Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 11

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fu presso, pensò che al cospetto di tale adunanza era meglio tentar
cosa che non potesse andargli fallita, e si contentò di rompergli
l'asta allo scudo. Il cavalier francese, che era l'uomo forse più
destro di quel tempo nel maneggio dell'armi, pose con tanta sicurezza
la mira alla visiera d'Inigo, che se fossero stati fermi non avrebbe
potuto colpirlo meglio. L'elmetto mandò faville, l'asta si ruppe a due
braccia dal calce, e lo Spagnuolo si torse tanto sul lato sinistro ove
pure gli era uscita la staffa, che quasi accennò cadere. Così l'onore
di questo primo scontro rimase a Bajardo.
Seguitarono i due campioni la corsa per venirsi ad incontrar dall'altro
lato; ed Inigo, gettato con istizza il troncone, arraffò nel passare
un'altra lancia.
Alla seconda prova riuscirono i colpi uguali, ed Inigo in cuor suo potè
forse dubitar che la cortesia del cavalier francese fosse la cagione
che non gli permettesse di adoprar la sua maestria interamente. Alla
terza corsa, questo dubbio divenne certezza. Inigo ruppe la lancia alla
vista del suo nemico, e questi gli sfiorò appena la guancia col ferro,
e si conobbe che il fallo non era involontario. Sonaron le trombe e gli
evviva, e gli araldi proclamarono uguale il valore dei combattenti, che
andarono uniti sotto il palco di Donna Elvira a farle riverenza: mentre
ella gli accoglieva con parole di lode, non n'era avaro Consalvo, nè il
duca di Nemours, che diceva ai campioni: _Chevaliers, c'est bel et bon_.
Inigo era di que' tali che in ogni altra cosa potranno esser vinti, ma
non mai in generosità. Volle perciò far palese la cortesia usatagli
da Bajardo: questi colla modestia che sempre è compagna alla virtù,
negava risolutamente dicendo di aver fatto il potere. A questa gara di
cortesia, disse Consalvo:--Dalle vostre parole, cavalieri, può nascer
il dubbio chi di voi oggi abbia meglio corsa la lancia; ciò che però
non è dubbio, si è che non sono al mondo i più nobili, i generosi di
voi.
NOTE:
[9] Perdio, voglio vedere se questo cane francese ha i denti lunghi
come la lingua.


CAPITOLO DECIMOTERZO.

