Falco della rupe; O, La guerra di Musso - 16

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sì subito compimento, e "Non v'angustiate, a lui disse, onde far
preparare la casa per noi, giacchè debbono passare alquanti giorni prima
che io abbia fatto interamente sgombro il mio abituro della rupe per
venirmene a stare a Musso: ora dobbiamo ricondurci colà, ed io
ritornando poscia a questa Terra recherò la maggior parte di quelle cose
che debbono bastare all'ammobigliamento dell'abitazione d'un povero
alpigiano: Ora Trincone e il Tornasco ci staranno attendendo; essi
avranno già staccata la barca e disposto il tutto pel viaggio, e il sole
già calato dietro i monti ci avverte che è d'uopo che ci avviamo al lido
per partire".
Gabriele nulla osò rispondere, conoscendo per prova quanto fosse vano il
replicare contro le risoluzioni di quell'irremovibile montanaro; diede,
benchè molto a malincuore e non senza un interno moto di rabbia, segno
d'aderire a' suoi detti e si diresse con lui e colle donne verso la
sponda. Siccome il battello di Falco era rimasto sin dal mattino presso
l'arsenale a poca distanza dalle navi da guerra, ed il luogo ove essi si
trovavano al momento che fu risoluto il partire era in una parte di
Musso a quella opposta, Falco condotte alla più vicina riva le donne,
accennò loro di colà attenderlo, e recossi al sito ove stava il suo
navicello per venire quivi a riprenderle, per il che Gabriele restò da
solo con Orsola e Rina.
Era sul principiare della sera: l'ultima purpurea tinta del sole sparita
ben anco dall'acuta sommità del Legnone lasciava risplendere in tutta la
sua argentina luce la luna che apparsa col colmo disco in cielo, i monti
di fianco e di prospetto vestiva di bianco lume, e ne dipingeva come
brune macchie le fosche masse selvose: terse e placidissime stendeva le
sue acque il lago, solo leggiermente increspate qua e là dalle aurette
vespertine che uscendo dalle valli aleggiavano di tratto in tratto su di
esso, spandendosi come un alito gentile che appanna la lucida superficie
d'un cristallo.
Mentre Orsola s'accostava alle acque inoltrandosi alcun poco pel lido
onde spiare se fosse lontano il battello, Rina e Gabriele rimasero soli
vicini, e i loro sguardi s'incontrarono e si sostennero fisi, dimentichi
nel contemplarsi d'ogni cosa creata, sinchè l'eccesso del sentire li
costrinse entrambi a divergere le pupille: la fanciulla abbassandole al
suolo, e Gabriele alzandole all'eterea volta ver' la regina della notte,
ripetendo più fervido colla mente il voto da lui fatto sul baluardo del
Forte d'aver Rina o morire. Una potenza irresistibile però ricondusse a
poco a poco lo sguardo di questo ardente amatore al volto dell'adorata
giovinetta, e quale non fu il suo affanno e la sorpresa veggendola
immobile in un mesto atteggiamento col capo inclinato e le guancie
rigate di pianto! non seppe resistere a tal vista Gabriele, e piegandosi
verso di lei, serrandole una mano con ambedue le proprie: "Che miro mai!
pronunciò con agitata e repressa voce: Voi piangete? voi vi mostrate
afflitta, addolorata? per pietà, Rina, spiegatemi la cagione della
vostra angoscia; fate ch'io possa rasciugare il vostro pianto: non
potrei vivere un istante lontano da voi se vi sapessi dolente e
sconsolata".
"Io doveva o non mai qui venire, o scostarmene mai," rispose Rina con
voce lenta e interrotta dai sospiri, tenendo sempre lo sguardo rivolto a
terra. "Sì, Rina, disse con trasporto d'amore Gabriele: tu qui verrai
per sempre, e allora non vi sarà forza d'uomo che potrà mai più
staccarti dal mio fianco: la mia vita è sacra a te, e nessuna terrena
potenza potrà togliermi ciò che tengo più caro d'ogni tesoro". Levò Rina
su di lui teneramente gli occhi: essi erano pieni di lagrime, di quelle
lagrime preziose che l'amore elíce dalla regione più pura del cuore:
brillavano quelle stille come gemme ai raggi della luna, e facevano più
celeste il lievissimo sorriso con che l'innamorata fanciulla rispondeva
e il pagava delle sue amorose parole. Il battere dei remi annunziò il
giungere della barca: ritto in mezzo ad essa si stava Falco appoggiato
al suo moschetto che aveva ripreso: s'accostò il navicello un momento a
terra: Gabriele diè mano ad Orsola, poscia a Rina a salirvi, e appena
fatto e ricevutone da esse e da Falco un saluto, la barca s'allontanò
rapidamente.
