Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 19

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appuntandogliela alla vista in modo che un poco gli toccava la fronte,
gli gridò: Renditi o sei morto. Il barone, ancor mezzo fuor di sè, non
rispondeva; e questo silenzio potea costargli la vita: gliela salvò
Bajardo, gridandolo prigione.
Condotto via La Motta da' suoi famigli che lo consegnarono al sig.
Prospero, Fieramosca si voltò per risalire a cavallo: il cavallo
era scomparso: girò lo sguardo per la battaglia e vide che Giraud
de Forses, essendogli stato morto il suo, avea tolto il destriere
dell'Italiano e stava fra' suoi facendo ancor testa agli uomini
d'arme nemici. Il buon Ettore conobbe che solo e a piedi non avrebbe
potuto riaver il cavallo. L'aveva nutrito ed allevato di sua mano, ed
addestrato a seguirlo alla voce, onde non si confuse; fattosegli più
presso che potè cominciò a chiamarlo, battendo il piede come era usato
di fare quando voleva dargli la biada. Il cavallo si mosse per venire
a quel cenno, e volendo il cavaliere contrastargli, prima cominciò
ad impennarsi, poi si mise a salti, e, senza che colui potesse nè
opporglisi nè governarlo, lo portò suo malgrado fra gli Italiani che,
circondatolo, l'ebber prigione senza colpo di spada. Scendendo dal
cavallo sul quale tosto saltò Fieramosca, malediceva la sua fortuna;
ma questi, resagli per la punta la spada che gli era stata tolta, gli
disse:
--Fatti con Dio, fratello, piglia le tue armi e torna fra' tuoi, chè i
prigioni gli abbiamo per forza d'arme, e non per arti da ciurmadori.--
Il Francese, che ogn'altra cosa s'aspettava, restò molto maravigliato.
Pensò un momento, poi rispose:
--S'io non m'arrendo alle vostre armi, m'arrendo alla vostra
cortesia:--e, presa la sua spada alla metà della lama, andò a deporta
a terra avanti al signor Prospero: e fu detto da tutti quelli che
lodavano l'atto cortese di Fieramosca, anche il Francese aver operato e
parlato saviamente. Per la qual cosa esso solo fu poi rimandato senza
che pagasse il riscatto.
La parte francese era scemata di quattro delle sue migliori spade,
mentre l'italiana contava ancora i suoi tredici uomini a cavallo e
si poteva facilmente conoscere in qual modo la cosa dovesse andar
a finire. Nonostante, i Francesi scavalcati, che erano cinque, si
serrarono insieme; ai loro lati si posero due per parte i quattro
a cavallo, e così ordinati si disposero a far testa di nuovo agli
Italiani, i quali rannodando per la terza volta la loro battaglia,
fecero impeto tutt'insieme sugli avversarj.
Non venne in mente ad alcuno che questi vi potessero reggere, ma
ammirando tuttavia la costanza e l'arte di quella brava gente, crebbe
negli spettatori l'ansiosa curiosità di veder l'esito del loro
ultimo disegno; e quasi ad alcuni sapeva male, che con tanto valore
dovessero cimentarsi con grandissimo rischio della loro vita ad un
giuoco tanto disuguale. Ma per questo non temevano i Francesi: pesti,
feriti, coperti di polvere e di sangue, pure offrivan fiero ed onorato
spettacolo stando arditi ad aspettare la rovina che veniva loro addosso
di tanti cavalli, e pareva dovesse ridurli in polvere. Si mossero
alla fine gl'Italiani, non colla prima celerità, che la stanchezza lo
vietava ai cavalli, molti dei quali per le violente scosse dei freni
avean la bocca coperta di spuma sanguigna. Alzarono i cavalieri più
forte il grido di Viva Italia! e malgrado l'instare degli sproni,
vennero a ferire d'un galoppo grave e sonante. Nonostante le leggi
promulgate al principio, fu tale la smania di curiosità che invase a
quel punto gli spettatori, che il cerchio formato da loro all'intorno
s'andò progressivamente stringendo. Gli uomini che avean la cura di
mantener l'ordine, curiosi più degli altri, anch'essi seguiron quel
moto concentrico, come vediamo succedere quando in piazza si caccia il
toro, che al principio ognuno sta saldo al suo luogo, ma quando un cane
comincia ad attaccarsegli all'orecchio, e poi se n'attacca un altro,
e quasi hanno fermato il loro nemico, nessun può più star a segno,
crescon le grida, gli schiamazzi, si scioglie l'ordine, ognuno si
spinge avanti per veder meglio.
