilo più
tranquillo e difeso".
A queste parole, che il giovinetto pronunciò caldamente, Falco, dopo
breve silenzio, in cui mostrava star maturando una decisiva risoluzione:
"Ho stabilito, replicò, di venirmi a collocare sotto le guardie d'un
castello del signor Gian Giacomo, scegliendo stanza con suo
acconsentimento o qui a Musso, o là vicino alla rocca di Corenno" e ne
additò della mano la torre al di là del lago.
"Non dubitare, o Falco, ripetè Gabriele animato da visibile contento;
mio fratello ti accorderà non solo d'abitare in questa sua terra, od ove
più t'aggrada, ma ti terrà, se lo vuoi, in una delle sue case, e sarà
sempre proteggitore di tua famiglia: potrebbe egli pagarti con minor
ricompensa l'avermi salva la vita?"
Così parlando erano pervenuti là dove la strada s'internava come dicemmo
fra la muraglia meno alta del Porto, da cui vedevansi sopravanzare le
sommità di gran numero d'alberi di nave, dai quali pendevano corde,
puleggie e vele attortigliate, e quella dell'ultimo bastione che
massiccia e inclinata formava scarpa al Castello, Maestro Tanaglia
progredendo verso l'arco detto la _Porta di Musso_, sotto cui era
l'ingresso alla fortezza, si pose alla destra di Gabriele che, come
n'era partito, voleva colà rientrare al suo fianco.
Ma noi, pria di procedere accompagnandoli più oltre, crediamo
indispensabile il dare ai nostri lettori un'idea, quanto più potremo
precisa, di quel Castello che occupa sì luminoso posto nella storia del
Lago, desumendola dalle vestigia che tuttora ne rimangono e dalle
descrizioni di antichi scrittori che ne poterono raccogliere veritiere
notizie.
L'Ericio Puteano, autore d'una Istoria Cisalpina, fece cenno di quel
Castello colle seguenti parole: _Era una rocca sovra una scabra ertezza
posta come a vedetta di tutto il lago, di triplice lorica e di
altrettanti castelli provveduta[6]._ E veramente la falda di monte su
cui si erigeva quel forte venne da lui a buon diritto chiamata _una
scabra ertezza_ a causa della natura del sasso di cui va composta, e di
sua alpestre configurazione. Sulla sponda occidentale del lago, da
Rezzonico a Musso, le montagne si dirompono scendendo all'acque in
valloncelli e pianerotoli coperti d'erbe e di piante; ma poco a
settentrione dell'ultimo Borgo si scorge il monte nudo, erto, petroso
protendersi lungo il lago per un tratto considerevole. Dall'un lato si
stanno con Musso altre picciole terre disseminate pel pendío, dall'altro
la montagna s'interna con rapido rivolgimento quasi ad angolo retto ver
ponente formando un seno o piuttosto un golfo contornato da verdeggiante
pianura, che si stende da Dongo a Gravedona. Questa schiena di monte,
che s'appellava ne' passati tempi la Montagna del Castello, ed ora che
le mura di esso stanno diroccate al suolo, vien detto il Sasso di Musso,
è formata d'una pietra bigia, ruvida, spugnosa, congiunta così come
fosse un solo gran masso, su cui allignano pochi sterpi e bronchi
radicati nelle screpolature, entro cui le pioggie infiltrano un minuto
terriccio. Due vallette tagliano di prospetto la fronte di quel gran
sasso, l'una ver Dongo, che nomasi la Val-orba, in fondo alla quale
stagnano acque nereggianti; l'altra, la Val-del-merlo, più della prima
angusta, ma fruttosa in suo seno d'ulivi. Vicino a quest'ultima, dalla
parte di Musso, sovra alcuni rialzi che formano un profilo distinto del
monte, s'erigeva il Castello, ossia i varii forti che il componevano:
poichè dalla notabile altezza dove trovavasi il maggior fabbricato
ch'era la vera rocca, scendevano baluardi, mura e torri non interrotte
sino alla strada, chiudendo altre rocche, ed alla strada congiungevansi
per mezzo dell'arco, ch'era la Porta di Musso, alle mura del Porto, che
s'avanzava co' suoi moli nel lago. Siccome que' forti che formavano il
Castello, erano stati in tante riprese da diversi dominatori costruiti,
e in epoche disparate ampliati e precinti di bastioni e di vedette,
mostravano nelle varie foggie architettoniche di loro torri e finestre,
nel colore delle mura l'indole e la distanza delle età di chi gli aveva
innalzati, offrendo norma specialmente a distinguere la nazione o il
lignaggio de' passati signori negli stemmi e nelle imprese che vi
stavano scolpiti ad ornamento.