Piena l'anima dei più vivi e soavi sentimenti e d'ogni cara speranza, il
giovine Medici rimase sul lido per tutto quello spazio di tempo in cui
gli fu dato distinguere al lume di luna le forme di chi sedeva in quella
barca che vogava al largo; si mosse quindi di là, percorrendo la strada
che sulla sponda guidava al Castello.
Il conte Giberto Borromeo, preso congedo da Gian Giacomo quella sera
stessa, nel mattino seguente di buon'ora partì con sua comitiva da
Musso, avendo contratto l'impegno d'un nodo nuziale che doveva dare a
Milano l'uno de' più illustri suoi Arcivescovi, ed alla Chiesa un
famosissimo santo, quale si fu Carlo Borromeo, che nacque nel 1538, cioè
sette anni dopo l'epoca del nostro racconto, da questo conte Giberto e
da Margherita, secondogenita tra le sorelle del Medici, la quale colle
germane e le cugine stava allora in quella casa foggiata a monastero,
che sorgeva in vicinanza di Musso, ove il giovine Conte era stato
condotto a pranzo dal Castellano.
Gian Giacomo, che tutta conosceva la possanza della casa Borromeo, di
cui i conti Lodovico, Giberto il senatore, e Pietro Francesco avevano
allora recentemente ottenuti tante dignità e favori da Duchi e da
Monarchi, calcolò che un'alleanza stretta da legami nuziali con quella
stirpe patrizia non poteva che tornargli oltremodo proficua, e pensava
che, estendendo coll'aiuto de' Borromei i confini de' proprii dominii
sino a congiungerli coi loro feudi, tutto il paese compreso fra il Lario
e il Verbano poteva un giorno cessare d'appartenere alla corona Ducale.
Come però le vicende facessero vani simiglianti ambiziosi progetti, si
vedrà nel seguito di questo racconto.
Alcuni giorni dopo la battaglia discese dai monti Mattia Rizzo colla sua
schiera di cacciatori e di uomini d'armi, poichè s'aveva avuta certa
notizia che i Grigioni e gli altri Svizzeri della Lega, conosciuto per
mezzo dei montanari l'esito infelice del combattimento navale, avevano
interamente abbandonate le montagne e le valli circonvicine.
Quest'ultimo favorevole avvenimento venne però controbbilanciato in gran
parte dalle novelle che recarono i messi spediti a Monguzzo: narrarono
essi che Battista Medici nell'assalto tentato dai Ducali contro quel
Castello era rimasto gravemente ferito, buon numero di soldati uccisi, e
le mura in più luoghi aperte e diroccate in modo, da renderne
disastrosissimo e forse impossibile ogni difendimento se il nimico
avesse insistito nella sua intrapresa; ma che per buona ventura i Ducali
che s'erano duplicati di numero due giorni dopo aver posto l'assedio, al
quarto dì scomparvero nel momento appunto che gli assediati si credevano
ridotti a disperato partito.
Ecco come era avvenuto il fatto: Rinaldo Lonato, retrocesso da Lecco,
ove, veduti gli apparecchi di difesa, aveva considerato vano ogni
tentativo d'espugnazione, era venuto a congiungersi sotto Monguzzo col
capitano Tridelberg, che in un assalto dato al Castello, sebbene
respinto dagli assediati, aveva fatto loro provare gravissima perdita:
allorchè questi duci, congiunte le loro forze, stavano per ispingerle ad
una più formidabile scalata, dovettero dimetterne ogni pensiero e
partirsi frettolosamente colle loro truppe da Monguzzo, chiamati a Como
da lettere pressanti dei Commissarii Ducali e del Governatore Pedraria,
i quali appena venuti in chiaro, con indescrivibile cordoglio, della
sconfitta della flotta e della morte dell'ammiraglio Gonzaga, paventando
una sorpresa del Medici in Como stessa, che si trovava affatto sguernita
d'armi e di difensori, si affrettarono a richiamarvi le sparse bande
d'armati.