In mezzo alla fila di nuovo schierata degli Italiani s'era posto
Fieramosca, il quale aveva il miglior cavallo; ed ai suoi lati, a mano
a mano quelli che l'aveano meno stanco, o più corridore; cosicchè
nell'andar addosso ai nemici il centro si spinse avanti, figurando
un cuneo, del quale Ettore era alla punta. Quest'ordine fu tanto ben
mantenuto che, giunto al ferire, sforzò la fila dei Francesi senza che
potessero pervi riparo. Qui sorse una nuova zuffa più serrata, più
terribile che mai: al numero, al valore, alla perizia degli Italiani
s'opponevano sforzi più che umani, disperazione, rabbia del disonore
imminente ed inevitabile: i prodi ed infelici Francesi, fra un turbine
di polvere, cadevano insanguinati sotto le zampe de' cavalli, si
rialzavano afferrandosi alle staffe, alle briglie de' vincitori;
ricadevano, spinti, maltrattati, calpestati, rotolandosi sotto sopra,
mezzo disarmati, cogli arnesi infranti, e pur sempre sforzandosi di
riaversi, raccogliendo in terra pezzi di spade, tronchi di lancia, e
perfino sassi onde ritardar la sconfitta.
Ettore, il primo, alzò il grido onde lasciasser l'impresa e si
rendesser prigioni; ma appena era udito in quel fracasso; o se
l'udivano, negavan coi fatti, soffrendo muti quelle orribili percosse;
ed ebbri pel furore, seguitavano la mirabil difesa. De' quattro che
eran ancor in sella al principio di questo ultimo scontro, uno era
caduto, e si difendeva a piedi; a due erano stati morti i cavalli: il
quarto, preso in mezzo, era stato fatto prigione. Sarebbe impossibile
il descrivere tutti gli strani accidenti, i colpi, gli atti disperati
che accaddero in quegli ultimi momenti, dei quali fra gli spettatori
rimase per molti anni una memoria di maraviglia e di orrore.
De Liaye, per dirne uno, fu veduto afferrare a due mani il freno di
Capoccio romano, per istradargli, se potesse, o togliergli la briglia;
il cavallo se lo cacciò sotto colle zampate, ma non potè mai farsi
lasciar dal Francese, che trascinato pel campo fu condotto in tal modo
innanzi al signor Prospero, e ci vollero molti ajuti e molte braccia,
tanto era fuor di sè stesso, a fargli aprire le mani e porlo fra i
prigionieri. Alla fine parve agli Italiani stessi troppo crudel cosa
seguitare una simil battaglia; il gridar di Fieramosca fu imitato dagli
altri, e tutti insieme sospeso il ferire, venivan dicendo a quei pochi
superstiti: _prigioni_.... _prigioni_.
Fra il popolo cominciò un bisbiglio, crebbe, e senza che valesse
l'opposizione degli araldi, cominciaron voci e poi schiamazzi ed urli
onde finisse il combattere, ed i Francesi avesser la vita salva: rotti
gli ordini, s'era stretta la turba intorno ai combattenti, che si
trovavano chiusi in un cerchio di trenta o quaranta passi di diametro:
chi gridava, chi faceva svolazzar fazzoletti e cappelli, quasi sperando
di partir così la battaglia; chi si volgeva ai giudici ed ai padrini.
