Falco della rupe; O, La guerra di Musso - 02

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rivista del futuro desinare sul lago, indi con poca divergenza ritornati
sulle sue sensazioni presenti, e ritrovarono l'urgente bisogno della
cena, per il che rammemorò al Marchesino que' certi _agoni_ di cui gli
aveva parlato prima di sera, e soggiunse che gli sembrava venuto tempo
d'assaggiarli. Il Marchesino chiamò, ordinò la cena, e in pochi tratti
fu allestita la mensa, ed arrecate le vivande. Eglino vi si assisero
d'intorno, obbligando cortesemente don Annibale a rimanerti seco loro.
Gli agoni furono trovati saporitissimi, ed in ispecie dal Conte, che se
ne fece una scorpacciata, e terminata la cena, s'assise di nuovo sul
canapè a smaltirli addormentandosi profondamente.
La Contessina, tutta occupata della lieta idea della promessa gita, si
diede ad interrogare don Annibale intorno alle delizie del lago.
"Onde conoscerle tutte perfettamente, rispose questi che ne aveva esatta
cognizione, d'uopo sarebbe ch'ella visitasse ad una ad una le molte
ville che sono sparse a diversi punti delle sue rive, e salisse in
alcuni luoghi i monti, o s'internasse nelle valli onde mirare
pittoresche vedute, o singolari accidenti di natura, che molti ve se ne
trovano; ma giacchè non deve che percorrerne il lungo, ella cerchi di
tracciarne bene in mente l'aspetto generale e le posizioni diverse, che
poscia le descrizioni di chi ne ha esaminate le singole parti gioveranno
a formargliene nello spirito un quadro completo. Un abbozzo preventivo
del viaggio posso farglielo io con questa carta distesa in ampia scala".
Così dicendo staccò una gran tavola geografica che stava appesa ad una
delle pareti, e la stese sul tavoliere: donna Amalia e il Marchesino
accostandovi i lumi vi portarono attento lo sguardo.
"Il Lago di Como, come qui si vede, proseguì egli, ha la forma d'una
zanca di granchio aperta in atto d'abbrancare".
"Ah! ah! dite benissimo, lo interruppe ridendo il Marchesino, si può
assomigliare la forma del lago di Como ad una zanca di gambero, come
appunto si paragona quella dell'Italia ad uno stivale. Ah! ah! gambe da
per tutto".
"Sarebbe miglior cosa, vorresti forse dire, che vi si ravvisasse alcuna
parte che raffigurasse una testa. Tu sei troppo maligno: ma torniamo a
noi. Il grosso della zanca (e toccava coll'indice i luoghi che indicava)
appare formato da questa porzione di lago che sta tra il suo
incominciare e la punta di Bellaggio, e le due estremità sono la più
sottile a sinistra, cioè a levante, il ramo di Lecco, ed a destra quello
di Como. Quest'ultimo ramo ch'ella deve percorrere domani, presenta alla
vista di chi lo viaggia una serie di circoli che si succedono, ciascuno
de' quali ha un diverso aspetto, il che qui sulla carta non si scorge,
essendo quell'ottico effetto prodotto dalle montagne che lo
fiancheggiano, da cui apparentemente a diversi tratti è chiuso. Il
carattere però generale di simile spazio di lago sino al principiare
della Tramezzina è piuttosto alpestre e severo. Superata questa punta di
Lavedo, che è la Gibilterra del lago, esso si presenta ridente da una
sponda e dall'altra sino a Bellaggio, dove si vede in tutta la sua
vastità, cinto da monti giganteschi. La barca a vapore perviene a
Domaso, d'onde si scorgono a sinistra le bocche dell'Adda, ivi è il vero
incominciamento del lago di Como, poichè quest'altro laghetto inameno e
solitario posto all'estremità, detto di Riva di Chiavenna, si può
considerare segregato e facente parte da se. Da Domaso poi si ritorna
per lo stesso cammino dopo una brevissima fermata".