Il Castellano quando seppe l'infermità del fratello Battista, spedì
tosto a Monguzzo il capitano Mandello con cento uomini d'armi onde
rafforzasse il presidio, comandandogli desse prontissima mano a
ristaurare e rimettere nel primiero stato le fortificazioni, non
perdonando a spesa od a fatica, poichè forte gli premeva il conservarsi
in possesso di quel Castello ch'egli considerava come l'antemurale de'
suoi dominii del lago. Partito il Mandello e assecurata la difesa di
Monguzzo, Gian Giacomo non aveva altro pensiero che il travagliasse,
fuorchè quello dello scarso numero a cui trovavansi ridotti i suoi
soldati, poichè ben vedeva che i dì delle battaglie non erano tutti
trascorsi, e che era per lui urgente necessità di avere a' suoi ordini
numerosa gente per sostenere i futuri inevitabili conflitti.
Si compì però di que' giorni un avvenimento che anche a tale bisogno
promise certo riparo. Il conte Volfango Teodorico d'Altemps, invaghitosi
di Clara la maggiore sorella del Castellano, a lui la richiese in donna,
ed esso gliela concedette, a patto però si recasse in Alemagna alla
terra di Altemps, possedimento di Marco Sittico suo padre, ed assoldate
molte schiere tedesche, inviandole pel Tirolo e pei monti della
Valtellina, le facesse prontamente pervenire a lui in Musso. Il conte
Volfango aderì alla proposta: vennero celebrate le nozze, e partito
colla sposa, giunto in Germania, ove il padre lo accolse con sontuosi
festeggiamenti di conviti e tornei, si diede ad adunare bande armate per
adempiere alla promessa contratta col Castellano.
Un mese all'incirca dopo il matrimonio del Conte d'Altemps arrivò a
Musso un ricco Milanese, feudatario ducale, certo Galeazzo Messaglia,
uomo giovialone in apparenza e dato al motteggiare, ma fino ed accorto
conducitore di politici negozii: mostrò essere colà venuto per sue
private faccende, ed a guarentigia di sua persona offrì commendatizie di
Gio. Angelo Medici, fratello di Gian Giacomo, monaco in un convento di
Milano.
Il Castellano, già svegliatissimo per natura e allora sempre in sospetto
di nemiche macchinazioni, volle subito conoscere dappresso il messere
Milanese che gli fu riferito essere arrivato a Musso, e tale per
l'appunto era il desiderio del Messaglia, il quale non venne inviato
colà per altro fine che per proporre trattative di pace al Medici;
secretamente però, e quasi le esponesse in nome proprio in qualità
d'intermediario tra il Castellano ed il Duca, senza che ne avessero
sentore i Grigioni e senza che in caso di rifiuto il decoro ducale
restasse compromesso. Dopo varii colloquii tenutisi da Gian Giacomo col
Messaglia, in cui questi seppe destramente cattivarsi l'interesse di lui
svelandosi per famigliare e confidente del Duca, venuto un giorno il
buon destro, il Milanese gli fece un quadro assai animato dei mali
gravissimi che quella guerra partoriva ad ambe le parti, e della
carestia che cominciava a regnare d'intorno; parlò poscia della
possibilità di porre un termine alle tante tribolazioni dei popoli di
queste contrade, e disse che sapeva di certo che il Duca non sarebbe
stato lontano dall'accordare la pace sotto certe condizioni: il richiese
tosto Gian Giacomo s'ei conosceva quali potevano essere le condizioni
assolute sotto le quali lo Sforza segnerebbe un trattato che dovesse
mettere un fine alle ostilità. Messaglia rispose ch'egli non poteva
asserirle fondatamente, perchè non era munito delle necessarie facoltà
per ciò fare, ma che era convinto di non colpire lungi dal vero dicendo
essere le seguenti: (erano quelle da lui previamente concertate alia
Corte) I.° "Che al Castellano dovesse restare Musso e Lecco colle
riviere del lago ed altri luoghi vicini di qualche importanza: II.° Che
egli potesse comandare assolutamente senza eccezione di maggior
magistrato, ed in somma che potesse nel suo stato tutto ciò che può un
principe, solo ch'ei riconoscesse nel Duca il supremo e diretto dominio,
sebbene il Duca non potesse sotto qualunque pretesto a lui comandare.