Il signor Prospero fattosi far luogo, e venuto più presso, alzava la
voce e il bastone per indurre i Francesi alla resa; Bajardo, anch'esso,
per quanto sentisse dolore dell'infelice riuscita de' suoi, visto esser
inutile un maggior contrasto, e pensando che era troppo peccato lo
sprecar così il sangue e le vite di que' valorosi, si spinse avanti,
e gridava ai suoi che finissero, e si desser prigioni: ma nè la sua,
nè l'altrui voce non era ascoltata dai vinti, che avendo appena ancora
sembianza d'uomini parevan piuttosto demonj, furie scatenate. Scesero
alla fine anche i giudici dal tribunale; vennero in mezzo al cerchio,
fecero dar nelle trombe e gridar ad alta voce gl'Italiani vincitori:
questi allora voller ritirarsi, ma tutto era niente: i loro nemici, che
la rabbia, il dolore, le ferite avean inebriati al punto di non capire
e non sentir più nulla, seguitavano, come tigri che siano strette fra
gli avvolgimenti d'un serpente, a ghermirsi come potevano co' loro
avversarj.
Diego Garcia, finalmente, visto che non v'era altro modo, prese
partito, e gettandosi alle spalle di Sacet de Jacet, che attaccato con
Brancaleone pretendeva strappargli l'azza dalle mani mentre questi era
in forse d'appiccargliene un colpo sul capo, ed al certo l'avrebbe
fatto cascar morto, l'avvinghiò con quella sua maravigliosa forza,
e lo trasse suo malgrado fuor della zuffa. Quest'esempio fu imitato
da molti spettatori, e in un momento furon tutti addosso ed attorno
ai combattenti, e quantunque ne riportassero qualche percossa, pure,
urtandosi, stracciandosi i panni, dopo molto stento e molto tirare,
vennero a capo di levar di mezzo que' cinque o sei uomini mezzo
fracassati; e quantunque si dibattessero ancora, e schiumasser di
rabbia, pure alla fine li trassero sotto le querce cogli altri prigioni.
La prima cura di Fieramosca, finito appena il combattere, fu gettarsi
da cavallo e correre a Grajano d'Asti, che giaceva immobile nel luogo
ov'era caduto.
Quando Brancaleone ebbe fatto il bel colpo, il cuor generoso di Ettore
non avea pur potuto difendersi da un primo moto di gioja. Ma nato
appena, lo represse un sublime e virtuoso pensiero. Venne a lui, fece
cansar la gente che gli stava affollata intorno, e gli s'inginocchiò
accanto. Il sangue scorreva ancora dall'ampia ferita, ma lento ed
aggrumato: gli sollevò il capo adagio adagio, e con tanta cura, che
si sarebbe pensato avesse a salvare il suo più caro amico, e giunse a
liberarlo dalla barbuta.
Ma l'azza, spaccato il cranio, era entrata nel cervello tre dita: il
cavaliere era morto. Ettore con un sospiro, che sorse dal profondo
del cuore, depose di nuovo a terra il capo dell'ucciso, e rizzatosi,
disse a' suoi compagni che erano anch'essi venuti a vedere, e più
direttamente a Brancaleone:
--Codesta tua arme (ed additava l'azza che quegli teneva in pugno
stillante ancora di sangue) ha compiuta oggi una gran giustizia. Ma
come potremmo godere tal vittoria? Il sangue che inzuppa questa terra
non è egli sangue italiano? E costui, forte e prode in guerra, non
avrebbe potuto spargerlo a sua ed a nostra gloria contra i comuni
nemici? La tomba di Grajano allora sarebbe stata venerata e gloriosa;
la sua memoria, un esempio d'onore. Invece egli giace infame, e sulle
sue ceneri peserà la maledizione de' traditori della patria....--Dopo
queste parole tornarono tutti in silenzio e pensosi ai loro cavalli. Il
cadavere fu la sera portato a Barletta, ma quando si volle seppellirlo
nel sagrato, il popolo, levato a rumore, non lo permise. I becchini lo
portarono al passo d'un torrente a due miglia dalla città, cavarono
una fossa e ve lo chiusero. D'allora in poi quel luogo fu chiamato il
_Passo del traditore_.