"E quante ore si impiegano nel percorrere questo spazio?" disse la
Contessina.
"Quattro o cinque sì nell'andata che nel ritorno, secondo la quantità
de' passeggieri, per ricevere i quali e dimetterli ne' varii luoghi
d'uopo è perdere alcun tempo, e secondo la forza e la direzione del
vento".
"Così avremo, tornò a dire la Contessina tutta gioiosa, otto o dieci ore
d'amenissimo sollazzo, di cui avrò obbligo a lei, caro don Annibale, che
ha stornato mio marito dal commettere un fallo imperdonabile; ed a voi
pure, Marchesino (e sogguardollo sorridendo), come promotore di questa
gita. Ma, or me ne avveggo, avete trascurato di darmi un suggerimento
importante, e si era di portar con noi qualche libro che ne indicasse
per viaggio i nomi dei paesi e delle ville del lago".
"Perdonatemi, Amalia, ma la colpa non è mia. Ieri guardai e riguardai
nella vostra picciola biblioteca della villa, e non vi scorsi di opere
relative al lago di Como che le _Lettere del Giovio_, e il _Viaggio ai
tre laghi dell'Amoretti_; dunque tenni per fermo che il vostro favorito
autore, il dipintor delle belle, il pellegrinante, il romanziere
sentimentale, Bertolotti, l'aveste già con voi, o il teneste chiuso
nella cassetta da viaggio".
"No, v'ingannaste, perchè il dovetti quest'anno lasciare a Milano,
essendo il suo, ed il posto di due o tre altre mie predilette opere
occupato dai _Promessi Sposi_, e da altri romanzi recenti: sebbene vi
dirò che le _Peregrinazioni_ di quel finto vecchio militare, la cui
vivacità e galanteria ne smentiscono ad ogni linea l'età e la
professione, me le so quasi a memoria. Desiderava non altro per domani
che un indicatore, una nomenclatura, una guida".
"Per questo, bella Contessina, poss'io soddisfarla immediatamente",
disse don Annibale, e tolse dalle tasche del _redingotte_ che vestiva,
due libri stretti in elegante copertura, ed uno gliene presentò
aggiungendo: "Questa è una raccolta di disegni miniati rappresentanti
vedute del lago, con brevi descrizioni: avrà in esse una guida, un
Cicerone laconico, ma vero e compiuto. Caso poi mai che pioggia
impreveduta, incomodi soffii di vento od altro accidente l'avessero a
costringere a tenersi nella sala sottocoperta, e così non le fosse dato
occupare il tempo a contemplare le viste, eccole in quest'altro libro
manoscritto un Racconto del lago, che potrà leggere per divagarsi".
"Oh gli sono doppiamente obbligata, disse la Contessina ricevendo con
piacere anche quel secondo libro, e sarà mia premura il fargliene,
appena letti, immediata restituzione; ma dica, dica: questo è una
novella, una vera storia, od un romanzo?"
"Non è, parlando a rigore, alcuno dei tre, ma tiene un po' di ciascuno:
si potrebbe collocare in quel genere botanico in cui mischiandosi il
seme di varii fiori, ne nasce un tutto più fragrante, più aggradevole ed
attraente delle specie separate: in una parola, è un romanzo
storico.--Oh! lo conosco questo genere cui tu alludi, disse il
Marchesino; esso si chiama dai Botanici _ebridismo_, che significa _non
legittimo_, e poco giudiziosamente raccomandi il tuo manoscritto, mio
caro Annibale, dichiarandolo appartenente ad un genere che si appella
con sì brutta parola. D'altronde non sai, continuò in tuono comicamente
enfatico, che uomini gravi, tenuti maestri in letteratura, disprezzano
appunto come spurie e deformi quelle opere in cui la storia è vestita
coi falsi colori del romanzo, e il romanzo foggiato coll'imponenze
storiche, che in alcune parti appaiono drammatiche, in altre filosofiche
o politiche, ma in conclusione non appartengono ad alcuna di quelle
classi, e recano il grave disordine di stravolgere o render false le
idee a quelle persone di spirito debole che hanno la sfortuna d'averle
nelle mani? Sono incalcolabili i danni che questo genere di moderno
lavoro detto Romanzo storico ha recati ai buoni studii ed alle profonde
storiche e filologiche investigazioni. Dappoichè la manía di simili
superficiali opere ha invase due parti del mondo.....