III.° Che il Duca si sarebbe obbligato a somministrargli negli anni
avvenire senza pagamento di gabelle quella quantità di grano e sale che
potesse abbisognare per i suoi paesi. IV.° Che il Duca parimenti darebbe
fede di riputare e trattare in ogni circostanza i soldati ed ufficiali
del Castellano come suoi proprii. V.° Che il Castellano all'incontro
lasciasse Monguzzo con tutto il territorio che possedeva al di là di
Lecco, e pagasse al Duca quaranta mille scudi in una o più rate, e nei
modi e termini che si sarebbero convenuti". Aggiunse il Messaglia che
qualora esso Gian Giacomo fosse disposto ad accettare tali proposizioni,
s'assumeva egli medesimo l'incarico di farsi autorizzare dal Duca a
proporgliele nella forma più autentica onde venire alla stipulazione
solenne d'un trattato di pace. Il Castellano udito il tutto
attentamente, a lui rispose che si riservava manifestargli le proprie
risoluzioni in altra vicina giornata; e licenziatolo, chiamò intorno a
sè il Pellicione cogli altri suoi più fidi, ed espose loro quanto eragli
stato proposto da quel segreto Ambasciatore del Duca, che per tale egli
bene l'aveva riconosciuto. Ai primi quattro capitoli, come il Medici
medesimo, anche i suoi consiglieri opinarono potersi liberamente
aderire, perchè il riconoscere nel Duca il supremo dominio, mentre non
inceppava affatto la sovranità di Gian Giacomo, dava anzi un carattere
di legittimità a quel suo dominio, ch'era ciò appunto che egli
maggiormente desiderava: l'ultimo articolo però fu rigettato ad una
voce, e Gian Giacomo che pendeva dubbio se dovesse sottoporvisi o
rifiutarlo, volle, pria di decidersi, che si sviluppassero estesamente i
motivi del negato assentimento: dopo varii ragionamenti fatti sotto
diversi aspetti da que' suoi cortigiani contro la pretesa dei
quarantamila scudi, che a que' tempi era ingente somma, il Pellicione,
balzato in piedi, esclamò:
"Per la spada di san Michele! hanno da venire a chiedere a noi tutto
questo danaro per lasciarci quello che non ci possono togliere, e per
far terminare una guerra in cui essi hanno sempre avuta la peggio? Ma
che dico, terminare la guerra? Chi ci accerta che quando noi avremo
comperata la pace dal Duca saremo lasciati tranquilli dalla Lega Grisa?
Non è invece più probabile che se gli Svizzeri riportassero
nell'avvenire qualche vantaggio sopra di noi, i Ducali, in luogo di
soccorrerci, si tornerebbero ad unire ad essi per tentare di compire la
nostra ruina? Rammentatevi, Castellano, delle prove che ci hanno già
date della loro mala fede: se vogliono monete, mandate ad essi quelle
che ancora vi rimangono di cuoio colla effe spezzata [17]; ma gli scudi
lucenti del sole che si coniano ora con buon argento nella zecca di
Musso, riserbateli onde comperare botti di vino e cacio per le truppe
Tedesche che saranno qui tra poco condotte da vostro cognato il conte
Volfango d'Altemps".
[Nota 17: Vedi Capitolo III, pag. 83.]
Le vittorie recenti, l'aspettativa delle bande ausiliarie indicate dal
Pellicione, la supposizione che se il Duca era disceso a tanto da fare
pel primo proporre capitoli di accordo doveva essere ridotto a
stringente necessità d'aver pace, per la penuria dei viveri che in
Milano cominciava a regnare, e che quindi non sarebbe stato restio
all'accedere a patti meno vantaggiosi, determinarono Gian Giacomo
Medici, richiamato il Messaglia, a rispondere: che se voleva si
prendesse a trattare sui capitoli da lui esposti, allorquando presentati
verrebbero in nome del Duca medesimo, era d'uopo toglierne l'ultimo
interamente, poichè egli intendeva di non sborsare pure un cavallotto:
che quanto a Monguzzo, l'avrebbe volontieri cangiato con qualche altra
Terra del dominio Ducale, ma che voleva che lo Sforza gli spedisse il
diploma che lo investisse della Signoria di Musso e di Lecco. Il
Messaglia, da sperimentato ed astuto negoziatore qual era, cercò ogni
via di determinare il Medici ad aderire al pagamento dei quarantamila
scudi, esponendo l'incertezza della militare fortuna, il bene della
patria, la tranquillità del possesso, e proponendo varie altre
concessioni in compenso di quella somma, giacchè era stato il solo
bisogno di danaro che aveva costretto il Duca a far tentare
quell'accordo: ma Gian Giacomo fu irremovibile, e il feudatario Milanese
dovette partirsi da Musso senza avere ritratto il più picciolo frutto
dalla sua missione.