Il signor Prospero prima di moversi per uscir del campo, voltosi
a Bajardo gli domandò se voleva sborsare il riscatto de' suoi. La
millanteria di La Motta venne così scontata da Bajardo, il quale non
rispose: ed i giudici decretarono che i prigioni dovessero seguire i
loro vincitori a Barletta. Si avviarono a piedi, muti, sbalorditi,
circondati da una folla immensa, e gl'Italiani li seguivano a cavallo,
al suono degli stromenti, e fra le grida di: _viva Italia! viva
Colonna!_
Giunti alla rocca, e saliti nella sala, i tredici guerrieri
presentarono i dodici prigioni a Consalvo che gli aspettava in mezzo
alla sua baronia. Il gran Capitano dopo aver molto lodato i vincitori,
si volse ai Francesi e disse loro:
--Non sarà mai ch'io voglia insultare alla mala fortuna d'uomini
valorosi: l'arme son giornaliere, e chi è vinto oggi può vincer
domani. Non vi dirò di rispettar d'or innanzi il valore italiano:
dopo simili fatti le mie parole sarebbero superflue. Vi dirò bensì
che impariate d'or innanzi ad onorare il valore e l'ardire ovunque si
trova; ricordandovi, che Dio l'ha distribuito fra gli uomini, e non
l'ha accordato come un privilegio alla vostra nazione; e che il vero
coraggio è ornato dalla modestia, e vituperato dalla millanteria.--
Dopo queste parole licenziatili, tutti insieme uscirono della sala, e
cotal fine ebbe quella gloriosa giornata.


CONCLUSIONE.

Tutti coloro che narrano o scrivono una storia, (siamo sinceri) hanno
in sè un po' di speranza ch'essa possa dilettare, e che si trovi
qualcuno che l'ascolti o la legga fino alla fine: anche noi abbiam
sempre avuto riposta in un cantuccio del cuore questa speranza, che,
simile alla fiamma d'una candela esposta al vento, alle volte si faceva
maggiore (rida pure il lettore, che ha ragione), alle volte piccina
piccina, e stava per ispegnersi; ma l'amor proprio ha saputo governarla
così bene che non s'è spenta mai fin'ora.
Se questo sottile adulatore non ci ha ingannati; se realmente s'è
trovato un lettore abbastanza paziente per accompagnarci fin qui,
possiam lusingarci che abbia caro udire qualcosa di più sul conto di
Fieramosca; e noi molto volentieri gliene diremo ciò che ne abbiam
potuto sapere.
Quando Consalvo ebbe licenziato i vincitori ed i prigioni, questi
vennero accolti e ben trattati in casa di Colonna, ove dormirono quella
notte; e l'indomani essendo stati recati i danari del riscatto dal
campo francese, vennero rimandati liberi ed accompagnati da molti fin
fuor della porta con quelle dimostrazioni d'onore che meritava la loro
valorosa difesa.
Ma Fieramosca, uscito appena dalla presenza del gran Capitano, non
badò più a loro. Poteva finalmente pensare a sè ed a Ginevra, onde si
tolse chetamente di mezzo a' suoi compagni che se n'andavano fra una
turba d'amici, e che inebriati per l'allegrezza della vittoria non
potevano in quel momento aver altri pensieri, nè por mente a lui. Vide
in fondo ad una delle logge del cortile Vittoria Colonna, che, dopo
essersi trovata presente all'accoglienza fatta da Consalvo ai tredici
guerrieri, ritornava nelle sue camere, ed era presso ad entrarvi:
onde messosi a correre, e chiamandola a nome, la fece volgere e
fermarsi. Vittoria, cui eran venute all'orecchio parte delle vicende di
Fieramosca, indovinò che cosa fosse per domandarle.