"Ih ih che sermone! Non imiti male un pedagogo di sessant'anni che
ritrova sullo scrittoio d'uno scolaro un tomo di Walter-Scott in vece
della grammatica.--Sappi però che io non posso nè difendere nè
commendare quel libro, perchè l'Autore, che è un giovine mio conoscente,
me lo ha espressamente proibito; non ripeterò altro che alcune opinioni
dello stesso intorno a tal genere di componimenti. La storia, egli
pensa, si può chiamare un gran quadro ove sono tracciati tutti gli
avvenimenti, collocati i grandi personaggi, e la serie d'alcuni fatti
esposta con ordine, ma dove la moltitudine delle cose v'è negletta o
appena accennata in confuso e di scorcio, e sole le azioni più
straordinarie e gli uomini sommi vi stanno dipinti isolatamente e quasi
sempre nella unica relazione dei pubblici interessi. Il Romanzo storico
è una gran lente che si applica ad un punto di quell'immenso quadro: per
esso ciò ch'era appena visibile riceve le sue naturali dimensioni, un
lieve abbozzato contorno diventa un disegno regolare e perfetto, o
meglio un quadro in cui tutti gli oggetti riprendono il loro vero
colore. Non più i soli re, i duci, i magistrati, ma la gente del popolo,
le donne, i fanciulli vi fanno la loro mostra: vi sono messi in azione i
vizii, le virtù domestiche, e palesata l'influenza delle pubbliche
istituzioni sui privati costumi, sui bisogni e la felicità della vita,
che è quanto deve alla fin fine interessare l'universalità degli uomini.
I romanzi di tal genere sono in somma i _panorama_ della storia. Alcuni
rigoristi portano loro l'accusa di frammischiare cose menzognere alle
reali, e deturpare in tal modo la storica purità: ma si potrebbe a
questi domandare: accusate voi i grandi storici, come Livio, Tacito,
Guicciardini, d'essere menzogneri perchè facciano tenere ai duci
d'armate, ai principi, ragionamenti in pubblico od in privato ch'essi
non hanno di certo ascoltati, nè altri ha loro riferiti? No,
risponderebbero essi, perchè è probabile e verisimile che in date
circostanze que' personaggi dovevano consimilmente esprimersi. Ora,
perchè, tenendosi nei limiti della verisimiglianza, non sarà lecito,
anzi utilissimo intrecciare la storia con fatti d'invenzione che la
rendano più drammatica, più evidente, quindi più studiata e proficua?"
Don Annibale continuò in tal modo per lunga pezza ora colle opinioni di
quel suo conoscente, ora colle proprie ad encomiare il genere dei
Romanzi storici;, inutilmente però, perchè la Contessina non aveva
d'uopo di tante parole per farseli aggradire, formandone da molto tempo
l'esclusiva sua lettura; ed il Marchesino s'era occupato a svolgere i
fogli del libro che conteneva le vedute del lago, nè aveva più oltre
badato a quel chiaccherare erudito. Stanca però anche donna Amalia
d'udire teorie, volle che don Annibale le dicesse il suo parere intorno
ad alcuni Romanzi storici italiani, addomandandolo della _Pianta dei
sospiri_, del _Gabrino Fondulo_, del _Castello di Trezzo_, della
_Sibilla Odaleta_, e finalmente dei _Promessi Sposi_.