L'infelice successo di queste trattative portò vivissimo cordoglio
nell'animo del duca Francesco Sforza, che tante avversità e proprie e
dello Stato tenevano di già in continue agitazioni e tristezze.
Era nell'epoca di cui parliamo prossima a scoccare l'ultim'ora
dell'indipendenza del lombardo regime. Dopo il dominio de' Romani,
cessato nel quinto secolo dell'era nostra, dopo quello de' Longobardi,
de' Franchi e de' Germani, che finì di fatto verso il mille, Milano si
resse per tre secoli, sebbene non senza interruzioni, con governo libero
municipale; alla metà del secolo decimoterzo i Visconti se ne fecero
signori e furono pei maneggi di Giovan Galeazzo nel 1395 investiti dalla
Corte imperiale del titolo di Duchi, che serbarono sino al 1447, nel
qual anno, morto Filippo Maria Visconte, s'estinse con esso la linea
legittima maschile di quella casa e la sua sovrana grandezza. Lungi i
Milanesi dal trar profitto da tale favorevole occasione per riassumere
gli antichi loro diritti, decaduti pur troppo da quella fama di prodezza
e valentía che s'erano acquistata ai tempi del Barbarossa e della Lega
Lombarda, giacquero in uno stato d'obbrobriosa anarchia per tre interi
anni, nel qual tempo i _Capitani del popolo_ o _Difensori della libertà
di Milano_, che così vollero essere denominati quelli che si posero a
capo dell'informe governo della città, nulla mai operarono che
all'assunto titolo corrispondesse.
Sapendo quanto fosse la città infiacchita, miseri ed impotenti i
cittadini, il conte Francesco Attendolo, celebre condottiero d'armati,
che dal soprannome di suo padre era detto Sforza, ponendo in campo il
pretesto d'aver per moglie una figlia del duca Filippo Maria, la quale
pur legittima non era, aspirò alla signoria di Milano, ed assediatola
nel 1450 la ridusse ben presto a tale che, prevalendo nel popolo il di
lui partito, gli furono aperte le porte, ed accolto con acclamazioni e
festeggiamenti, fu proclamato Principe e s'ebbe tosto della ducale
corona fregiata la fronte. Il dominio sforzesco giunse al massimo grado
di potenza e splendore al cadere del secolo decimoquinto, quando sotto
la paterna mano di Lodovico (per la bruna tinta del volto chiamato il
Moro) Milano ricca e pacifica vide fiorire in se splendidissime le arti,
le lettere e le scienze. Ma, per fatale sventura d'Italia, la Francia e
l'Alemagna divenute possenti nazioni trascelsero a campo di loro disfide
questo bel paese, da cui sembrava dovesse l'Alpi escluderle per sempre:
in breve periodo di anni i monarchi francesi Carlo VIII, Luigi XII,
Francesco I visitarono colle loro armate Milano, a vicenda con quelle
dei Germanici Imperatori, il più possente dei quali Carlo Quinto vi
lasciò finalmente stabili presidii e un Generale supremo.
In mezzo ai tanti e diversi avvenimenti delle guerre che gli stranieri
qui combattevano, gli Sforza erano alternamente apparsi e spariti come
picciol legno sopra mare in tempesta. Francesco, figlio dello sventurato
Lodovico ed unico rampollo della famiglia Sforzesca, per magnanimità e
giustizia di Carlo si riassise al fine più stabilmente del fratello
Massimiliano, sul lombardo seggio principesco che sostenne lui ultimo
Duca, e dappoi si cangiò per sempre in uno sgabello da governatore.
Sebbene però il Germanico Cesare avesse riposto lo scettro nelle mani di
Francesco secondo Sforza, non è però a dirsi che questi le tenesse
libere e sciolte come a sovrano signore si conveniva. Antonio De-Leyva,
che sotto colore di rimanersi a difesa del Ducato pel caso d'una temuta
invasione delle armi Francesi si stava a Milano a capo di molte schiere
imperiali, teneva il Duca in quasi totale soggezione: era De-Leyva uno
spagnuolo vigilante, ardito, prepotente, odiato da tutti per le
estorsioni da lui commesse nel suo lungo soggiorno in questo paese, il
quale non aveva altro di mira che di affievolire la podestà ducale per
estendere la propria.