Oh Dio! che rispondergli? pensò fra sè: ma non ebbe tempo a riflettere,
che già Ettore le stava vicino. Avea l'armatura coperta di polvere, ed
intaccata qua e là dai colpi ricevuti; sull'elmo una sola penna rotta,
dell'altre non eran rimasti che i fusti; e la visiera alzata lasciava
vedere il suo bel volto, affilato per la fatica, asperso di sudore, e
pieno tutt'insieme d'allegrezza per la gloria ottenuta, e d'ansietà
pel desiderio di ritrovar quella che dopo la morte di Grajano poteva
finalmente dir sua.
Siccome il cuor dell'uomo è inclinato a sperare o temere a seconda
delle circostanze in cui si trova, lo scoramento, direi, la
disperazione che aveva provato la notte e la mattina prima della
battaglia, pensando ai casi di Ginevra, ora colla scossa fisica e
morale ricevuta dal lungo combattere, colla ineffabil gioja dell'aver
vinto, s'era mutata in una confidente speranza di trovarla sana e salva.
--Madonna!--disse col respiro frequente che vien prodotto dal
batticuore:--Dio vi rimuneri, e vi benedica; so tutto.... che
l'avete accolta, che le avete fatto tanto bene.... poverina.... e'
bisognava....! Conducetemi da lei, andiamo per amor di Dio.--
Ogni parola del giovane era una coltellata al cuore di Vittoria, e
non le bastò l'animo di dargli la nuova dolorosa; anzi ebbe forza di
comporre il volto ad un mezzo sorriso e gli disse:
--Ginevra è di nuovo a Sant'Orsola (era vero pur troppo, che un'ora
prima del ritorno degli Italiani dal campo era stata portata al
monastero, accompagnandola Fra Mariano onde seppellirla nella notte).
--A Sant'Orsola! come, così presto? dunque non ha avuto male? dunque
sta bene?
--Sì, sta bene.--
Fieramosca aprì le braccia (tanta fu la piena dell'allegrezza) come per
abbracciar Vittoria, ma invece posto a terra un ginocchio, presale una
mano, vi stampò baci di gratitudine, che valevan più di mille parole.
Poi s'alzò, come fuor di sè, e se n'andava senza dir altro per correre
a Sant'Orsola: si fermò un tratto, guardandosi sul petto, e tornò
indietro.
--Vedete, signora--diceva sorridendo con una cotal trepidanza--vedete
questa tracolla azzurra, me l'ha data essa.... oggi un colpo di spada,
trovando la corazza che consentiva di sotto, l'ha tagliata in due.--
In così dire scioglieva il nodo che avea fatto coi due capi onde non
cadessero.
--Son troppo ardito, lo so, ma in grazia, v'increscerebbe racconciarla
tanto che Ginevra non s'avvedesse ch'è tagliata? Sel torrebbe,
poverina, a mal presagio.... direbbe: Non sapevi coprirla collo
scudo....?--
Vittoria s'avviò volentieri alle sue camere a prender ciò che
bisognava, contenta di potersi togliere così un momento dal giovane
e nascondergli la commozione che provava nel veder la sua ingannevol
fiducia. Tornò più rinfrancata, e si pose a racconciar la tracolla, e
tenendo il viso basso, Fieramosca non s'accorse di nulla.
--Appena--diceva questi sorridendo mentre l'altra lavorava--appena
si conosce più di che colore ella sia...... ha passate di gran
fortune..... m'è stata compagna al male, ora lo sarà al bene. Sapete da
quanti anni non la lascio mai!.... l'ho salvata in tante battaglie...
ed oggi!... quando tutti i miei dispiaceri si volgono in allegrezza....
me l'hanno da aver guastata! Chi credesse agli augurj che cosa saprebbe
dire?--Vittoria attendeva a cucire senza risponder parola. Contrastata
fra il pensiero che bisognava pur fargli conoscer la verità, e
l'invincibile ripugnanza che provava a dargli un tanto dolore, credè
poter conciliar tutto col cercar Brancaleone, tosto che Ettore fosse
partito da lei, ed avvertirlo onde soccorresse il suo amico in questa
terribil prova.
