Falco della rupe; O, La guerra di Musso - 10

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causa e gli ordinatori di quel misfatto che ad ognuno stava sì a cuore
il conoscere. Non potendosi però Bina sollevare da terra, s'alzò il
Castellano e gli altri seco, e gli si portarono d'intorno.
Interrogato del nome suo e dei fatti già esposti, rispose conformemente
al compagno; ma quando si venne al chiedergli di palesare da chi
s'avessero avuto il comando di recarsi colà per torre la vita al Medici,
tremò, si confuse e tacque, Gian Giacomo, preso da estrema rabbia,
ordinò gli si strappassero le carni con ferri roventi se puntigliavasi
più oltre a tacere quel secreto: ad un tratto ardenti carboni
rosseggiarono nel braciere, entro cui vennero collocati bidenti uncinati
di ferro: si denudarono al Bina il petto e le spalle, e due sgherri gli
si accostarono scuotendo colla destra i grafii arroventati. Alla vista
di quei tremendi arnesi di martirio che stavano per lacerarlo, non potè
il Bina resistere, e invocò si sospendesse il tormento che direbbe il
tutto. A queste sue parole s'udì uno scroscio di catene e il grido di,
_taci, traditore_, che Spinaferro emise scuotendosi furiosamente, e
tentando di gettarglisi addosso, ma gli sgherri lo strinsero più
saldamente fasciandogli con un lino la bocca. Un freddo sudore, un
impallidimento mortale coprirono il volto di Bina, che tre volte tentò
parlare e tre volte si tacque, sin che ferito da una graffiata rovente,
"Ohimè! gridò, dirò tutto, dirò tutto benchè i miei figli debbano pagare
colla vita queste mie parole: io gli avrei fatti ricchi se il colpo non
andava fallito: essi stanno nelle mani di quello che ci comanda... non
il signor Duca, quell'altro di... Oh Beata Vergine della Scala,
soccorretemi! il demonio mi strangola perchè do la morte ai miei
figliuoli... e ho giurato di non parlare... soccorso... soccorso... mi
ha preso il collo... mi stringe... mi strozza..." A tal punto un
gonfiamento assai visibile della gola gli tolse la voce; esso portò
quivi le mani in atto di tentare d'allargarsi un capestro o strettoio
che il serrasse, stramazzò quindi convulso battendo il capo con forza
sul pavimento; venne rialzato e trattenuto, ma gli si rovesciarono le
orbite degli occhi, gli spumeggiò di bava e sangue la bocca; e
soffocando spirò.
Alla vista di sì atroce scena restarono compresi d'orrore anche gli
animi più duri di quegli uomini fieri: un terrore secreto si sparse ne'
loro cuori, perchè le parole e la causa ignota della morte di Bina li
persuase che fosse dessa veracemente l'opera d'una mano invisibile che
punisse in lui un enorme peccato con cui avesse provocata l'ira divina.
I Capitani, ammutoliti e aggruppati in diversi atteggiamenti d'intorno
al Castellano, contemplavano con occhio atterrito quel deforme cadavere.
Gabriele, fattosi da un canto, ritraendo lo sguardo da quello spaventoso
e ributtante spettacolo, gemeva come se avesse l'anima oppressa da un
sogno fatale. Il Cancelliere stava per svenire, teneva gli occhi
immobili ed era freddo come un morto: ei non sapeva in qual mondo si
fosse, ora gli ritornava alla mente il pericolo corso d'essere ucciso da
quei tre, e li voleva puniti, ora facea riflessione ai loro tormenti, e
gli parevano eccessivi; pensava quanto esso stesso avea arrischiato
d'essere preso in sospetto di traditore, e quindi trattato a quel modo,
e s'immaginava i casi futuri e paventava di modo che il suo spirito era
un caos di terrori, di paure e di funeste aspettative.
Pel primo Gian Giacomo riprese la consueta sua fredda apparenza:
qualunque fosse la brama che s'avesse di mettere a luce quell'arcano,
pensò essere prudente consiglio di più non insistere per iscoprirlo:
pronunciò all'orecchio d'uno degli sgherri alcuni secreti comandi, indi
fece aprire la porta di quella sala della _Quistione_ e ne uscì assieme
a tutti i suoi.
