Falco della rupe; O, La guerra di Musso - 09

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fabbricati, tra cui spiccavano le chiese, i conventi, la zecca,
l'arsenale, e le torri che munivano il ponte sul Carlazzo. Nel colle ad
essa superiore vedevansi Croda, Terza, Campagnano, sparse fra altre
picciole Terre, e più sull'alto nel monte distinguevansi la Bocca di
San-Bernardo e le punte di Palù. Lasciando poscia scorrere la vista su
quella costiera di mezzodì, miravasi il suo lembo variamente
frastagliato dalle acque, ed i poggi e i valloni ricchi di selve,
d'ulivi e di verdi pascoli succedersi gradatamente sin là ove si
nascondevano all'occhio dietro il dosso del monte che s'avanza formando
la punta di Rezzonico, del di cui antico e già potente Castello le torri
e le mura distintamente apparivano.
Di là lo sguardo balzava al lontano colle di Bellagio, che posto
all'estremità della Valle-Assina forma capo a due laghi: la tinta aerea
di quel promontorio bene ne indicava la distanza, che andava sempre
crescendo se spingevasi l'occhio pel lago di Lecco, alla cui destra
distinguevansi tra i monti le sommità di quello di Canzo, che hanno
sembianza di corna, ed alla sinistra la giallo-rossiccia Grinta di
Mandello tutta nuda e scoscesa montagna. Compiendo il gran cerchio,
ritornando coll'occhio ai Legnoni, si scorgeva tutta l'opposta sponda
dritta e bruna per balze selvose: e vedevansi in essa Varenna, prossimo
a cui da misteriosa grotta scaturisce il fiume Latte, Bellano, Dervio
che s'alza su un largo verdeggiante piano generato dall'impetuoso
Varrone, e finalmente Corenno, sulla torre della cui Rocca stava pure
inalberata la Medicea bandiera.
Toltosi alle brighe soldatesche, al favellare importuno de' suoi
compagni d'armi, Gabriele, solitario e pensoso s'aggirava sul finir del
giorno pei porticati ed i cortili del Castello sperando trovare nelle
illusioni dell'immaginativa la calma a quel tenero e doloroso pensiero
che costantemente il martellava e da cui aveva in vano sperato sollievo
nelle distrazioni dei consueti esercizii. Venuto nel Forte Gian Giacomo,
e giunto a piè della torre, pensò salire sul baluardo per sottrarsi vie
meglio alle ricerche, alle noiose inchieste dei capitani ed agli sguardi
d'ognuno: asceso a lenti passi la spirale scalea della torre, entrò
curvandosi per l'andito aperto nello spessore del muro ch'era la
picciola quadrata porta, e spingendo la ruvida imposta che la chiudeva,
uscì sul baluardo, dove andò tosto ad assidersi sul rialzo della
casamatta d'appresso alle feritoie. Il vasto magnifico prospetto che di
là dispiegossi ai suoi sguardi, occupò per un istante tutto il suo
spirito, attenuandovi l'assidua presenza di quell'immagine che mai
noll'abbandonava, e gli infuse in cuore un trasporto, un aumento di
vigore e di vita che le grandi scene della Natura non tralasciano mai di
produrre in un'anima appassionata che serba intatta e pura la vivida
tempra di giovinezza.
Il colore roseo ardente di cui si riveste il cielo negli estivi tramonti
splendeva quel giorno di tutta nitidezza e sfulgore essendo l'aria d'un
purissimo sereno. I monti e le valli di quel circolo spazioso dipinti da
un'aurea porporina luce riflessa nelle acque, fulgide esse pure come la
vôlta del cielo, s'avevano un così vago, un non so quale incantevole
aspetto, che traeva a mirarli con sentimento di gioia e di secreta
riconoscenza, quasi si sentisse che una mano creatrice e benefica avesse
preparato quel quadro sublime onde offrirlo a diletto dello sguardo
dell'uomo. L'occhio di Gabriele vagava dai monti alle acque, da queste
al cielo, e l'anima sua era compresa a quella vista da una piena e
indefinibile delizia.