Il Duca, oltre l'importuna ed imperiosa presenza di questo straniero
nella capitale del suo Stato, era angustiato e tenuto in pensiero dalla
prossimità delle armate Romagnole e Viniziane, dai moti popolari di
varie città e più di tutto dall'usurpazione ch'aveva fatta Gian Giacomo
Medici d'una parte importante del ducale dominio, nella quale si
manteneva con tanto vigore ed ostinazione e da dove nuove circostanze
gli facevano ogni dì più tenui i mezzi per iscacciarnelo. Dopo l'esito
infelice della battaglia di Bellaggio, il De-Leyva, che aveva tentato di
troncare il male alla radice con un colpo arrischiato per tre soli, e
che andò fallito come sanno i nostri lettori, richiamate da Como le sue
truppe, dichiarò di non volere più cooperare in modo alcuno alla
continuazione di quella guerra, dicendo essere dessa di privato
interesse del Duca, per cui non doveva l'Imperatore sagrificare uomini e
danari suoi proprii. Questa inaspettata defezione d'un soccorso su cui
Francesco Sforza faceva tanto appoggio, riuscì dolorosissima a lui che
le avversità avevano reso di cuor timido ed affannoso e fattane
cagionevole la salute; poichè sebbene contasse allora soli trentanove
anni, aveva perduto il vigore, era pallido e macilente, e ben mostrava
non dovere, come avvenne, protrarre in lungo i suoi giorni: appariva di
consueto taciturno, ed era dato ad una costante melanconia, abbenchè
quelli che l'approssimavano, asserissero essere egli di carattere dolce
ed umano.
Abitava allora la Corte Ducale in Milano nel Castello di Porta Giovia
[18], una parte interna del quale edificio era conformata a sontuosa
dimora, siccome si scorge tutto giorno ad onta dei travisamenti, delle
mutazioni, delle aggiunte fatte nei secoli posteriori. Poco meno della
metà dello spazio ove ora si estende la vastissima piazza d'armi era
occupata da una specie di parco che andava unito al Castello, intorno al
quale dalla parte della città in luogo dei maestosi viali, dei regolari
erbosi tappeti che presentemente fanno colà sì vaga mostra, era tutto un
incolto ineguale terreno con qualche rozza o diroccata casupola, e più
propinquamente alla Fortezza una gran fossa con barricate e palafitte.
Dentro però al Castello era, come dicemmo, una magnifica abitazione con
ricchi appartamenti ove albergava lo Sforza colla ducale sua corte, la
quale mostravasi splendida e sontuosa come era sempre stata la Corte di
Milano, quantunque scarse omai fossero divenute le entrate.
[Nota 18: L'attuale Castello.]
Allorchè Galeazzo Messaglia ritornò alle soglie ducali narrando essergli
andato fallito lo scopo per cui era stato spedito a trattare col
dominatore di Musso, fu quivi generale la costernazione, poichè tutti
avevano sperato trovare rimedio ai pressanti bisogni nei quarantamila
scudi che alcuno non dubitava avrebbe il Medici pagati per mantenersi ed
essere legittimato negli usurpati possedimenti. Il Duca, più irritato da
quel rifiuto, voleva ad ogni modo domare e punire quel fellone, onde
tentò di procacciarsi i modi d'avere soldati e danaro imponendo nuove
taglie e gravezze; ma la miseria ch'era grande, e la carestia che
s'andava aumentando, fecero non solo inefficaci le gabelle, ma il
travagliato popolo eccitarono a turbolenze e sedizioni che costrinsero
lo Sforza a deporre ogni pensiero di continuare la guerra.
Ai primi di gennaio del seguente anno 1532, pervenne a Milano la novella
che l'imperatore Carlo, per consiglio dei potentati d'Italia, stava
trattando le nozze tra sua nipote Cristina figlia del re di Danimarca ed
il duca Francesco: una tale notizia ed ordini imponenti venuti dalla
Corte d'Alemagna fecero cangiare interamente la condotta del De-Leyva
verso il Duca. Recossi incontanente da lui e gli si proferse disposto
qual vassallo ad assecondarlo in tutto colle proprie schiere,
dichiarandogli ad un tempo che i suoi uomini d'armi verrebbero per lo
innanzi assoldati dall'Imperatore, e che cessava per tal modo
l'obbligazione al tesoro Ducale di versare le grosse mensili somme che a
tal uopo necessitavano.