Sebbene spuntasse appena il giorno, mandò a risvegliare l'abbate di
Frustemburgo parroco del Castello, e fece sonare le campane della Chiesa
nella Rocca di Sant'Eufemia per far celebrare immediatamente la Messa,
il che venne eseguito con gran concorso di Capitani e soldati, i quali
tutti si recarono poscia ad assistere a più solenne celebrazione nel
tempio maggiore di Musso. Furono distribuite elemosine ai conventi
d'intorno: per cui si sparse una vaga voce d'uno strano avvenimento
accaduto nei Castello, ma non se ne conobbero mai bene nè gli autori, nè
la causa, nè il fine. I tre congiurati assassini vennero sepolti
nascostamente nel sotterraneo, e tutti gli animi si rivolsero ai fatti
più importanti che si preparavano, la cui aspettativa era quivi di
massimo e generale interesse.


CAPITOLO SESTO.
Il dì seguente allorch'aperte sono
Del lucido orïente al sol le porte,
Di trombe udissi e di tamburi un suono
Onde al cammino ogni guerrier s'esorte.
Non è sì grato ai caldi giorni il tuono
Che speranza di pioggia al mondo apporte,
Come fu caro alle feroci genti
L'altero suon de' bellici instrumenti.
TASSO, _G. L._, C.° I.°

Sul finire di quella burrascosa notte in cui storditi e confusi
dall'inaspettato assalto del formidabile abitatore della rupe di Nesso
lasciaronsi strappare dalle mani la preda che tenevano di sì certo ed
importante possedimento, Alessandro Gonzaga ed i suoi armati giunsero
colla nave rotta e sconquassata dal vento e dalle onde alla vista di
Como. Scorto che fu dalla città l'inalberato vessillo Ducale, venne dato
di subito ordine a varie navicelle che s'affrettassero a recare soccorso
a quel legno che mostravasi in manifesto pericolo, poichè vedevasi il
suo bordo radere a filo le acque, e i rematori affaticarsi invano per
vincere l'impeto del vento che aveva rapidamente cangiata direzione.
Quando rimorchiata da freschi e robusti remiganti giunse la nave in
porto, il capitano Gonzaga sceso a terra, e ordinato a quartiere il suo
drappello, recossi prontamente al palazzo del Governatore della città
onde narrargli tutto l'occorso, e procurare di giustificare in
quell'evento la propria condotta, ciò che ad esso lui forte premeva,
poichè il Governatore era in obbligo di tenere esattamente istruiti con
doppio rapporto la Corte Ducale e il De Leyva d'ogni avvenimento
relativo alla guerra col Medici, la quale era tenuta per affare di sommo
momento, ed a cui stava rivolta l'attenzione dell'intera Milano.
S'aveva allora Como per governatore il cavaliere spagnuolo _Dom_ Lorenzo
Mugnez Pedraria, successo in tal carica a Federico Bosso, e nominatovi
dal duca Francesco Sforza per consiglio, o, diremo meglio, per espresso
comando di Antonio De Leyva, che, come s'intese, era Generale supremo
delle forze di Carlo V in Lombardia. Importava assaissimo a questi che
la città di Como, considerata per una delle piazze più forti, e che
aveva avuta decisa influenza nelle ultime contese tra il Ducato e
l'Impero, si trovasse nelle mani d'un suddito dell'Imperatore per farla
affievolire e decadere, poichè di tal modo qualunque avvenimento nascere
potesse per l'avvenire, era pur sempre una città che avrebbe opposto
minore ostacolo ad essere conquistata e sottomessa, e un gran punto
d'appoggio per le consecutive militari operazioni. La scelta fatta dal
De Leyva della persona del Governatore serviva mirabilmente al suo
scopo, imperciocchè in tutti i vasti possedimenti del Monarca Spagnuolo
al di qua e al di là del mare non eravi vassallo la cui fedeltà si
potesse asserire più intera e incorrompibile di quella di _Dom_ Lorenzo
Mugnez Pedraria.
Era questi uno di quegli uomini che si potrebbero dire nati colla scala
delle dignità e delle gradazioni sociali stampata nel cerebro, per i
quali diventa natura il sottomettersi ciecamente ai voleri delle
autorità superiori e l'esigere d'essere nell'egual modo dagli inferiori
ubbediti: era desso in somma l'uno di que' tali che _por ordinacion de
su Magestad_ sarebbe saltato a piè pari in una voragine o in un forno,
ma v'avrebbe fatto saltare altresì il più prossimo parente od amico se
così gli fosse stato imposto.