Ma quella lucentezza dell'aria, quel lusso di raggi brillanti e di
colori pari in ciò ai contenti della vita, s'andava rapidamente
attenuando; e mano mano che le ombre dei monti vicini si estendevano,
che offuscavansi i lontani, che la porpora del cielo tramutavasi morendo
in un bruno cilestre, nel cuore di Gabriele svaniva quel senso di
felicità di cui era stato per varii istanti penetrato, e vi tornava a
risorgere più vibrato e affannoso il primitivo pensiero. Allorquando
intera oscurità coverse le montagne e i colli, ed abbrunissi il lago, nè
altro apparve distinto in nere forme a' suoi occhi che le mura e le
torri della sottoposta Fortezza, vi lasciò cadere mesto uno sguardo,
indi piegò addolorato il capo tra le palme e sospirando tutto s'ingolfò
ne' proprii pensamenti.
Nessun moto del cuore è sì espansivo, nessuno impelle sì forte l'anima a
diffondersi quanto quello dell'ammirazione che nasce alla vista del
bello profondamente sentito. Lo spirito invaso da una ideale armonia si
desta spontaneo ad un inno di gioia, che a molti è dato internamente
sentire, al solo genio concesso l'esprimere; guai però se nell'ebbrezza
dell'animo commosso s'affronta la convinzione che in niun petto un cuore
è partecipe alle vibrazioni del nostro, che muto all'altrui mente è il
nostro tripudio, e si esala e svanisce inconsiderato come una voce
melodiosa nella solitudine! allora il senso d'un cupo isolamento ricade
su di noi, ci tormenta, ci opprime, e non v'ha refrigerio allo spirito
se non nell'incontrare la traccia d'un oggetto cui sia cara la nostra
sorte, ed a cui tutto riferire quanto v'è di prezioso nella nostra
esistenza.
Tale era stato il giro delle idee di Gabriele, e quando chinata la testa
rimase immobile nella massima concentrazione, era pervenuto appunto
all'investigare se quell'oggetto a cui unicamente teneva rivolto il
pensiero, quello da cui solo bramava un ritorno d'affetti, quello che
aveva per lui dato un prezzo pria ignoto alla vita, e che stimava unica
e straordinaria fra le creature, sentisse per lui verace e fervoroso
interessamento. Nuovo però ed inesperto com'era nei nodi d'amore,
passava colla fantasia per cento chimere, senza saper trovare ove
potesse posarsi per dedurre con fiducia una speranza, ma pure incalzato
dal bisogno di dare a se stesso una positiva risposta:
"Chi son io per lei? (diceva tristamente tra se stesso) Come posso
credere d'averle cagionato ciò ch'ella produsse in me, se quello che io
provo non fummi destato mai da altra persona fuorchè da lei sola? Dunque
ella sola può operare sì maraviglioso prodigio: sperare d'aver causato
in lei un simigliante effetto sarebbe una vanità sconsigliata. Quante
donne non vidi, quante non mi guardarono? Eppure chi mai fu a' miei
occhi che pareggiasse costei, questa semplice montanina di celeste
sembiante, che certo gli angeli del paradiso non ponno averne un più
dolce e leggiadro? E le sue pupille! oh ch'io non vi pensi! un tremito,
un ardore mi scorre dalla testa ai piedi se mi rammento i suoi occhi.