--Vi ringrazio mille volte--disse Ettore quando fu terminato il lavoro;
e giù per lo scalone, in un lampo fu in cortile. Non v'era rimasto
altri che il suo servo Masuccio che teneva per la briglia il cavallo
coperto di schiuma; la povera bestia avea il capo basso e l'occhio
spento; un ansar grave le facea battere il fianco.
--Alla stalla, alla stalla--gridò Ettore al fante, nel passargli
vicino--chi t'insegna?..... un cavallo sudato fermo all'aria!--ed uscì
del cortile dirigendosi al porto per andar a Sant'Orsola: per mare era
più breve il tragitto.
Giunto ove si usavan tenere i battelli, non ve ne trovò nemmeno uno.
Le navi che portavan le soldatesche venute di Spagna avean gettato
l'ancora in porto, e volendo Consalvo che le truppe scendessero a terra
prima di sera, tutte le barche erano state tolte per questo servizio.
Ettore battè i piedi per l'impazienza, poi disse:--Anderò a cavallo:
è un po' più lunga; così sia.--Venne alla stalla: Masuccio stava per
toglier la briglia ad Airone.
--Lasciagliela--disse Fieramosca. La prese dalle sue mani, gliela buttò
sul collo, con un salto fu in sella, e dopo pochi minuti era fuor di
città sulla strada lungo il lido che va al monastero.
--Povero Airone!--diceva battendogli colla mano sul collo, mentre
affrettava col calcagno il trotto svogliato del buon destriere che
trovava duro gli venisse vietata la stalla dopo tanta fatica:--Hai
ragione; ma abbi pazienza un altro poco, e ti ristorerò di tutto.--
La notte intanto s'andava avvicinando: era già tramontato il sole da
una mezz'ora: Fieramosca, il quale camminava verso l'Oriente, aveva
dietro le spalle il cielo sgombro e sereno, ed in faccia lo vedeva
occupato da lunghi nuvoloni neri che di sotto finivano in una riga
parallela all'orizzonte. Da questa si vedevano molte strisce di
pioggia più o meno dense scendere a piombo sulla linea del mare; e
le cime di quell'ammasso di nubi che salivano sino a mezzo il cielo,
percosse ancora dalla luce del crepuscolo, si colorivano di una tinta
biancastra. Durava quasi continuo in mezzo a quel buio il luccicar
tremolo dei lampi, ed il romoreggiar cupo e lontano dei tuoni. Il mare
andava ingrossando, e minacciava fortuna; gonfio e nel mezzo d'una
tinta quasi nera, sulla sola cresta dell'onde si vedeano scorrere
spruzzi bianchi e minuti: alla spiaggia poi i flutti alzandosi
gradatamente finivano in una lama sottilissima, verde e trasparente,
che veniva avanti simile ad un muro di vetro, finchè l'estremo lembo
ravvolgendosi in sè stesso cadeva con fragore e inondava di schiuma la
ghiaja asciutta del lido.
L'apparenza malinconica del tempo non poteva però in quel momento
turbar d'un punto la felicità del giovane italiano. Misurava con occhio
impaziente il tratto di strada che lo separava da Sant'Orsola, ed
essendo la piaggia rasa e scoperta, potea vederlo tutto. Si immaginava
il piacere del primo apparir di Ginevra; se la vedeva venir incontro
con quel suo volger d'occhi onesto, con quel moversi leggiadro e tutto
grazia. Sperava poter giunger il primo a darle nuova della vittoria, e
solo si travagliava considerando in qual più convenevol modo avesse a
farle conoscere che ella oramai potea disporre della sua mano.