Fra le segrete istruzioni che vennero date dal De Leyva a _Dom_ Lorenzo
Mugnez appena fu nominato Governatore, la principale era quella di
sguarnire Como di difese, e guastarne e demolirne il più ch'ei potesse
le fortificazioni, compiendo però tutto questo di maniera tale che
apparisse fatto a solo interesse del governo del Duca, adducendone
sempre motivi che valessero a togliere dall'animo dello Sforza ogni
sospetto di causa opposta al proprio vantaggio. Infatti, dopo brevissimo
tempo da che Mugnez Pedraria era Governatore, accadde che Gian Giacomo
Medici, vinta e sconfitta la flotta Ducale, pervenne colle proprie navi
sotto le mura di Como, mise a fiamme i sobborghi della città, e per poco
stette non si rendesse assoluto padrone della città medesima. Colse
tosto occasione da quel fatto il Governatore, che bramosissimo era di
dare esecuzione ai comandi del De-Leyva, ch'ei riguardava come sola
legittima autorità a lui superiore, e riferì al Duca che la sicurezza
della città da esso governata richiedeva che si atterrassero tutte le
opere forti esteriori, ed in ispecie il Castello, poichè avendosi
moltiplicate prove dell'audacia e dell'abilità del Medici
nell'impossessarsi delle Rocche le più diligentemente custodite, siccome
aveva fatto di quelle di Chiavenna, di Morbegno, di Lecco, di Perego e
di Incino, era da temersi che con qualche stratagemma potesse giungere
ad ottenere anche le fortezze che contornavano Como, da dove avrebbe poi
facilmente colle artiglierie costretta la città ad arrendersi; opinava
quindi essere prudente ed utile partito lì concentrare le forze dentro
le mura della sola città, dando tosto mano all'atterramento di tutte le
esterne fortificazioni. Il De-Leyva chiamato dal Duca a consiglio
sostenne con tutto il suo potere l'avviso del Governatore, e il Duca, o
fosse che rimanesse convinto delle ragioni addotte nella proposta, o più
probabilmente stimasse inutile l'opporvisi, sperando ben anche
coll'acconsentire d'ottenere in quella guerra maggiori e più costanti
rinforzi di truppe Imperiali, rescrisse a _Dom_ Lorenzo Mugnez operasse
quanto meglio stimava opportuno alla difesa della città a lui affidata.
Appena lo Spagnuolo s'ebbe nelle mani tale consenso, impiegò quanti potè
soldati e popolo a smantellare pel primo il Castello Baradello, antico e
famoso Forte che sorgeva a ponente della città sovra una altura, e di
cui si vede tutto giorno unico avanzo una quadrata torre, ch'è quella
stessa in cui morì rinchiuso entro una gabbia di ferro il Milanese
guerriero Nappo Torriano che, vincitore de' Comaschi in tante guerre,
cadde alla fine lor prigioniero nella battaglia di Desio, e fu da essi
per vendetta fatto in sì barbaro modo miseramente perire. Come il
Baradello vennero distrutte le rocche, i ridotti e i baluardi che
munivano a qualche distanza quella città, e colle ruine e le macerie ne
furono colmi i fossati. D'uopo è però dire che per rendere più
verisimile agli occhi del Duca la cagione di quel disfacimento, ed
eziandio per non rimanersi affatto scoperto ed indifeso, stante la
minacciosa vicinanza del Castellano di Musso, furono dal Governatore
fatte restaurare ed afforzare le mura e le torri che cingevano
immediatamente la città dal lato del lago, dove il bastione era guasto e
cadente per gli infiniti colpi a cui era stato meta nei tanti quivi
tentati assalti.