[Nota 6: _Arx in verrucosa crepidine velut universi lacus specula
erat... triplice lorica totidemque castellis munita._]
La parte principale, ch'era la più ampia ed elevata, avevasi recente
data, perchè fatta pressochè tutta erigere dall'ultimo suo possessore,
il Medici. Ben quattrocento passi s'innalzava dessa dal piano del lago,
e formava lo stremo superiore del castello, e tre terrapieni sostenuti
da rivellini, scendenti ad uguali distanze come altrettanti scaglioni,
su ognun dei quali eravi un forte con torri e bastite, dividevano il
rimanente dello spazio; e questi erano le tre loriche o corazze
dall'oltremontano Storico accennate. A fianco di essi scendeva un doppio
ordine di mura munito di altre torri che li serrava tutti in un sol
corpo, e vi si aggiungevano in più luoghi palafitte e steccati. Nella
sommità l'ultimo muro della fortezza non avea già a ridosso l'erto
pendío della montagna: un profondo taglio di smisurata grandezza,
praticato nel vivo masso, ne ve lo disgiungeva a guisa di vasto fossato;
e chi dal giogo del monte avesse avuto in animo di calare alla volta del
Castello, dopo essere disceso a grave stento per la precipitosa e nuda
balza, giuntovi dappresso trovava quell'insuperabile ostacolo del
taglio, ove chi fosse stato sì ardito e fortunato da scendervi illeso
trovava il fondo ghermito di triboli, punte e lame taglienti, e vedeasi
di fronte la rupe inaccessibile, e su quella la muraglia del Castello,
da cui scagliavasi per appositi pertugi una grandine di palle e di
saette a recare inevitabil morte. Le torri, le mura, i baluardi andavano
orlati di merli, e forati da lunghi ordini di feritoie e di balestriere:
in molti siti vedevansi le muraglie guarnite di grosse pietre tagliate a
tetragoni, ov'era il posto delle artiglierie, poichè fra i castelli
italiani fu l'uno de' primi quel di Musso ad aversi ne' suoi valli
costrutte le ballatoie per le colubrine e le bombarde. Sopra una torre
d'ogni forte stava inalberata una bandiera coll'armi del Castellano, e
sull'alto della torre più elevata di tutto il Castello sventolava il
grande stendardo Mediceo che portava per insegna tre palle d'oro in
campo rosso.
Tal era il prospetto generale che di quel Castello si offriva a chi il
guardava da lungi sul lago, dai monti o dalla sottoposta via; ma quelli
che venivano considerando da vicino e partitamente le sue quattro rocche
sui diversi spaldi innalzate, discernevano agevolmente quanto l'aspetto
di ciascuna fosse dall'altro svariato. Il più antico di que' guerreschi
edificii era il secondo, procedendo dall'alto, le cui mura più brune, e
più dell'altre semplicemente erette, ne attestavano a chiare note la
vetustà. Ma chi ne avea poste le fondamenta? Erano dessi stati i Galli,
i Romani, o gli aborigeni Lariensi? Ciò si asconde nella notte dei
tempi, e vano per noi sarebbe il tentare di rintracciarne notizia.
All'epoca di cui parliamo erano già scorsi più di otto secoli da che i
Goti ne avevano fatta una Rocca che veniva nomata di San Childerico,
perchè contigua ad essa si erigeva una chiesa sacrata a quel santo Re
del settentrione, e quivi si chiuse nel settecento, protetto dai
valorosi Pievesi, il longobardo Ansprando col figlio del re Liutberto,
per sottrarsi alle persecuzioni del possente Ariberto II, contro cui non
gli valsero gli scogli ed i baluardi di che andava doppiamente munita
l'Isola Comacina. Que' nordici dominatori avevano data all'antica Rocca
di Musso una gotica forma: non s'intende però disegnar con tal nome
quell'architettonica foggia cui peculiare distintivo sono i frastagli,
le gugliette, le statue, i rabeschi, che comunemente col titolo di
Gotica suol indicarsi, e che fu propria d'un'età a noi meno di quella
discosta, ma bensì una maniera semplice e liscia all'intutto, avente
solo qualche grossolano intaglio nelle modanature. La Rocca infatti di
San Childerico presentava un rettangolo non elevato di troppo nè largo,
costrutto interamente di pietre, con fronte piana fiancheggiata da due
quadrate torri cinte di merli a fil di muro, avea quadre le finestre e
la porta, sovra cui s'apriva nel muro una loggia distinta da colonnette
in tre vani, ad ognuno de' quali corrispondeva una picciola porta.