"I _Promessi Sposi_, conchiuse don Annibale, s'udirono annunziare tanto
tempo innanzi che apparissero al pubblico, ch'ebbero tutto il campo di
ricevere dalle mani abilissime del loro valente autore quella forbita
lucente, e veramente nuziale acconciatura, di cui egli seppe adornarli.
V'ha in quei libri una inimitabile proprietà di vocaboli, espressioni
fine, vere, incalzanti: vi si trova per tutto una vita, un'indagine
profonda del cuore, delle circostanze, delle cause; un nesso invisibile,
ma universale, efficace, che offre pascolo a tutti i gradi
d'intelligenza; è un complesso in somma d'osservazioni e di quadri
affatto nuovi e sublimi. È vero però che vi si rinvenne un lato
vulnerabile come il calcagno nel fatato corpo d'Achille, ma però le
saette scagliategli dai nostri Priamidi non lo ferirono sì addentro da
toglierci la vita, che durerà anzi sempre robustissima".
Il Conte, che aveva in tutto questo frattempo dormito russando
tranquillamente, svegliossi di repente, balzò esagitato dal canapè, fece
due o tre giri intorno a se stesso, e sarebbe andato a dar del volto in
terra se non incontrava la tavola a cui affrancarsi colle mani. "Che
c'è? che avete? Cosa è avvenuto? gridarono ad una voce gli altri
accorrendo.--Ohimè! ohimè! esclamò egli cogli occhi stravolti: quel
maledetto battello a vapore... quella fornace, oh! che incendio!.. puh!
che spavento! Per fortuna che è stato un sogno... Ma il capo mi gira
ancora, e sento un peso gravissimo allo stomaco".
"Niente, caro Conte, gli disse il Marchesino, sono le quattro o sei
dozzine di quei pesciuolini che v'avete trangugiati; prendete un caffè,
ed andate a letto che tutto passerà in poco d'ora".
Così fece di fatto, conducendosi accompagnato dalla Contessina nella
stanza da letto. Il Marchesino e don Annibale, dopo aver conversato più
a lungo, salirono essi pure nelle camere rispettivamente assegnate a
riposo.
Il primo segnale di partenza dato il mattino dalla campana della barca a
vapore trovò la nostra comitiva già allestita pel viaggio nella sala
dell'albergo. La Contessina era involta nel suo mantello di finissimo
_circasse_ foderato di felpa: il Marchesino portava un tabarro
verdognolo alla _cocher_ di stoffa scozzese ed un berretto all'inglese
tessuto di neri crini di cavallo. Il Conte ancor sonnacchioso, ed a cui
il freschetto mattutino recava più molesta sensazione d'ogni altro,
stava imbacuccato in un _sourtout_ di peluzzo color d'orecchio d'orso, e
riceveva, senza rispondervi, i complimenti di don Annibale, che seco
loro discese sino al lago, ove porgendo braccio alla Contessina ad
entrare nel battelletto che li dovea trasportare alla barca a vapore, le
rammentò i libri a lei consegnati, e salutò tutti affettuosamente a due
mani quando quel battelletto s'allontanò dalla riva.
Saliti ch'essi furono a bordo, fu dato l'ultimo segno, ed alzata
l'áncora, il _Lario_ salpò, spinto rapidamente dalle sue ampie ruote.
Non è a dirsi quanto riuscisse gradevole quel viaggio alla Contessina,
che instancabile si recava ora da un lato, ora dall'altro del ponte
della nave tutto rimirando, di tutto interrogando il Marchesino,
servendosi del libro delle vedute per aver notizia del nome d'ogni luogo
più interessante a sapersi.