Il governo però che _Dom_ Lorenzo Mugnez Pedraria esercitava sui
Comaschi non era duro troppo nè gravoso, avuto riguardo alle circostanze
dei tempi: voleva che nessuna resistenza s'opponesse a' suoi cenni,
nessun ostacolo od indugio si frapponesse all'esecuzione degli ordini
che venivano da lui emanati, esigendo che gli uomini di tutte le classi
indistintamente li eseguissero, ma siccome ei non era per se stesso nè
capriccioso, nè spogliatore, nè iniquo, manteneva in Como un regime
equabile e scevro di que' tirannici e mostruosi eccessi di cui erano
stati sì feraci i tempi del Bosso e del Martinengo. Ciò poi che faceva a
tutto suo vantaggio piegare la bilancia di confronto co' due suoi
accennati predecessori, si era la castigatezza esemplare de' suoi
costumi, per cui non solo rispettava egli stesso, ma costringeva gli
altri tutti ad avere scrupoloso riguardo alle donne ed alle fanciulle
altrui, nessuna colpa sì severamente multando quanto quelle che in cose
di tal fatta si commettevano. Dicevasi che nella sua giovinezza avesse
seguiti i costumi alquanto liberi e gentili del Duca di Medina-Celi,
sotto il cui comando aveva militato, ma venuto poscia in Alemagna alla
Corte di Carlo, e vedendo che l'Imperatore, tutto involto in teologiche
disputazioni, ne aveva sbandita ogni galanteria, s'accasò immediatamente
con _Dona_ Graciana, figlia del conte di Vandesten di Anversa, e non
affisò più mai lo sguardo se non accigliato in volto ad altra femmina.
La severità del Governatore, sebbene non valesse a por argine a tutti i
disordini cagionati dalla sfrenata licenza della soldatesca, giovò non
per tanto sommamente agli abitanti di Como, perchè essendo la città a
molte riprese piena d'uomini d'armi la maggior parte Spagnuoli
inclinatissimi ad ogni libidine, oltre la roba che questi giornalmente
al popolo consumavano, oltre il fastidio che dell'albergarli arrecavano,
e la necessità in cui ponevano di concorrere i doviziosi colle sostanze,
i poveri coll'opera al rintegramento della flotta, alla compera delle
armi e delle salmerie, avrebbero eziandio date gravissime molestie
d'altro genere e commesse le più odiose e crudeli violenze, se alcuni
potenti cittadini Comaschi non avessero ottenuto col mezzo del Pedraria
clamorose soddisfazioni a simili ingiurie.
Il Governatore albergava in un palazzo che s'avea l'aspetto di Castello
abbellito da varii fregi e dagli stemmi ducali e del municipio, e
sorgeva a mezzodì della città poco lungi da Porta Torre: all'entrata di
esso stava sempre a guardia un corpo d'alabardieri Spagnuoli, e un
drappello di Micheletti pronti ad eseguire quanto fosse necessario per
fare rispettare gli ordini e le leggi.
Allorquando entrò Alessandro Gonzaga in quel palazzo, il Governatore
trovavasi in una delle interne sue sale, ove stava tutta raccolta la di
lui famiglia, imperciocchè era l'ora del _distillado_. Chiamavasi con
tal nome una bevanda d'uso comune a que' tempi tra i ricchi
Spagnuoli[11], la quale veniva composta di essenza di drogherie
consumate negli spiriti, e stillata nell'acqua frammista allo zucchero:
ed era costume il prenderla il mattino da tutte le persone della stessa
famiglia riunite insieme, la quale usanza è praticata tuttogiorno in
alcune città per bibite d'altra specie. La sala del _distillado_ era
addobbata con arazzi fiamminghi: in mezzo ad essa vedevasi sopra un
tavolo, coperto da ricco tappeto, un gran vaso d'argento che conteneva
l'odoroso liquore, e avanti a ciascuno de' seduti stava collocato un
alto calice di cristallo entro cui veniva versata la bevanda. Dom
Lorenzo Pedraria era quivi assiso in un gran seggiolone: grande e magro
mostravasi di corpo, i di lui capelli, che incominciavano ad incanutire,
vedevansi corti e smozzicati, ad eccezione d'un picciol ciuffo che gli
stava ritto sulla fronte; portava un ampio elevato collare, ed il suo
viso, scarno e improntato d'un'aria grave imperiosa, andava distinto da
due mustacchi e da un fiocchetto di pelo sul mento, tagliato in forma
triangolare, ch'era alla moda del re Dom Filippo. A fianco a lui da
destra stava Donna Graciana, nel cui pingue e imponente aspetto appariva
tutto il _sussiego_ che conveniva alla moglie d'un _hydalgo_, d'un
governatore: aveva dessa d'intorno al collo ornamenti di pietre di gran
valore, ed il suo abito nero a larghe maniche era adornato di pesanti
ricami in oro; presso ad essa stava una sua giovinetta figlia, la cui
bionda capigliatura rilevata ed intrecciata di perle consuonava
mirabilmente colla singolare bianchezza del suo volto: gli abiti di lei
non erano meno ricchi di quelli di sua madre. A sinistra del Pedraria
sedevano Diego e Fernando suoi figli, ardenti, leggiadri ed orgogliosi
giovani che aspiravano ai primi gradi della milizia e che avevano già
cinto il fianco della lunga spada Ibera. Nè mancava in quel convegno
quegli che aveva la spirituale supremazia nella famiglia: stava desso a
capo al desco in contegno umilmente fiero, e dalla foggia dello
scapolare e dalla bianca tonaca che indossava appalesavasi un monaco
dell'ordine dei Domenicani.