Qual forza irresistibile sta in essi! che sia una malía, una potenza
sovrumana per consumare la vita di chi li affisa? No che sì stupenda
bellezza, una tale soavissima fiamma, non può essere l'opera d'arti
infernali? e se ben anco fosse un incanto, vi struggerei volenteroso
tutti i miei giorni. Ah con qual forza io sento che vorrei essere
davanti al suo pensiero così come essa lo è incessantemente al mio e
vorrei ch'ella sapesse quanto io provo per lei, quanto desio mi arde di
mirarla, di vagheggiarla, di pendere da null'altro che da' suoi sguardi,
dalle sue parole! Oh s'io vivessi sempre nella sua capanna, se la
seguissi pe' suoi monti, mi stassi ognora al suo fianco... se le
esprimessi... e se ella.. cielo!... qual gioia!"--Fu sì forte la sua
esaltazione a tal pensiero e il suo immaginare sì vivo, che invaso da un
trasporto d'amore, balzò in piedi quasi se Rina gli stesse realmente
d'accanto: ma ritornato in se ad un tratto lasciò cadere rattristito le
braccia, e s'assise meditabondo di nuovo.
Trasparente, leggiero come il velo d'un aereo spirto una nuvoletta che
s'andava argentando, annunziò il sorgere della luna, che, senza
ecclissare alcuno degli astri, in mezzo ad una sfera di pallida luce
spuntò col falcato disco sul nero ciglione degli opposti monti. Gabriele
mirò quel candido lume del cielo con occhio di tenerezza, quasi fosse
sorto ad arrecargli conforto e speranza, ed a lenire l'ardore che
l'infiammava colla soavità del suo mite splendore; ma poco stette che
anche quella luce gli parlò al cuore di Rina, e "No, esclamò con
affanno, no, io non vedrolla forse mai più:, e se pur la vedessi, come
mai farla mia? Il vorrebbe Gian Giacomo, l'assentirebbero gli altri
parenti miei? Ebbene, se, essi si oppongono a tale mia brama, che mi
veggano ben tosto morire. O Rina, o morte. Ecco il voto ch'io pronuncio
invocando i santi del cielo, di cui voi, o lucenti pianeti, adornate la
soglia. Sì, lo ripeto: o Rina o morte: e questo mio voto fia sacro come
se il pronunciassi innanzi al più miracoloso degli altari".
Come avviene egli mai che l'amore, il quale dir si può l'eccesso della
vita, faccia volgere sì agevolmente lo spirito all'idea del morire? Come
mai l'anima, anzichè venire atterrita dall'idea del passaggio dal più
profondo sentire all'assoluta quiete della tomba, la sospira e la brama?
Noi non osiamo investigarne la causa, ma qualunque essa sia, fatto è che
Gabriele fu condotto rapidamente dalla propria fantasia ad abbracciare
come rimedio estremo all'amor suo, se stato fosse sventurato, la morte,
e proferendone il voto, sentissi ringagliardire, e fatto maggior di se
stesso, aumentarsi in petto la speme.
Dopo avere così lungamente vaneggiato in amorosi delirii ora piegando a
placidi consigli, ora ad estremi rimedii avvisando, guardò la luna che
salita a mezzo il cielo annunziava essere già inoltrata la notte, e
pensò di là discendere per ritrarsi in sua stanza a riposo, onde,
alzatosi, entrò nella porta quadrata della torre per calare da essa al
basso; Nel momento però che stava per porre il piede sul primo gradino,
udì al fondo della scala lieve rumore di pedate ascendenti, e travide un
lucore debolissimo come di lanterna Coperta da mano o da altro
impedimento. Egli non potendo scorgere chi fosse che su venisse perchè
nel rimanente quell'interno della torre era oscurissimo, non vedendovisi
che alle sommità un barlume di luna che penetrava da ristrette fenditure
del muro, retrocesse di nuovo sul baluardo onde evitare uno scontro con
chi saliva fra quelle tenebre, che dar potesse luogo a sospetto o ad
allarme, poichè suppose si fossero soldati che salissero a far la scôlta
sul bastione medesimo. Retrocesso che si fu per ischivare eziandio di
mostrarsi improvvisamente al loro uscire dalla torre, si ritrasse a
qualche distanza di là, e oltrepassando il rialzo che copriva la
casamatta, ed ove era stato pria seduto, si pose ad una diecina di passi
lontano appoggiandosi ai merli che guarnivano il muro in vista d'uomo
che stesse quivi oziando a rinfrescarsi all'aria notturna.