S'ignora come il patrocinio della Chiesa di quella Rocca passasse da San
Childelrico a Santa Eufemia, cui venne dedicata assai prima che il
Medici la possedesse; e mantenne poscia per sempre, poichè fra le tante
mura che rendevano inespugnabile quel luogo, unico quel tempietto rimase
fino a' dì nostri incolume e solitario sulla balza del monte.
È nota la possanza de' Visconti: dal Taro alle Alpi, dal mar Ligure
all'Adriatico tutto fu un giorno soggetto alla loro ducale corona. Non
paghi delle numerose castella che aveano elevate pel piano lombardo,
vollero premunire i poggi, le valli e le coste dei laghi di poderose
fortezze per avervi più certo dominio e difesa. Corenno e Rezzonico
videro allora costrutte le loro torri, e nel 1363 sorse un'altra Rocca,
fatta in brevi anni condurre a compimento da Galeazzo Visconte, sulla
montagna del Castello di Musso, sotto a quella di San Childerico. A
diversità de' primi posseditori di questa, che nell'erigerla non aveano
avuto di mira che di formarsi in essa un riparo, il Visconte
nell'edificare la nuova rocca ebbe in animo di costruire una fortezza
che valesse a tenere in freno i confinanti e i vassalli, e l'innalzò
quindi in una posizione mediana tra l'antica ed il lago, spianando il
pendio ed allargando lo spaldo con approcci di murate e terrapieni.
Quadrangolare era la Rocca Visconti, che avea la maggior parte de' suoi
muri contesti di mattoni: una sol torre le sorgeva nel mezzo dal lato
del monte, nel quale s'apriva la porta con arco di sesto acuto, della
qual forma erano pure le finestre che andavano difese da grosse
ferriate; a metà della torre stava infissa una gran lastra di marmo su
cui scorgevansi a rilievo le spire d'un serpe incoronato col fanciullo
tra' denti, e vedevansi qua e là per le mura scolpiti scudi con insegne
d'aquile e di croci, ritratti di duchi e duchesse, immagini di santi,
tra cui non mancavano quelle di Sant'Ambrogio e di san Giorgio colla
sferza e la lancia.
Situate com'erano quelle due propinque rocche al limitare delle tre
libere pievi di Dongo, Gravedona e Sorico, andarono soggette a numerose
e singolari vicende nel passar che facevano in potere dell'uno e
dell'altro dei signorotti che battagliando s'impossessavano delle vicine
terre. Venute in potere de' Francesi, furono sul finire del 1500 date in
feudo col borgo di Musso al maresciallo Gian Giacomo Triulzo, detto il
Magno, guerriero e duce il più illustre dell'epoca, di cui durerebbe
intatta e limpida la fama, se apporre non gli si dovesse a grave colpa
l'aver capitanate armi straniere a danno della propria patria,
riducendola a doloroso partito; e di tale obbrobriosa azione ebbe
condegna pena gli ultimi anni di sua vita, nei tanti contrassegni di
noncuranza e di sprezzo che ricevette alla Corte del gallico re
Francesco primo.
A' tempi del maresciallo Triulzo il formidabile ritrovato delle
artiglierie diffusosi tra le principali nazioni, abbenchè imperfetto e
in molte sue parti difettoso, aveva cangiato d'assai il modo dei
combattimenti, e prodotte considerevoli innovazioni nell'arte del
fortificare, arte che fu necessitata a totalmente differire da quella
adoperata allorquando non s'adoperavano ad atterrare le mura che arieti
e catapulte, e nelle pugne non venivano lanciati che sassi e dardi.
Divenuto adunque il Triulzo feudatario di Musso e delle sue Rocche,
pensò ridurle a tale che valessero a sostenere gli assalti di quelle
recenti armi fulminatrici; alzò a tal fine al di sotto di esse, poco
discosto dal lago, un baluardo di grosse mura coi valli atti a sostenere
lungo tutta la fronte le artiglierie, e questo serviva di scarpa, diremo
così, al Castello; ai lati di quel baluardo tracciò due linee di mura
che salendo paralelle pel monte venivano includendo la Rocca Visconti e
quella di Sant'Eufemia ad un forte di cui egli piantò le basi, e che
esser dovea assai più di quelle spazioso. Ma fosse predilezione ed
interesse pel suo Marchesato di Vigevano e per la Signoria di Musocco,
fossero le gravi cure delle faccende politiche e guerresche, il Triulzo
non badò a dar compimento alle ideate ed intraprese opere intorno al
Castello di Musso, non tenendo di quel Borgo a cuore altro che la zecca,
i di cui scudi d'oro e d'argento, detti del Sole, ebbero corso e furono
ricercati per tutta Europa.