[Nota 11: _Lopez Her. Hisp. mor._]
Al momento della venuta colà del Gonzaga regnava quivi perfetto
silenzio, perchè il Governatore, mentre andava vuotando a sorsi il suo
calice di _distillado_, leggeva con somma attenzione frammista a
sorpresa un foglio che teneva nella destra e che gli era stato recato
pochi istanti prima da un messaggiero giunto da Milano. Al rumore dei
passi fatto dal Gonzaga nell'avanzarsi, levò gli occhi di sfuggita, e
appena vedutolo, gli fece una dimostrazione giuliva del volto indicando
essere desso appunto la persona che in quel momento desiderava: scorse
rapidamente le ultime linee del dispaccio, e vuotato d'un fiato il fondo
del bicchiero, il depose sul tavolo, s'alzò, e fattoglisi incontro,
"Avrei mandato, disse, in questo istante a ricercare di lei, signor
Capitano, se per buona sorte non si fosse ella stessa recato in palazzo:
ho a comunicarle un ordine pressantissimo del signor Duca e
dell'Eccellentissimo signor Generale, che mi è pervenuto brevi minuti
sono, e che si è della massima importanza". Ciò detto, chiamò i servi ad
alta voce, salutò della mano la sua famiglia, e preceduto da due paggi
che spalancarono le porte, entrò col Gonzaga in una camera di poca
dimensione, occupata in gran parte da uno scrittoio ornato d'arabeschi
dorati e tutto ingombro di libri, di carte e di fogli stampati, al di
sopra del quale vedevasi in un gran quadro il ritratto in piedi di Carlo
V coll'abbigliamento guerresco, avente sul petto una collana in cui
tenevano luogo di gioie gli stemmi di tutte le provincie del suo impero.
Il capitano Gonzaga, tosto che si fu quivi adagiato, pria che il
Governatore prendesse la parola, disse doversi a lui perdonare l'essersi
recato in sua presenza colla corazza e coll'abito soldatesco lordo e
disordinato, poichè era venuto esso pure premurosamente, e appena tocca
terra di ritorno da una perigliosa e sfortunata spedizione onde
dargliene pronto ed esatto ragguaglio. Il Governatore l'invitò a narrare
tosto l'evento, ed esso raccontò la presa da lui fatta del fratello e
del cancelliere del Castellano di Musso, ponendogli poscia l'avvenuta
loro liberazione sotto l'aspetto il meno che potè obbrobrioso pel
proprio valore e per la propria vigilanza. Fece esagerato novero delle
forze e del numero degli assalitori da cui si disse sorpreso nel più
forte incalzare della tempesta, e ad irrecusabile scusa di sua sconfitta
nominò siccome capo di quella masnada Falco di Nesso, il cedere al quale
non era intero scorno anche ai più esperti Capitani d'armi.
Dom Lorenzo Pedraria quand'ebbe udito con faccia scura e meravigliata
tutta la narrazione del Gonzaga, scosse il capo lentamente, animando il
volto d'un misterioso sorriso; e "Speriamo, rispose, signor Capitano,
che questa sarà l'ultima che ci fanno, e che il Medici e i suoi banditi
non avranno più gran tempo da rimanersi nei loro ripari e molestare con
ruberie ed assassinii gli abitatori di tanto paese d'intorno, come pur
troppo avviene da qualche anno, contro l'intenzione del signor Duca e
dell'Eccellentissimo signor Generale. Ora è preciso volere della Maestà
dell'Imperatore (e rizzossi in piedi inclinando il capo nanti il
ritratto, indi si riassise) che il dominio Ducale sia libero da tali
masnadieri, vengano dessi cacciati in paese straniero, o presi e messi a
morte. Bene adunque comprende, signor Capitano, che avendo i soli
desiderii, non che gl'imperiosi voleri d'un tanto monarca ottenuto
sempre prontissimo e pieno soddisfacimento, andar guari non può che
eziandio questa espressione della suprema volontà sia completamente
adempiuta; onde i felloni incalzati e stretti dalle gloriose armi sue
congiunte alle Ducali ed a quelle della Lega de' Grigioni, dovranno
cercare salvezza in precipitosa fuga, o perdere con meritata pena la
vita".