Le pedate s'andavano facendo più distinte e indicavano al rumore
d'essere di più persone, l'una delle quali apparve al fine sul limitare
della quadrata apertura: era quegli che recava la lanterna. Porse in
avanti il capo pria di mettersi fuori del tutto, e portando la lanterna
all'altezza del volto spiò d'intorno con sospetto; ma non s'accorgendo
di Gabriele, uscì francamente dalla torre. Appena ebbe posto piede sul
baluardo, e venne rischiarato per intero dal chiaro della luna che quivi
batteva, Gabriele mirandolo attentamente s'avvide con istupore al suo
vestimento che non era un soldato, nè altro uomo del Castello a lui
noto: a tal vista immediatamente appiattossi traendosi tutto entro
l'ombra fitta del rialzo merlato onde attendere e scoprire a che e con
chi fosse quivi venuto quello straniero. Questo chiuse la lanterna di
maniera che non mandava affatto più lume, la posò al suolo e si rivolse
poscia alla porticella della torre accennando colla mano agli altri che
s'avanzassero: ne comparve uno ben tosto ed uscì traendo per mano un
altro che era pur tenuto da un terzo.
Guardinghi e cauti si fecero avanti anche questi appressandosi al primo;
e quale non fu la sorpresa di Gabriele riconoscendo nella persona che
stava di mezzo agli ultimi venuti, il Cancelliere Maestro Lucio
Tanaglia: volea levarsi, farsi palese, e chiedere ad esso lui, come e
perchè fosse salito a quell'ora insolita sulla muraglia, e di qual parte
venissero quegli uomini che seco erano; ma quatto ristette senza
moversi, udendo in tal punto lo stesso Tanaglia pronunciare tremando a
mezza voce queste parole: _Benedetta gente, perchè trattare così con un
galantuomo... con un vostro Milanese... con uno che cercava di farvi del
bene...--Taci_, dissero ad una voce, ma pianissimo, quei tre--_Ma
signore Iddio_, riprese Maestro Lucio un po' più forte, _voi volete
veramente...--Zitto, o mori_: ripeterono gli altri più piano alzando tre
pugnali. Maestro Lucio si contorse e tacque. Quello ch'era salito
innanzi agli altri, s'accostò al rialzo della casamatta, vi si mise
carpone d'appresso, e andò tastando e percuotendo leggermente il terreno
tutto d'intorno col pomo dello stile sinchè sentì rimbombarsi di sotto
un suono di cavità. _È questa l'entrata della scala secreta?_ chiese
allora con bassi accenti rivolto a Maestro Lucio; ma desso parve non
intenderlo e continuò a tacere: i due che gli stavano a fianco,
squassandolo per le braccia, gli dissero all'orecchio: _Rispondi.--Io
non so niente_, esclamò con voce alta Tanaglia:--_Piano: rispondi, o
mori_; e gli appuntarono i pugnali alla gola: _Oh povero di me, cosa
volete ch'io sappia? ahi... ahi... è quella... è quella...--Silenzio e
queto_: disse l'uno serrandolo più strettamente pel braccio ed
abbassando il pugnale, e l'altro l'abbandonò e si mise a terra presso il
primo. Sgrettolando il suolo e puntando insieme col ferro degli stili ed
una squarcina che s'avevano, sospendendo il lavoro quando udivano il
legno scricchiolare troppo forte, giunsero a scassinare una tavola, e
levandola, vedendovi sotto un vano tondo e nero come di pozzo: _Ci
siamo_, dissero tra loro; e l'uno, alzatosi, riprese la lanterna, e
scoprendone il lume, si mise in ginocchio presso quel buco, e ve la
internò spingendovi la testa: _Ih ih_, disse al compagno, _che scala
lunga? non vi si vede il fondo: ma tanto fa: tu scenderai pel primo,
dietro a te Tanaglia, poi ci verrò io, che ci terrò la punta alla pelle
per farlo parlare: esso ci deve additare i passaggi e la porta: se
questa è aperta, entra, e, ricordati, colpo alla testa perchè potrebbe
essersi coricato col giacco di maglia; se è chiusa, il Cancelliere
gliela farà aprire, e allora l'assaliremo in due: Gorano starà intanto
qui sopra a guardia per tenere libera l'uscita di questa scala: presto
all'opera che il tempo c'incalza._ Appena ebbe desso ciò detto, si
rialzò, fece accostare il compagno che teneva afferrato Maestro Lucio,