Riconobbero la villa d'Este, la Tanzi, la Passalacqua, la solitaria
Pliniana, videro la cascata di Nesso; e nella popolosa Tramezzina
ravvisarono varie case di persone conoscenti; scórsero la villa Melzi
co' suoi vaghi giardini, e il bel viale d'ipocastani che la fiancheggia,
e presso che di fronte sull'opposta sponda l'elevato palazzo Sommariva,
che tanti contiene eccellenti capi d'arte. Prossimi a sopravanzare la
punta di Bellaggio, gli occorse alla vista il _Plinio_, altra barca a
vapore che viaggiava alla lor volta con spiegata bandiera: a poca
distanza le due navi s'arrestarono, e calati a fior d'acqua i
palischermi, fecero cambio di passeggieri, indi ripresero cammino, il
_Plinio_ tagliando a levante per Lecco, e il _Lario_ in retta linea al
nord. Lasciato a mancina Menaggio, volsero i loro sguardi al famoso
_Sasso rancio_, e mentre la Contessina contemplava ammirata quell'erta
sinuosa rupe, rammentando i miserandi casi che lesse ivi avvenuti,
attrasse da destra la loro attenzione lo scoppio delle mine che aprivano
il varco alla nuova strada, che correndo pei monti della Valtellina,
riesce al cuore della Germania. Sempre più avanzandosi indicarono a
destra Bellano, già celebre per l'_orrido_ che gli stava vicino, e che
da pochi anni dirupatosi perdette tutta la maestà del suo orrendo
aspetto. Passato il promontorio di Dervio, scórsero le antiche ruinose
mura del forte di Rezzonico, la vecchia torre di Corenno, e più
inoltrandosi mirarono attentamente i pochi avanzi del castello sopra
Musso, della cui guerra faceasi cenno nel titolo del racconto storico;
quindi Dongo in un seno, e per ultimo il biancheggiante castello di
Gravedona, presso alla quale sta Domaso, innanzi a cui la barca a vapore
venne a fermarsi. Dopo non lunga posa quella barca virò di bordo e
s'avviò colla stessa rapidità al ritorno.
Un lauto pranzo che si protrasse in lungo, il conversare, il rimirare di
nuovo tutti i punti più belli e rimarchevoli delle sponde, non
lasciarono mai alla Contessina rinvenire un momento da dare alla lettura
del manoscritto consegnatole da don Annibale, nè, ritornata che fu alla
sua villa del Lambro, il che avvenne il giorno seguente di buon mattino
come avea voluto il Conte, potè ritrovar tempo da leggerlo sinchè ivi
rimase il Marchesino. Partito però che questi si fu, s'occupò di quel
libro sbadatamente da prima, poscia con attenzione; e rendendolo a don
Annibale, lo accertò che quella lettura le era riuscita in più parti
interessante in modo da farle desiderare di poter gire un'altra volta
sul lago di Como per visitare molti luoghi di cui teneva poetica
impressione nello spirito, derivatale dalle narrazioni contenute in quel
libro.
Per il che siamo venuti in pensiero di pubblicarlo, affinchè possa, chi
lo vuole, ottenerne lo stesso effetto senza difficoltà, persuasi
d'altronde che se quell'accertazione non avesse contenuto ombra di
verità, la qual cosa non è impossibile, pure alcuno fra i molti che
percorrono di frequente quel lago ci saprà grado di porgergli un mezzo
di più onde passare alcune ore d'un giorno nebuloso o di pioggia,
acquistando minute notizie di fatti che avvennero in questa bella parte
di Lombardia ch'ora non offre che placide e liete situazioni ad amene e
ricche villeggiature, e numerose mete sulle sue ridenti sponde a
sollazzevoli gite.


FALCO DELLA RUPE
O
LA GUERRA DI MUSSO


CAPITOLO PRIMO.
Era la notte e il mar non avea lume
Quando s'incominciar l'aspre contese
...................
Dalla rabbia del vento che si fende
Fra i scogli e l'onde escon orribil suoni;
Di spessi lampi l'aria si raccende;
Risuona il ciel di spaventosi tuoni.
ARIOSTO, _Orl. Fur._ Can. 41.