A due tiri d'archibugio dalla torre, il vento di levante che lo feriva
in viso avea portata più vicina la bufera: larghi goccioloni venivano
di traverso e percuotendo sulla corazza rimbalzavano in ispruzzi;
spesseggiano, divengono a poco a poco minuti e fitti. Succede un colpo
di tuono, pel quale sembra siasi levata in cielo una cateratta, e
comincia un rovescio d'acqua che lava Fieramosca da capo a piedi benchè
lo cogliesse a pochi passi dalla torre. La porta era ancora aperta;
trapassò veloce, e presto fu nell'isola ed alla foresteria. Legato ad
una ferriata il cavallo, dov'era dal tetto un po' di riparo, in quattro
salti fu nelle camere di Ginevra.
Sarà inutile il dire che le trovò vuote. Ridiscese, ed alla prima pensò
di cercarla in chiesa. Sapea ch'essa andava per lo più a pregare in un
coretto, posto su in alto; appena entrato, vi gettò lo sguardo: era
vuoto, la chiesa vuota, e quasi affatto buja; vuota la parte del coro
che si vedeva: pure egli sentiva un salmeggiar cupo, come uscisse di
sotterra. Andò avanti, e s'accorse che dal foro posto innanzi l'altar
maggiore, il quale rispondeva giù nella cappelletta, usciva un raggio
che andava a figurare nella volta un tondo di luce scolorita; quando
vi fu vicino, sentì che si recitavan preci nel sotterraneo. Voltò
dietro l'altare, e scese. Il suono delle sue armi, degli sproni e del
puntale della spada che batteva sui gradini fece volger quelli che
formando un cerchio empievano la cappella; s'aprirono: ai piedi si
trovò il cataletto che avea visto la mattina nella sagrestia di San
Domenico: in faccia accanto all'altare era Fra Mariano in rocchetto,
stola da morti, e col braccio levato, teneva l'asperges; in mezzo, un
avello aperto; di qua due uomini che ne tenevan ritta la lapide, di là
Zoraide ginocchioni, curva sul corpo di Ginevra che era già dentro, e
singhiozzando le componeva il velo intorno al volto ed una corona di
rose bianche sulla fronte.
Ettore giunto al basso, vide, stette immobile, senza mandar una
voce, senza far un atto, senza batter palpebra: il suo viso a poco a
poco s'affilò, divenne pallido come la morte, le labbra gli tremavano
convulse, e grosse gocciole di sudor freddo gli scorrevano dalla fronte.
A Zoraide si raddoppiarono i singhiozzi, e Fra Mariano, con voce
malferma che mostrava quanto il suo cuore si lacerasse alla vista
dell'infelicissimo giovane, potè pur dire:
--Jeri è volata in cielo; Dio la fa ora più contenta che non sarebbe
stata fra noi....--
Ma anch'esso, il buon frate, sentì dal pianto troncarsi le parole, e
tacque.
La pietra, ricondotta coi pali di ferro sul vano della tomba, trovò il
suo incastro, vi cadde, vi si fermò.
Ettore era sempre immobile: Fra Mariano venne a lui, gli prese la mano,
che ebbe senza resistenza, l'abbracciò, lo volse per farlo uscir di
colà, ed Ettore obbedì. Saliron la scala, usciron di chiesa; duravano i
lampi, i tuoni e l'acqua a secchie. Quando furon presso la foresteria,
si sviluppò Fieramosca dalle braccia del frate, e prima che questi
potesse quasi profferir parola, era già in sella curvo sul collo del
cavallo, fittigli nella pancia gli sproni; ed il galoppo sonava sotto
il portone della torre.
Nè gli amici di Fieramosca, nè uomo nessuno di quell'età lo vide mai
più, d'allora in poi nè vivo nè morto.
Si fecero varie congetture sulla sua fine; tutte però vane ed incerte.
Una sola potè presentare un tal che di verisimile e fu questa.