il quale continuava a fare strani motti col capo, e mentre l'altro si
calava a mezza persona giù pe' gradini della scala della casamatta,
ridestò il lucignolo della lanterna, il cui chiarore languiva e stava
appunto per consegnarla al primo già disceso, quando Gabriele, che dal
luogo ove stava nascosto, aveva perfettamente veduto ed udito ogni cosa,
non dubitando che l'intrapresa di quei tre fosse diretta all'assassinio
del fratello Gian Giacomo, acciecato dallo sdegno, nè potendosi più
oltre frenare, non badando a periglio, tratta rapidamente la spada,
scagliossi come folgore addosso a loro gridando a tutta gola:
"Traditori, siete morti".
Il primo ch'esso investì fu quello che ratteneva il Cancelliere, e il
trapassò sì giusto col ferro, che cadde morto di piombo. Balzò tosto
contro il secondo, che, esterrefatto a quell'assalto improvviso,
indietreggiò d'un passo, lasciandosi cadere ai piedi la lanterna che si
spense: Gabriele nello stesso istante aveva mirato un colpo a quegli che
era calato giù colla metà del corpo nel pertugio, ma gli andò fallito a
causa dell'abbagliamento che gli produsse alla vista la lanterna nel
cadere, nè ebbe campo di misurargli il secondo, perchè l'altro ch'era in
piedi al di fuori, gli si gettò alla persona furibondo col pugnale nella
sinistra e la squarcina nella destra: Gabriele difendevasi da costui
valorosamente, anzi l'andava incalzando, ma l'altro, che s'era tratto
fuori dalla casamatta, gli si precipitò di fianco, per il che a lui
rimase tempo appena ruotando la spada con una velocità ed una forza
incredibile di riparare gli opposti colpi che gli venivano tirati da
fianco, e dovette rinculando appoggiarsi di schiena al muro della torre,
ove all'incerto lume della luna ribatteva i disperati assalti di que'
furiosi che vedevano non esservi per loro altro scampo che
nell'ucciderlo.
Nel frattempo Maestro Lucio, che appena s'era sentito sciolto il
braccio, senza pur guardare da che lato venisse il soccorso, s'era dato
a gambe pel baluardo, andava gridando a tutto potere: "Ai nemici... Al
tradimento... Agli assassini"; le voci clamorose di lui, quella di
Gabriele, il suono dei ferri che si percotevano, destarono le guardie
del Forte, che abituate da qualche mese in quella elevata parte del
castello ad una inalterata notturna quiete, non vigilavano col dovuto
rigore ai loro posti, nè ponevano le ordinanze ad esatta fazione: in un
momento si sparse l'allarme, i tamburi sonarono a stormo, e gli uomini
d'armi ed i Capitani accorsero in folla nel cortile. Primo fra questi fu
il Pellicione che, discinto e coi capegli scarmigliati, balzato dal
letto, discese impugnando la sua lunga spada, ed a capo d'un drappello
di guardie munite di fiaccole e d'archibugi salì rapidamente per la
scala della torre al baluardo. Vi ascesero ben tosto da diverse parti
anche Alvarez Carazon, Sarbelloni e il Bologna con molti altri soldati
provveduti di lumi e d'armi. In pochi istanti si videro sbucciare dalla
torre le guardie, e venire gli altri uomini accorrendo colle fiaccole,
distendendosi in lunga fila per le mura. L'uno dei due che stava
combattendo con Gabriele, allorchè udì accorrere uomini, gettò il ferro
e corse per scagliarsi dall'alto della muraglia, ma balzato in quel
mentre fuori dalla torre il Pellicione, il raggiunse gridando "Per la
spada di san Michele, prendi questa" e con un colpo d'impugnatura nelle
tempia il fece precipitare al suolo tramortito e grondante di sangue;
l'altro, più fiero e vigoroso, benchè circondato da gran numero di
uomini d'armi, si difese disperatamente, sino a che vedendosi
accerchiato e stretto da ogni parte, ed accorgendosi di non potere più a
lungo resistere, si mirò al cuore una pugnalata; ma preso in alto il suo
braccio, venne distolto il colpo, e cento mani che gli caddero addosso
lo strascinarono a terra, da dove in vano tentò si dibattendo di
sollevarsi.