Veleggiando da Como verso settentrione, passata la penisola di Torno,
perviensi ad un lago solitario e di selvagge sponde. Fiancheggiato a
levante dagli alti monti della Valle Assina e da quelli di Val d'Intelvi
a ponente, non offre al riguardante che ripide balze e annosi boschi
sparsi per le loro falde e per le loro sommità; ivi le acque nereggiano
riflettendo il bruno aspetto delle vaste rupi da cui sono cinte, e più
d'un torrente in esse si versa precipitando biancheggiante dalle nude
roccie.
Sorge su quelle sponde la Terra di Nesso, di cui scorgonsi molti
casolari sparsi pel declivio del monte presso l'ingresso di ampia valle,
dalla quale sbocca pure un torrente che forma colà una grandiosa
cascata. Ne' passati tempi tutte le abitazioni di che constava quel
Borgo, stavano raccolte in un sol corpo, ed erano protette e tenute in
soggezione ad un tempo da una Rocca che consisteva in una larga torre di
pietre circondata da tre lati da un bastione, ed appoggiata di schiena
al monte da cui s'aveva l'entrata.
All'epoca del Dominio de' Visconti e de' primi Sforza, teneva dimora in
questa Rôcca un Commissario Ducale con forte mano d'uomini per mantenere
colà e ne' circostanti paesi i signorili diritti, esigendo i tributi e
le regalie: nel tempo però a cui si riferisce il nostro Racconto, cioè
nel 1531, trovavasi dessa già da alcuni anni priva d'abitatori. Ne
avevano da pria i Francesi sbanditi gli Sforzeschi, poscia ne erano
stati essi stessi scacciati dagli Svizzeri, quando questi (nel 1512),
condotti da Matteo Scheiner, il guerriero cardinale di Sion entrarono
nel Ducato di Milano, per sostenere contro i Francesi i diritti di
Massimiliano Sforza, primogenito del duca Lodovico detto il Moro, già
morto prigioniero in Francia. Tocca non per tanto la terribile sconfitta
nella famosa giornata di Marignano, ripresa Milano dai Francesi venutivi
col loro re Francesco, sgombrarono gli Svizzeri il territorio
ritraendosi nei baliaggi di Lugano, Locarno e Bellinzona, che erano già
possedimenti del Ducato, e da cui non fu più possibile lo scacciarneli.
Da quell'anno in poi poche squadriglie di Spagnuoli, d'Alemanni ed anche
di Francesi avevano, passando, fatta momentanea dimora in quella Rôcca;
nè ciò avveniva più affatto da che teneva dominio sul lago l'ardimentoso
Gian Giacomo Medici castellano di Musso, le di cui bande armate
approdavano di frequente a Nesso, essendo quegli abitanti loro
confederati, e riuscendo per ciò troppo difficile e pericoloso ad altri
militi il fermar quivi soggiorno.
Siccome il governare in quella età non dipendeva che dalla forza delle
armi, non essendo dato al duca Francesco secondo Sforza, tornato signore
di Milano, il mantenere quivi un presidio, come avevano praticato i suoi
maggiori, i Terrazzani di Nesso e di varii altri contadi del lago
s'erano ridotti a un'assoluta indipendenza, di cui si giovavano in que'
giorni di guerra onde commettere impunemente ogni sorta di depredazioni,
e far scorrerie e bottino a danno de' confinanti e delle parti che
battagliavano.