Consolato da tali esibizioni e proteste, primo pensiero del Duca fu di
trarne profitto per riassumere la guerra contro il Medici: rese grazie
al De-Leyva di sue offerte, e gli fece tostamente conoscere il proprio
desiderio di riprendere le ostilità contro il ribelle Castellano di
Musso onde reintegrare in ogni parte il Ducato. Il duce Spagnuolo ripetè
non essere altra brama in lui che di favorire con ogni potere la volontà
del Duca, e che tutte le truppe imperiali erano a sua disposizione: lo
Sforza volle determinassero tostamente insieme la persona che si doveva
porre a capo dell'armata da spedirsi a Como, onde i fatti d'armi
riuscissero più efficaci e decisivi di quello che non fossero stati per
l'addietro.
Trovavasi allora in Milano Lodovico Vestarino, capitano rinomatissimo
che aveva battagliato a lungo al soldo dei Veneziani e degli Svizzeri, e
s'aveva quindi acquistata somma perizia nei combattimenti navali e nelle
guerre pei monti: nessun altro parve al Duca ed al De-Leyva più adatto
ad aversi il comando dell'esercito destinato ad agire contro Gian
Giacomo Medici. Chiamato a Corte ed affidato a lui l'incarico di quella
guerra, prese sotto i suoi ordini numerose colonne d'uomini d'armi; ne
mandò notizia alla Lega Grisa; e poco dopo la metà di gennaio mosse alla
volta di Como. Il governatore Dom Lorenzo Mugnez Pedraria attendeva
quivi ansiosamente quei rinforzi, poichè temeva ad ogni istante venisse
la città assalita dal Castellano, divenuto per esso tanto più terribile
ed odioso da che un'armata spedita contro di lui per espresso volere
dell'Imperatore non aveva potuto nè vincerlo nè domarlo.


CAPITOLO UNDECIMO.
Avvolto in mezzo un turbine
Che il passo, il fiato aggreva,
Di nevi che giù fioccano,
Di nevi che solleva
Dagli scheggioni il vento
A periglioso evento
Affretta il suo cammin.
E che non può l'indomito
Che in altri scontri i lutti
De' suoi compagni esanimi
Vide con occhi asciutti,
Se a disperato scampo
Contro il nemico inciampo
S'avventa battaglier!
IL CONTRABBANDIERE.
_Esper.° di Mel. Liriche._

Era un'invernata delle più rigide e perverse: intenso oltre modo durava
il freddo, il cielo mostravasi sempre coperto da fosche nebbie, tutto il
piano ed i monti biancheggiavano per alte nevi che frequentissime
cadevano e venivano congelate al suolo dai gelidi soffii settentrionali.
Sembrava non dovere esservi tempo che meno di quello fosse propizio
all'armeggiare, nè più indicato al riposo delle truppe negli
alloggiamenti, pure Lodovico Vestarino, sia che avesse sentore che
all'aprirsi della stagione giungere dovevano rinforzi di bande tedesche
al Castellano, sia che non potesse per altre cause frapporre indugio
all'incominciamento delle ostilità, appena giunto in Como dispose
quant'era d'uopo per dar principio alle militari operazioni. Egli
vedeasi a capo di squadre ben munite e numerose, condotte da capitani
sottomessi e preparati alla guerra; era certo di non venire incagliato
ne' suoi divisamenti da commissarii e sopraintendenti ducali o
spagnuoli, poichè il Duca e il De-Leyva avevano affidato a lui solo il
supremo comando, quindi non dubitava punto che con tali mezzi,
adoperando eziandio molta cautela e prudenza contro un nemico
audacissimo ma affievolito, le sue intraprese fussero per ottenere
felice risultamento. Spedì per via sicura un messo ai Capi della Lega
Grigia onde interpellarli se intendevano agire subito in quella guerra
di concerto colle armi Ducali; ma essi risposero che le profonde nevi,
le valanghe, le bufere invernali delle montagne ove abitavano, non
concedevano loro d'abbandonare i casolari, nè di raccogliersi in
ischiere e discendere a prendere parte ai combattimenti, il che
avrebbero effettuato appena i sentieri divenissero praticabili. Il
Vestarino s'ebbe più contento che doglia da tale annunzio, poichè, duce
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