Così dicendo pose con gravità sott'occhio al Capitano il pervenutogli
dispaccio, improntato al piede da due grandi suggelli, l'uno del Duca,
l'altro del De Leyva. Conteneva desso primieramente a modo d'informativa
essere volontà di Carlo V si riducesse il Medici all'obbedienza o il si
sterminasse; seguiva l'ordine al Governatore ed al Gonzaga, che
capitanava le bande ch'erano allora in Como, dessero immediata mano ad
allestire ed accrescere la flotta disponendola a tutto punto per uscire
a combattimento; aumentassero le vettovaglie, facessero accatto d'armi e
munizioni, e disponessero magazzini per riceverne in gran copia da
Milano: chiudevasi lo scritto coll'annunzio che tra pochissimi giorni
sarebbero giunti in Como un Commissario del Duca per la suprema
direzione dell'armata, uno di Spagna, ed uno degli Svizzeri con gran
numero di soldati e d'artiglierie.
A tenore di tali comandi non vi fu veglia o fatica a cui perdonassero,
sì il Governatore Pedraria, che il Gonzaga per dare compiuta esecuzione
a tutto il prescritto. I lavoratori vennero triplicati intorno alle
navi, che calefatate e munite d'ogni specie d'attrezzi, fecero ben tosto
in porto sontuosa mostra: i cittadini e quei del contado furono posti in
obbligo di pagare gravi contributi; i monasteri, i capitoli, le chiese
stesse non andarono esenti da grossi balzelli in granaglie o danaro da
pagarsi in misura de' proprii tenimenti. Le doglianze per tale enorme
aumento di tributi divennero nella Comasca popolazione universali e
risentite: già il progetto d'una aperta resistenza manifestavasi in più
luoghi, già il tumulto minacciava di farsi generale e imponente, quando
l'arrivo di quattrocento archibugieri spagnuoli guidati dal capitano
Alonzo Canto, ponendo in tema i più arditi e furiosi agitatori della
plebe, sedò e fece sparire ogni sintomo di ribellione.
Dopo quella prima banda giunse in Como Giovan Battista Speziano capitano
di giustizia e commissario generale del campo per il Duca; con esso lui
vennero da Milano i provveditori della milizia seguiti dai carri che
recavano vettovaglie, armi, foraggi sotto scorta di cinquecento e più
fanti d'ogni arma con varie bandiere di cavalli. Arrivò poscia il
Commissario di Spagna, e quello della Lega, indi un nuovo battaglione
d'archibugieri, due di lanzinechi, uno di bombardieri con molte
artiglierie, e finalmente un centinaio di _Lancie libere_, ch'erano così
detti que' giovani patrizii di Milano, o d'altre città soggette al Duca,
che si recavano a combattere per elezione, mantenendo sè, lo scudiero ed
i paggi col proprio danaro, vestendo svariate armature, e portando sullo
scudo, sul cimiero o la sopravveste quegli stemmi od _imprese_ che
meglio bramavano.
Poichè tutta l'armata si fu congiunta in Como, raccoltisi i Commissarii
nel palazzo del Governatore, chiamarono quivi a conferenza il Gonzaga e
gli altri principali Capitani per deliberare in pieno consiglio del modo
da tenersi nella distribuzione di quell'esercito, onde far seguire un
assalto generale contro le forze del Medici, perchè si voleva
annichilirlo, o sloggiarlo per lo meno da tutti i luoghi che possedeva.
In quell'unione d'uomini periti nell'arte della guerra per essere tutti
o condottieri d'armati o sovrintendenti agli eserciti, molti e discordi
essere dovevano i pareri in quella bisogna. Varii infatti furono i
progetti ed i piani di battaglia che vennero quivi proposti e discussi
talora con moderate, ma più spesso con caldissime parole. Coloro che non
s'erano trovati mai a giornata campale contro Gian Giacomo, siccome il
Commissario spagnuolo e molti de' Capitani di recente venuti in queste
terre d'Italia, opinavano che vincere e disperdere quel branco di
banditi, di cui esso era capo, fosse facile e certa impresa per tanti e
sì agguerriti armigeri, quanti erano quelli che si stavano in allora
colà disposti ad assalirli: essere quindi inutile macchinare a lungo
intorno il piano di guerra: non doversi che cercare il nemico e
combatterlo. Alessandro Gonzaga all'incontro, e molti altri Comandanti
di squadre che avevano più volte battagliato contro il Castellano, e ne
conoscevano la potenza, non cessavano dal far presente che desso era tal
uomo da dare una rigorosa lezione a qualunque esercito s'azzardasse
venire seco lui a zuffa disordinatamente e senza un ponderato e perfetto
accordo d'operazioni, ed in ispecial modo allora che trovavasi favorito
dal luogo e già in possesso delle più vantaggiose posizioni.