Tale sfrenata ribalderia degli abitanti di quella spiaggia, congiunta al
pericolo di cadere nelle mani de' soldati del Castellano o de' suoi
avversarii Svizzeri e Ducali, i quali trattavano con tutta la prepotenza
militare chiunque s'avessero avuto in sospetto di spione, rendeva
all'estremo periglioso e mal sicuro lo scorrere il lago e le rive al di
là poche miglia di Como. Il maggiore spavento però che assalisse il
cuore del pacifico navigante che arrischiava avanzarsi in quelle acque,
era la fama d'un uomo che s'era fatto un nome formidabile assalendo
armato le barche, depredando e spogliando i viaggianti, facendo in somma
pel lago il terribile mestiero del pirata. Come avviene d'ordinario, e
più di frequente accadeva in quell'età d'ignoranza, in cui le menti si
prestavano ad ogni falso terrore, s'erano attribuiti a costui fatti,
scelleraggini e poteri affatto straordinarii e quasi soprannaturali, per
cui il nome di Falco (così egli s'appellava) era il terrore de'
remiganti che s'affidavano al tragitto senza la scorta d'una nave
armata, benchè talora gli armati stessi non aveano potuto opporgli
resistenza.
Era Falco l'uno degli indipendenti uomini di Nesso, intrepido, fiero e
vigoroso, che la brama di vendetta d'un sanguinoso oltraggio aveva
spinto ad armeggiare in molte battaglie contro gl'Imperiali. Ricacciate
d'Italia le squadre di Francia, tra cui egli aveva combattuto, era
tornato alla patria Terra, dove insofferente di riposo, spinto da
un'indole audace, da guerresche abitudini e dall'astio che gli durava
vivissimo per gli Spagnuoli e gli Svizzeri, che uniti ai Ducali
mantenevano la guerra sul lago contro il Castellano di Musso, aveva
trascelti alcuni robusti compagni, co' quali, armato all'usanza de'
tempi, scorreva il lago corseggiando. Conoscitore espertissimo di tutti
gli scogli e i seni del lido, agilissimo rematore, sfidatore ardito dei
venti e delle burrasche, sapea appiattarsi per tutto e piombare
improvviso sulla preda. Se coglieva soldati nemici alla spicciolata, gli
assaliva sostenendo contro di loro regolari combattimenti, e fuggendo
poscia se il loro numero aumentava, si conduceva a sicuro salvamento ne'
porti occupati dagli uomini di Musso che avevano barche armate pronte ad
azzuffarsi ad ogni scontro.
Falco venia detto _Della Rupe_, poichè il suo casolare trovavasi sur una
rupe a poca distanza del borgo di Nesso, e l'avea dovuta costruire colà
in sito quasi inaccessibile per garantirsi da tradimento e da improvviso
nemico assalto. A mezzodì di quel villaggio vedesi un fendimento nel
monte che s'interna un trar di balestra, in fondo al quale piomba da
molta altezza il torrente, la cui spumeggiante caduta scorgesi da lungi
per entro quegli oscuri massi come una candida striscia, e vien nomato
l'orrido di Nesso. Al vertice di questo fendimento, sulla sommità di
eretti macigni inumiditi sempre dallo spruzzo delle cascanti acque,
stava su un piano del giro di pochi passi l'abituro di Falco, a cui
pervenivasi per due viottoli formati da informi gradini tagliati nel
masso, l'uno scendente dal monte, l'altro che saliva dal lago, ambidue
però non praticabili che colla guida di que' montanari. Era tal abituro
costruito di sassi che sostenevano rozze travi; aveva le mura
mediocremente spaziose e salde, una tettoia di lastre di pietre, la
porta formata da massiccia tavola ad un sol battente, e due finestre
difese da staggi di legno disposti a modo di ferriata: l'esterno
scorgevasi presso che tutto verdiccio per l'edera che vi s'arrampicava;
un antico castagno che gli sorgeva da lato, stendendo i numerosi e
fronzuti suoi rami, difendeva dalla pioggia e dai raggi solari la soglia
di quel casolare presso cui stavano quadrate pietre destinate a sedili.