Intanto da tutti gli spaldi s'era accuratamente guardato se vi fossero
nemici sotto le mura o nei luoghi e pei monti vicini, s'era osservato se
vi stessero scale od insidie presso il Castello, ma non s'era veduto
ombra d'uomo: tutto era tranquillo, nè udivasi quasi un movere di
foglia. Fatte per ciò ricollocare le guardie ai primi posti, i Capitani
s'affrettarono parte intorno al Cancelliere, e parte presso Gabriele
onde udire come mai fosse nato quell'avvenimento. Ma Maestro Tanaglia,
pallido, tremante e contraffatto, piegando il capo alternativamente ed
allargando le braccia, non sapeva altro dire con affannosa voce se non
che "Le capitano a me... sono pure un uomo sfortunato!... tre Milanesi
costringermi a forza ad essere complice in un fatto simile!... a
rischio... oh! ma, mi credano, io sono innocente... povero Tanaglia!
povero Tanaglia!" Gabriele all'incontro, non agitato ed alterato se non
quanto l'ira e la foga del sostenuto combattimento necessariamente il
volevano, appoggiato alla propria spada, narrò succintamente tutto
l'occorso, dicendo però d'ignorare affatto, come era il vero, chi si
fossero quei tre, come penetrati nel Castello, e in qual modo colà
venuti. I Capitani rimasero maravigliati e confusi a quella narrazione
al pari di lui. Il Pellicione comandò ad alcuni soldati che prendessero
sulle spalle quell'ucciso e quello che giaceva tramortito, e giù se li
portassero dal baluardo recandoli nella sala della _Quistione_, che era
dove si giudicavano dal Castellano tutti i rei di gravi delitti, ed
ordinò che quivi pure si conducesse quel terzo preso vivo e sano. Così
fu fatto. In un momento venne sgombrato il baluardo, spente le fiaccole,
mandato ordine alle Rocche ed al Porto, ove quel rumore nato nel Forte
aveva eccitato un generale movimento, che tutti si rimanessero ai loro
posti in quiete, ed ogni cosa venne racquetata come era da prima.
Gian Giacomo, al battere de' tamburi sorto dalle coltri, s'era armato
prontamente, e saputo da' suoi sergenti essere causa di quella chiamata
all'armi alcune grida uditesi alle mura, accorreva quivi anch'esso
unitamente ad Agosto suo fratello, a Volfango, al Borserio, al Mandello
venuti tostamente intorno a lui; ma giunto appena a metà del cortile,
s'incontrò nel Pellicione, in Gabriele e ne' soldati che discendevano
recando due uomini a spalla, e tenendone strettamente afferrato un altro
di feroce cipiglio, e coi panni lacerati e sanguinosi. Subito che ebbe
udito in brevi parole l'accaduto, fu preso tosto da forte sospetto che
quello fosse stato l'esito d'una trama de' suoi nemici, e divenne cupido
oltre modo di scoprire in ogni parte l'arcano per trarne alta vendetta.
S'avviò quindi alla sala della _Quistione_ ove entrarono i principali
Capitani, Gabriele e Maestro Lucio, essendone rimandati i soldati con
ordine di tenere secreto quel fatto e vigilare attentamente alle scolte.