Erano le edificazioni in tal punto quando giunse sul Lago, nel suo primo
vigore giovanile, Gian Giacomo Medici, volgendo l'anno 1516. Salvatosi
colla fuga da Milano, ove avea troppo prestamente trattato con successo
le armi, si collegò cogli altri suoi concittadini che esuli al par di
lui traevano la vita a ventura: fatto loro capo, per l'ardimento,
l'intrepidezza, la sagacità sua somma, condusse le più arrischiate
imprese combattendo contro i Francesi, i Grigioni ed i Valtellinesi: e
contribuì non poco al ritorno degli Sforza in Milano ed alla gran
vittoria di Pavia riportata dalle armi imperiali. La prima volta ch'ebbe
veduto il Castello di Musso, colpito dall'imponente sua posizione e
dalle sue numerose fortificazioni, gli nacque pensiero d'impadronirsene,
e di fermar quivi la sede del suo comando. Guerreggiava in quel tempo a
sostegno delle parti de' Ducali e degli Spagnuoli contro i soldati di
Francia, una squadra dei quali occupava il Castello di Musso: ei gli
assalì, li vinse, gli scacciò; prese possesso delle Rocche e vi si
stabilì colle sue bande armate. In premio di tal fatto il duca Sforza e
il De Leyva, generale di Carlo V, il proclamarono Castellano di Musso.
Proseguendo la guerra contro i Grigioni, le sorti si volsero, ed ei fu
vinto ed assediato da loro nel proprio Castello. Stretto d'assedio e
condotto agli estremi attese in vano soccorso dai Ducali, a favore dei
quali egli aveva tanto operato. Pieno di sdegno per questo mancato
aiuto, ch'ei considerò tradimento (a cui memoria ed odio fece nel
Castello stampare monete di cuoio coll'impronta d'una _F_ spezzata colla
leggenda _fracta fides_), liberatosi dall'assedio degli Svizzeri,
dichiarossi indipendente e nemico del Duca, facendosi dominatore
assoluto della parte superiore del lago, stendendo il suo comando a
Lecco ed a molte altre Terre in Valtellina, in Valassina ed in Brianza.
Resosi così potente signore, fece condurre a termine le opere del
Castello cominciate dal Triulzo: ordinò s'aprisse il gran taglio nel
monte sopra ad esso: ingrandì e rafforzò le mura, ristaurò le Rocche e
il baluardo: costrusse il molo del porto che cinse di forti muraglie,
eresse la gran porta sotto cui passava la strada, e diede in somma a
tutte quelle fortificazioni la grandiosa forma che presentavano nel
momento a cui si riferisce il nostro racconto.
Pochi istanti prima che Gabriele con Falco e il Cancelliere s'avviassero
al Castello, una barca venuta rapidamente dall'altra sponda del lago, e
colà approdata, mise a terra un valletto di Luca Porrino capitano della
Rocca di Corenno, il quale richiese d'essere immediatamente guidato dal
Castellano. Tale frettoloso messaggio fece supporre ai soldati ed ai
rematori, che stavano oziando sparsi qua e là presso le mura del porto,
che fosse accaduto qualche importante avvenimento. Spinti per ciò dalla
curiosità, si raccolsero intorno ai due uomini che avevano condotto
nella barca il valletto, e seppero ben tosto che desso era venuto a
recare a Gian Giacomo la novella che Gabriele e Maestro Lucio erano
caduti nelle mani dei Ducali, siccome notizia giunta a Corenno da
brevissimo tempo. Ad un tratto quella nuova si diffuse per tutto: i
soldati già attendevano desiderosi il comando di partire, i rematori
accorrevano al porto, e si disponevano nelle navi, animati gli uni e gli
altri dalla brama di recarsi a liberare quel loro giovine capitano,
quando egli stesso coi due suaccennati compagni arrivò appunto alla gran
porta presso l'ingresso del Castello. I soldati e gli altri tutti che
quivi trovavansi, maravigliati non poco nel vederlo comparire,
fattiglisi incontro, si schierarono sul suo passaggio salutandolo
rispettosamente, e rallegrandosi poscia tra loro tumultuosamente che
falsa fosse la voce di sua prigionia, schernendo e ingiuriando i
barcaiuoli di Corenno che l'avevano propagata.