Due persone abitavano quivi di continuo, e queste si erano la moglie ed
una figlia di Falco; imperocchè egli ne stava il più de' giorni lontano,
e solo dopo lunghe corse, dopo dati e sostenuti feroci assalti, molte
fiate nel cuor della notte remigava alla sua rupe, e saliva al suo
abituro talora carico di preda, e talora grondante di sangue e anelante
per la fatica e la foga degli sfuggiti perseguimenti. Colà deposte le
armi pesanti e i pugnali, respirava in riposo; e mentre sua figlia Rina
gli tergeva la fronte, e districavagli gli arruffati capelli, Orsola sua
moglie disponeva un desco, non sempre frugale, a cui d'intorno assiso
narrava le sue venture, sinchè vinto dal sonno posavasi tra rozze
coltri, dalle quali balzava all'albeggiare, ch'era pur sempre l'ora
della sua partenza.
Orsola e Rina, accostumate a quel modo di vita del loro padre e marito,
vivevano tranquille, confidenti nella bravura e scaltrezza di lui, non
che in una costante prosperità di eventi che a tutti i perigli l'avevano
sino allora sottratto. Era estraneo in tutto ai loro animi il rimorso e
l'agitazione che avrebbe dovuto infondervi il pensiero d'essere
congiunte sì strettamente di sangue ad un uomo che non s'adoperava che
nell'uccidere e nel depredare: nè era a dirsi per ciò che gli animi loro
fossero corrotti, o privi d'ogni senso di religiosa pietà, perchè anzi
possedevano desse, ed era comune in que' tempi, una morale severità di
pensieri, un sommo rigore di costumi, che però per l'indole fiera di
quell'età non avevano tanta forza da far sentire iniqua e scellerata la
violenza delle armi.
Per tutto in allora, ed in ispecial modo in que' paesi lungo teatro di
guerre, i fiacchi, i miti d'animo erano oppressi e spogliati; per ciò
nasceva in ognuno tendenza a farsi forte, audace, assalitore; quindi
vigeva un'operosità di azioni e reazioni che giustificava ogni eccesso
nell'uso della forza, e rendendo perpetue le zuffe e le atrocità,
facevale sì famigliari, che più non recavano agli spiriti quel
sentimento d'orrore che producono oggigiorno per la loro infrequenza e
pel raddolcimento universale de' sociali rapporti. Storie d'uccisioni,
d'incendii, fatti atroci accaduti per que' monti, o sul lago, erano le
sole che dall'infanzia avevano sempre risuonato all'orecchio d'Orsola e
della giovinetta figlia di lei: i loro conoscenti erano stati ognora
uomini truci e facinorosi che non ragionavano d'altro che di vendette e
d'offese, per ciò nella mente di esse andava congiunta alla naturale
sensibilità, al buono e leale carattere proprio degli abitatori delle
montagne una fiera e maschia tinta cui frammischiavansi i tetri colori
di superstiziose credenze.
Gli echi delle rupi, i verdi pascoli, le limpide acque mantenevano
nell'anima della giovinetta Rina la pastorale serenità e la calma soave
dei monti, ma talvolta ben anco duri pensieri, secreti ritorni sulle
tante spaventose immagini di che le avevano ripiena la fantasia vi
stendevano una nera nube, e tal fiata i suoi lineamenti vivacemente
animati prendevano un minaccioso aspetto, ed i suoi occhi scintillanti
come nere gemme s'affissavano fieramente, e tal altra, assalita da vago
terrore, stringevasi al seno di sua madre prorompendo in calde lagrime.
Rina toccava il sedicesimo anno; il suo corpo, senza essere esile,
mostravasi agilissimo, il suo volto, di rara bellezza, aveva una
leggiera impronta della fisionomia di sua madre, la quale, fresca e
robusta donna ancora, appalesava nel viso irruvidito dal sole tutta
l'arditezza che alla moglie d'un pirata conveniva. L'abito d'entrambe
era alla montanesca: vestivano sottane l'una color verdebruno, ed era la
madre, l'altra cilestre, le quali non oltrepassavano loro la caviglia
del piede: avevano grembialetti e corsaletti rossi di lana, senza
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