Pria che s'incominciasse il giudizio, vennero quivi sej robusti sgherri,
sbracciati e pronti ad eseguire ad ogni cenno quegli atti atroci che
costituivano parte integrante della penale giustizia di que' tempi, non
solo ne' castelli de' feudatarii e de' piccioli Signori, o piuttosto
tiranni di terre e paesi, ma eziandio nelle città più vaste dei reami e
degli imperii.
La sala della _Quistione_ era un'ampia stanza quadrangolare, la cui
vôlta era sostenuta da grossi e ruvidi pilastri; non avea finestre; solo
vi si vedevano due porte, l'una che da uno stretto corritoio metteva
quivi entro, l'altra, chiusa da grandi spranghe di ferro, che dava
ingresso ad un carcere sotterraneo. Gli arnesi ch'ivi si trovavano erano
una gran lampada che pendeva da un anello fitto nella volta, un tavolo,
una sedia a bracciuoli, altri sedili grossolanamente tagliati, un gran
braciere di ferro per accendervi carboni, catene, corde, randelli e
cavalietti, stromenti tutti che s'usavano per tormentare.
Stesi a terra l'uno accanto all'altro il ferito e l'ucciso, e messo
l'altro in salda annodatura, venne accesa la lampada e collocato sul
tavoliere l'occorrente per iscrivere, al che fare s'accinse il Mandello,
siccome l'uno dei più istrutti; quindi il Castellano, assisosi in mezzo
a' suoi, si fece condurre innanzi quello incatenato, e misuratolo dello
sguardo dalla fronte ai piedi, senza che desso mutasse punto di suo
audace e feroce portamento, gli domandò con voce severa: "Chi sei?" ed
ei rispose: _Sono Marco Spinaferro_.--Di qual luogo?--Milano.--Quando
venisti in questo Castello?--_Ci sono entrato ieri col seguito di quei
signori_ (ed accennò Volfango e Agosto Medici)--Con chi eri tu?--_Con
Ambrosio Bina e Antoniotto Gorano._--Sono quei due colà giacenti?--_Essi
stessi._--Per qual causa sei qui venuto?--_Per ucciderti_", esclamò con
tuono più fermo e con un lampo di rabbia e di minaccia in volto: tutti
fremettero di sdegno, ma il Castellano freddamente proseguì: "Chi t'ha
mandato?--_Nessuno._--Mentisci; tu non mi conoscevi; palesa chi fu
quello che t'ha dato tal ordine?--_Nessuno._--Morirai nei tormenti se
non rispondi il vero: da chi fosti spedito?--_Da nessuno, ripeto_".
Gian Giacomo accennò agli sgherri, e questi attaccarono tosto Spinaferro
alla corda: pria che s'incominciasse la tortura, il Castellano gli
ripetè più volte la richiesta, da chi avesse avuto il comando di
togliergli la vita, ma non ne ottenne alcuna risposta, nè gli squassi e
lo slocamento di tutte le ossa valsero a trargli alito mai dalla bocca
che sordi lamenti. Fu calato dalla corda: e benchè avesse pel tormento
perduto il vigore di reggersi, non gli fu dato che breve riposo, perchè
Gian Giacomo volle in sua presenza assumere tosto ad esame anche il
Cancelliere e Gabriele, onde tentare almeno di venire in chiaro del
fatto.