Intanto Gabriele, Falco e il Cancelliere, passando sotto oscura vôlta e
salendo un'angusta scala, erano entrati nella stanza delle guardie ove
vedevasi una lunga fila d'archibugi a ruota appoggiati alle pareti,
colle miccie accese, e vi stavano sempre uomini d'armi seduti intorno a
rozze tavole a giuocare od a novellare bevendo. Di là per un'altra scala
praticata nella spessezza del muro riuscirono ad una picciola spianata
superiore a quella prima fortificazione ch'era il baluardo fatto erigere
dal Triulzo, e che chiamavasi allora _la Casa del Maresciallo_. Così di
scala in scala, le quali scorgevansi o cavate nel masso, o su quello
costruite, ascesero alla Rocca de' Visconti, che appellavano la _Torre
del Biscione_, e da questa alla Rocca di Sant'Eufemia.
Quando stavano per porre il piede sull'ultima gradinata, che si era
quella che adduceva al più alto edifizio detto _il Forte del Medici_ o
del _Castellano_, videro uscirne tre personaggi che alle vesti
mostravansi capitani, i quali seguiti da altri molti, si diedero a
calare correndo al basso. Gabriele e Maestro Lucio conobbero ben tosto
che l'un d'essi era il Borserio comandante l'antiguardo della flotta, e
gli altri il Negro e Pirro Rumo capitani di navi; presumendo che
scendessero per qualche premurosa fazione navale, li attesero allo
spaldo onde non recar loro inciampo mettendosi per le scale che
ristrette erano. Disceso che si fu alquanti gradi il Borserio, s'avvide
d'essi loro, e raffiguratili, fermossi d'un tratto, alzò le braccia
cogli indici stesi verso di essi, ed "Ecco, gridò, ecco Gabriele e il
signor Cancelliere, essi medesimi in persona tornati sani e salvi al
Castello. Come adunque ci si vien dicendo che gli Spagnuoli gli
agguatarono e li presero? non hanno dessi in compagnia Falco di Nesso?
egli è ben lui quel del berretto di rete e del moschetto. Salite, salite
(e così gridando con maggior forza li salutò delle mani), venivamo a
ricercar di voi, giacchè volevano farci credere che foste dati nel
laccio della gente di là giù, e ve ne andaste seco loro stretti alla
catena?"
"È pur vero, rispose Gabriele montandogli all'incontro, v'avevamo
incappato, ma vi fu chi tagliò il nodo e ci rese libero il corso a
ritornarcene a Musso".
"Mai sì, che s'aspettavamo che veniste voi a scioglierci dalla ragna,
disse Maestro Lucio, stavamo freschi! ci traevano a loro posta gli
occhi, il sangue, la pelle e giungevate in tempo come il soccorso di
Pisa!"
Sfilarono di comitiva su per le scale, chiamandosi e rispondendosi l'un
l'altro del modo in cui era ita la cosa, e pria che pervenissero al
Forte, scorsero nuovamente uscir frettolosi da quello due altri capitani
col valletto di Luca Porrino, ed erano il Mandello e il Pellicione;
questo, veduti i primi che retrocedevano, arrestatosi: "Che il malanno
vi colga! esclamò con ira. Perchè non siete ancora nelle vostre barche?
Qual diavolo vi porta indietro?" "È qui il signor Gabriele; è qui il
Cancelliere", ripeterono più voci. "Oh che siano i ben venuti! ma per la
spada di san Michele! (era il suo intercalare) come va questa faccenda?
o tu hai mentito per la gola, disse rivolto al valletto, o Luca Porrino
era più briaco del consueto quando ti ha spedito. Dimmi tosto il vero, o
per..." "Che vale lo spaventare questo ragazzo, l'interruppe
placidamente il Mandello: essi son giunti, nè serve cercar più oltre;
ritorniamo tosto a renderne avvertito il signor Castellano".