Dom Lorenzo Mugnez Pedraria appoggiò eloquentemente i detti del capitano
Gonzaga, ed asserì con tutta imponenza, che ogni cura era lieve, ogni
studio dovere, ogni sagrificio necessità allorchè trattavasi di
soddisfare i desiderii e il volere della Maestà dell'Imperatore, Re
delle Spagne e del Brabante, del serenissimo Duca e del Generale
supremo. Lo Speziano, commissario Ducale, uomo autorevole, accorto e
prudente, in mano del quale stava in quel momento la somma delle cose
concernenti la guerra, rimase ben tosto persuaso dell'importanza e
difficoltà di essa, e pose termine ad ogni differenza convenendo coi più
sperimentati, che si dovessero prendere tutte quelle accurate ed
opportune misure che valessero ad assicurarne prospero il risultamento.
Accedettero i dissidenti all'avviso dello Speziano sulla necessità
d'adottare un piano di battaglia, ma allorchè si diè principio a
discuterne le particolari disposizioni, vennero in campo tali ostacoli e
dispareri, che ne fu protratta oltre modo la definitiva conclusione. E
qui cade in acconcio il notare che per un Duce era più malagevole di
quell'età il condurre e disporre a generali fazioni alcune poche
migliaia di combattenti, di quello che a' nostri giorni non sia il
capitanarne un mezzo milione. De' nostri dì fitti battaglioni, immense
squadre di fanti e di cavalli s'avanzano, retrocedono, si volgono a
destra o a mancina ad un cenno, ad una parola di speciali comandanti che
tutti pendono pure da un segno, da un moto d'un duce supremo, il quale
stando a centro della grande massa armata imprime a tutte le parti di
essa un impulso unico, consentaneo, regolare. Tale assoluta
concentrazione di potere che s'emana con sì rapido ed ordinato
concatenamento di comandi opera è tutta della attuale soldatesca
disciplina e dei moderni militari istituti, condotti a perfezione dal
calcolo, dalla sperienza, dal genio dei sommi capitani di cui fu ricca
l'età nostra, in cui si videro e si mirano tuttora eserciti infiniti
essere mossi con maravigliosa agevolezza, e un numero immenso di volontà
e di forze venire spinte, frenate, dirette a desiderio d'una volontà e
d'una mente sola. Nei secoli trascorsi, benchè alle armate presiedesse
un capo supremo, i comandanti delle singole squadre che le componevano
non erano tutti così a di lui ordini sottomessi da eseguirli alla cieca:
alcuni vi si opponevano per orgoglio, altri per ignoranza, altri per
invidia o per odio, e ben di frequenti non era in podestà del Generale
il forzarli all'obbedienza, perchè la difettosa costituzione e la
tenuità dei governi degli Stati e degli eserciti dava facile accesso
alle rivolte, ai tradimenti, alle diserzioni; quindi avveniva che per
evitare difficoltà maggiori d'uopo era spesso pel primo duce piegarsi a
perfetto accordo co' suoi capitani e di tutto seco loro tenere
anticipato consiglio.
Così dopo avere ponderate diligentemente le circostanze, udite tutte le
voci, si venne in quella adunanza di Commissarii e di Capitani a
stabilire alla fin fine il seguente piano di battaglia.
"Ciascuna delle dieciotto grosse navi che stavano preste nel Porto di
Como verrebbe armata di quattro cannoni e porterebbe quaranta uomini
d'armi, cioè venti bombardieri e venti archibugieri, oltre dieci
rematori e un pilota; ad ogni nave presiederebbe un capo-bandiera, ad
ogni tre un capitano. Alessandro Gonzaga terrebbe il supremo comando
quale ammiraglio e generale di tutta la flotta.
"Questa partirebbe una prefissa notte per trovarsi sul far del giorno in
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