Eccolo in breve come risultò dalle deposizioni di Maestro Tanaglia, che
ebbe tanta parte a suo mal costo in quell'avvenimento, e che lo stesso
Spinaferro confessò per vero. Entrati che si furono i tre congiurati nel
Castello frammisti ai seguaci de' due ambasciatori di Gian Giacomo,
penetrarono con essi inosservati nel Forte, e vi si tennero celati sino
al principiare della sera. Quando si fu oscurato il giorno, si fecero da
un soldato guidare alle camere di Messer Lucio, che il Bina conosceva di
persona per essergli stato scolare, e sapeva trovarsi in quel Castello
nella qualità di Cancelliere: là pervenuti gli si appalesarono per tre
nobili Milanesi fuggiti dalla patria per la persecuzione degli
Spagnuoli, ed astretti per trovare salvezza a rifuggirsi a Musso, e
circondandolo caldamente lo scongiurarono a volerli quella notte stessa
condurre alla presenza di Gian Giacomo, onde intercedere da lui di
essere ammessi a militare sotto la sua bandiera in qualità di capitani
di ventura. Maestro Tanaglia, al quale riusciva incomoda e disgustosa
quella visita, ed a cui quella pressa sembrò strana e artificiosa,
rifiutossi d'accedere alla loro richiesta, e ciò fece principalmente
perchè temeva gravi rimproveri dal Castellano se avesse osato condurgli
innanzi di notte que' tre stranieri che s'avevano certe faccie sinistre,
che più le andava esaminando, più gli apparivano di cattivo augurio.
Infatti appena ebbe espressa la sua negativa, i tre Milanesi lo
guardarono con tali occhi cagneschi facendo certi atti di secreto
accordo, che desso dovette affrettarsi per calmarli ad addurre come
causa di suo rifiuto che il Castellano soleva in certe ore della notte
recarsi sul baluardo. Allora quei tre gli chiesero che li guidasse ad un
sito ove potessero scontrarsi in lui, ma inosservati, perchè non
volevano che altri s'accorgesse di loro. Tanaglia, affannato di vedersi
incalzato in tal modo, rispose che anche ciò era impossibile perchè il
Medici usciva dalle sue stanze per una secreta porta che s'aveva
comunicazione sotterranea coi baluardi, e che di là rientrava poscia
nelle sue stanze istesse, e guardi il cielo se alcuno avesse ardito
mostrare di conoscerlo quando percorreva da solo notturnamente il Forte
o le Rocche. L'uno di que' tre, e precisamente Spinaferro, fece un cenno
della mano agli altri due, e tutti insieme sfoderarono i pugnali e
furono addosso a Maestro Tanaglia, e puntandoglieli al petto lo
obbligarono a dire ove fosse l'entrata della scala sotterranea che
metteva capo alle stanze del Castellano: il Cancelliere che s'aveva
inteso un giorno narrare che quel rialzo che esisteva sul baluardo
presso la torre copriva una secreta strada, ignorando però che dessa
quella fosse realmente che scendeva all'indicato luogo, spaventato e
tremebondo, palesò quanto sapeva: i congiurati l'afferrarono tosto
strettamente e il forzarono, minacciandolo di morte, a seguirli
indicando la via che conduceva al baluardo. Tanaglia già più morto che
vivo tentò ogni mezzo di persuasione per farli desistere da
quell'impresa, ma strascinato a forza e sempre colle punte alla persona
dovette discendere, passare lungo il porticato del cortile, ove sperò
invano d'incontrare soldati, e gli fu forza salire dalla torre al
baluardo, ove quanto sia avvenuto è già noto ai nostri lettori.
Nel tempo che Gian Giacomo ed i suoi Capitani udivano con sorpresa ed
isdegno la narrazione delle particolarità d'un sì ardito ed iniquo
attentato d'assassinio, cui il truce viso, l'audacia e la costanza di
Spinaferro nel tacerne tra i più crudeli dolori la vera cagione motrice,
davano aspetto d'un fatto straordinario d'alto ed importante interesse,
gli sgherri che stavano d'intorno ad Ambrogio Bina, che il colpo dato
dal Pellicione aveva lasciato per lungo tempo privo de' sensi,
annunziarono che andava riprendendone l'uso e che proferiva chiare
parole. Sperarono tutti che costui, siccome affievolito del corpo, il
sarebbe stato anche dello spirito, nè avrebbe avuta la forza e
l'ostinazione del silenzio di Spinaferro, ma svelerebbe l'origine, la
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