La porta del Forte rimanevasi sempre aperta, non necessitando quivi gran
cautela di difesa, poichè non pervenivano colà che gli abitanti del
Castello, o le persone che erano già state alle altre porte
riconosciute: ciò non pertanto andava dessa munita di pesante
saracinesca, tenuta sospesa da grosse catene di cui vedevasi il
battitoio nell'imposta: stavano su quella a continua guardia quattro
uomini d'armi coperti di tutta armatura colla lancia e lo scudo; al
passare dei rientranti Capitani in compagnia di Gabriele quelli posarono
le lancie al suolo, portando lo scudo al petto, e questi resero il
militare saluto.
Attraversato un porticato, entrarono nella parte dell'edificio abitata
da Gian Giacomo. Le stanze non ne erano nè eleganti, nè adorne di ricche
mobiglie: le principali avevano appesi alle pareti alcuni ampii e vecchi
quadri, su cui stavan dipinte battaglie, o ritratti di prelati e di
guerrieri ch'erano gli antenati de' Visconti o del Triulzo, poichè il
Medici non s'era curato di possederne de' proprii: le tavole e le
scranne erano di legno foggiate all'antica e coperte di cuoio.
Per quelle camere vedevasi una folla di persone d'ogni grado, sì civili
che addette alla milizia, notai, magistrati, uomini di chiesa, i quali
tutti stavano in aspettazione d'essere introdotti dal Castellano onde
esporgli le proprie bisogna e chiamarne provvedimento. Sull'entrata
della sala ove Gian Giacomo dava udienza a' suoi vassalli, vedevansi due
sergenti d'armi, armati di corazza e di picca, che rattenevano
l'affluente moltitudine. Allorquando giunse colà il valletto venuto
messaggiero da Corenno, era stato agli aspettanti dato avviso che alcun
più non s'avanzasse sinchè non ne ricevessero nuovo ordine. Molti a tal
cenno partirono, e gli altri, fatti dall'impazienza e dalla curiosità
fra loro amici, si riunirono in piccioli crocchii ragionando e
fantasticando in cento guise.
"State a vedere (diceva un mercante di drappi Bergamasco venuto a
chiedere la diminuzione delle gabelle imposte sulla propria merce,
trattosi nel vano d'una finestra accanto ad un curiale, ad un frate e ad
uno schioppettiero Mussiano), state a vedere che i fabbricanti di
Chiavenna mandano ad offrire una gran somma al signor Medici onde faccia
chiudere il passo ai panni delle nostre gualchiere: cercano ogni mezzo
per ruinarci, se non basta la guerra a trarci in miseria; le pescano
tutte per farci del male: ormai un povero mercante non sa più come
tenersi in piedi".
"No, no, no, rispondeva gravemente il Frate, quel corriere mostrava in
volto troppo turbamento, per essere un messo di buon augurio; io lo
direi portatore dell'annunzio di qualche sconfitta data dai Ducali agli
uomini di Monguzzo o di Lecco".
"Se ciò fosse, pronunciava il Curiale alzando la destra in aria di
disputa, son di parere che sarebbesi ricevuto previamente l'avviso della
battaglia, o per lo meno da quelli che vennero questa mane da que' paesi
se ne avrebbero avute notizie; ma ciò non avvenne, dunque (e fece un
inchino) _nego suppositum, illustrissimi domini_". Lo Schioppettiero
sorrideva lisciandosi le basette, e incrocicchiando le braccia zufolava
leggiermente.
Mentre tenevansi tali e consimili discorsi, si pervenne a sapere di che
realmente trattavasi, arguendolo da alcune tronche parole pronunciate
dai capitani nell'attraversare che fecero frettolosi quelle stanze per
partire. Nacque subito allora un bisbigliarsi all'orecchio, un ragionare
sommesso: si dedussero variatissime conseguenze secondo la diversità
degli interessi: chi condolevasi apertamente, chi rallegravasi in
secreto con motti e accennamenti, a norma degli affetti e del partito
che predileggeva. Ma il contento e il dolore cagionati dalla creduta
sventura di Gabriele ebbero cortissima durata; poichè un momento dopo
che se ne fu disseminata la voce, ivi giunse egli stesso seguíto dai
duci, da Falco e dal Cancelliere. Ognuno li mirò stupito; e quando
spalancatosi la porta della gran sala vi fu cogli altri entrato, tutti
se ne partirono, e scendendo dalle scale schiamazzavano ridendo o
gridando per ispiegare il fatto.
Ultimo e solo Arrighetto, il messo di Luca Porrino, calava dal Forte
indispettito e mortificato come uomo colto in menzogna; sebbene nel
recar l'ambasciata non avesse che eseguito un comando, pure provava
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