Alcuni poveri montanari del Gargano, che attendevano a far carbone,
raccontarono ad altri villani (e così da bocca in bocca dopo molto
tempo corse la voce in Barletta, quando già s'era levato il campo
spagnuolo), che era loro comparso, una notte d'un gran temporale, una
strana visione d'un cavaliere armato a cavallo sulla cima di certe
rocche inaccessibili, che stavano sopra un burrato cadente a piombo nel
mare: cominciarono a dirlo pochi, poi molti, poi alfine tutti dissero e
tennero per fermo fosse stato l'arcangelo San Michele.
Quando però lo seppe Fra Mariano, e venne a confrontar l'epoche, pensò
invece potesse essere stato Ettore, che fuor di sè, spinto il cavallo
in luoghi difficilissimi, alla fine fosse caduto con esso in qualche
ignoto precipizio, e forse anche nel mare.
Nel mille seicento sedici, essendo rimasto a secco un tratto di una
scogliera sotto il Gargano, ad un pescatore venne veduto incastrato fra
due pietroni un ammasso di ferraglie quasi interamente rose dal salso
marino e dalla ruggine, e vi trovò fra mezzo ossa umane, e il carcame
d'un cavallo.
Ora il Lettore pensi ciò che gli par meglio, che la nostra storia è
finita.
Credere ch'ella possa venir bene accolta per i suoi meriti sarebbe vana
e ridicola lusinga; ma stimiamo ci sia lecito sperare che gl'Italiani
accettino con amorevole indulgenza il buon volere di chi ricorda loro
un fatto, che tanto gli onora. Per far vieppiù risplendere il valore
de' vincitori non ci siam creduto lecito introdurre circostanze a
carico dei vinti, che si scoprissero false leggendo le storie di
Giovio, di Guicciardini e degli altri scrittori che parlano di questo
fatto. Non era nostro scopo far ingiuria al valor de' Francesi, che
siamo i primi a riconoscere ed a lodare; ma soltanto render noto quello
che mostrarono gl'Italiani; e non avevam bisogno d'alterar la storia,
dalla quale ci vien resa piena giustizia. A questo proposito ci sia
lecito dichiarare quanto da noi si stimi sciaurata contesa quella che
accende gli uomini delle diverse nazioni a rinfacciarsi a vicenda,
e spesso ajutandosi con menzogne, le loro onte ed i loro delitti:
e quanto all'opposto si reputi degno ufficio di chi vuole il bene
dell'umanità, con quella legge d'amore e di giustizia proclamata dal
Vangelo, il porre un piede su queste faville d'odj pur troppo lunghi e
micidiali.
Ma che diremo delle inimicizie ancor più sacrileghe e più insensate,
che son durate sì lungamente e sì frequentemente risorte fra le varie
parti d'una stessa nazione? Pur troppo l'Italia non può in questo
rifiutare un primato di colpa e di vergogna, come in altre cose nessuno
le nega un primato di merito e di gloria. E sebbene quelle inimicizie
sieno state sempre e sieno più che mai deplorate e maladette, troppo è
lungi ancora che il biasimo arrivi alla misura del fallo.
Ci sembra adunque che chi si fa di nuovo a notare alcuno di quei
fatti dolorosi di che abbondano pur troppo le nostre storie, possa
bensì adempiere imperfettamente un grande ufficio, ma non aver taccia
di fare un ufficio inutile. Ci sembra di più che questo giudizio di
disapprovazione debba apparir più sincero e riuscir più efficace quando
uno lo porta su quella parte d'Italia dove è nato; chè altrimenti il
giudizio potrebbe parer forse parziale, e non in tutto scevro da quel
miserabile astio di municipio che intende vituperare. Perciò credemmo
che ad un uomo nato in Piemonte convenisse più che ad altri far cadere
sulla memoria di Grajano d'Asti il biasimo che hanno meritato l'opere
sue.
Già l'illustre conte Napione espresse l'opinione de' Piemontesi sul
conto di costui così scrivendone[13] «.......quel nostro Astigiano che
nel famoso abbattimento di Quadrato avendo preso le armi contra la
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