Al suono delle trombe comparve Correa armato d'azza e d'un piccolo
scudo rotondo, per rispondere all'appello di Bajardo, che scavalcato
risalì su un cavallo fresco e si preparò al combattimento: mossero i
due avversarj l'uno contra l'altro non più lanciando i cavalli a tutta
briglia, ma col contrasto del freno e degli sproni tenendoli a un
mezzo galoppo fin che furono vicini. In questa zuffa la velocità della
carriera non serviva, come nel correre la lancia, ad accrescere impeto
ai colpi. La loro virtù nasceva più assai dal vigor del braccio, ed
in gran parte dal saper governare in modo il cavallo che impennandosi
facesse a tempo una volata ricadendo sulle zampe d'avanti; il momento
della ricaduta era scelto dal cavaliere per calare il colpo, col
quale si cercava per solito di ferire sull'elmo il nemico, e quando
ciò veniva fatto a tempo, era tale la percossa, che difficilmente
vi si reggeva. Al primo incontro, i due cavalli benissimo avvezzi
ed ammaestrati, s'alzarono e ricaddero insieme, onde i guerrieri
coperti dagli scudi non poteron colpirsi e passaron oltre. Al secondo,
succedette lo stesso. Conosciuto Bajardo il fare dell'avversarjo, mosse
la terza volta con maggior furia, e Correa dovè far lo stesso; ma
quando si trovaron quasi a fronte, il Francese fermò a un tratto sulle
groppe il cavallo nel punto che il suo nemico non aspettando tal cosa
avea levato in aria il suo credendo vibrare il colpo, ma ricadde senza
averlo potuto. Bajardo colse con incredibil prestezza il momento, alzò
l'azza a due mani, diede di sprone, e ritto sulle staffe calò sull'elmo
di Correa un grandissimo fendente che lo piegò sul collo al cavallo,
e quando gli spettatori aspettavano che si rizzasse, invece venne a
terra stordito e dai suoi scudieri fu portato fuor dell'arena. Bajardo
uscì anch'esso salutando il balcone di Donna Elvira fra gli evviva di
tutto l'anfiteatro ed i suoni che celebravano la sua vittoria. Dovette
però tornar tosto indietro e combattere Azevedo, che, fattosi avanti,
s'offeriva fornire la sfida in luogo del suo compagno. La zuffa durò
più a lungo e con varia fortuna: pure fu giudicato averne la meglio il
cavaliere francese.
Presso all'entrata, fuori dell'anfiteatro erasi accomodato un
luogo chiuso da uno steccato ove potessero i cavalieri che volevan
combattere, tenervi i cavalli, i famigli ed armarsi. Consalvo avea
provveduto che vi trovassero quanto era loro mestieri. V'eran più
tavole per deporvi le armi, un fabbro con una fucinetta portatile, se
mai si fosse dovuto racconciare qualche parte d'arnese, e finalmente
una credenza fornita di vivande e di vini. A Brancaleone era dato il
carico di badare che nulla mancasse, e fossero prestati que' servigi
che occorrevano.
Mentre egli attendeva a questa bisogna, Grajano d'Asti da lui
conosciuto, per averlo visto quando con Fieramosca portò il cartello
al campo francese, giunse con due scudieri che recavan l'arme, e
conducevano il suo caval da battaglia. Brancaleone che, secondo
l'usanza sua, avea sino a quel punto parlato pochissimo, si fece
incontro a Grajano, e l'accolse con più parole e meglio che non
soleva; e chi l'avesse avuto in pratica, vedendo i suoi modi in
quest'occasione, avrebbe conosciuto che qualche occulto fine lo
moveva a cercar d'affiatarsi con costui; in fatti aveva un fine, e
d'importanza, come si vedrà a suo luogo.
Dopo le prime accoglienze e proferte di servigi, e dopo averlo
accomodato di quanto poteva occorrergli, si trattenne a parlar seco
mentre i suoi scudieri l'ajutavano spogliar i ricchi panni ond'era
vestito per indossar farsetto e calzoni di pelle stretti alla carne,
sui quali poi si adattava l'arnese.
Quello di Grajano era una bella armatura a striscie dorate sull'acciajo
brunito, ed era disposto su una tavola a pezzi. L'osservava Brancaleone
parte per parte con grande studio, e, preso in mano il petto per
ajutare affibbiarlo addosso al cavaliere, osservò che era fatto di
due lame d'acciaio, e lo giudicò impenetrabile: la panziera era
doppia e d'ugual fortezza; tolse in mano i bracciali, i cosciali e
gli schinieri, e come pratico conobbe che potevano resistere ad ogni
prova. Mentre faceva questa rivista, un osservatore sagace avrebbe
scorto sulla sua fronte un tal che di strano, e nella bocca un certo
ghigno; ma non v'era chi badasse a lui in quel momento. Infine restava
a porre la barbuta soltanto, e Brancaleone, avendola presa e guardata,
s'accorse che non corrispondeva in bontà al rimanente; domandò a
Grajano se usava forse portar sotto una cuffia o cervelliera di ferro,
e venendogli risposto di no, l'interrogava perchè, servendosi d'armi
cotanto salde pel resto del corpo, non cercasse con precauzioni eguali
di difendere il capo.
--Perchè--rispose Grajano--all'assalto di un castelluccio che valeva
tre quattrini (e quel pazzo del duca di Montpensier s'era incocciato
che si prendesse) mentre avevo appoggiato una scala per salire, un di
quei villani abruzzesi che lo difendevano mi lasciò cader sul capo un
sasso, che venuto giù per punta ammaccò l'elmo e mi fece un buco nel
capo che si chiuderà, credo, interamente, quando vi getteranno su una
palata di terra, e vedi qua!--
In così dire gli prese la mano e portandosela sul capo gli facea
tastare col dito una tacca in mezzo al cranio, per la quale si
conosceva che non avrebbe retto una barbuta più grave di quella.
--Per questa ferita, impiccato sia chi me la diede, ho perduto di bei
ducati; chè dovetti lasciar re Carlo, e restarmene per più mesi a Roma
a farmi curare. È vero--soggiungeva ridendo--che in quell'occasione mi
levai l'impaccio d'una certa moglie.... onde ci fu un po' di male e un
po' di bene. Poi m'acconciai per aver soldo con quello sciaurato del
Valenza; finchè, come Dio volle, mi son tornato coi Francesi; e con
loro almeno sulla condotta non ci piove e non ci nevica, e ad ogni fin
di mese snocciolano fiorini, come il banco Martelli di Firenze.
--Ma quest'elmetto--soggiungeva Brancaleone--come reggerebbe ad un buon
fendente?
--Oh!--rispose l'altro--di questo non ho un pensiero. Prima è acciaio
di Damasco e di una tempra che non v'è al mondo la migliore; e poi ti
so dire che quando in battaglia mi accorgo che mi si vuoi cacciar le
mosche dal capo, m'ajuto collo scudo in modo che è bravo chi m'arriva:
vedi (e gli mostrava lo scudo e la correggia colla quale s'attaccava al
collo), vedi come la tengo, lunga per avere spedito il braccio.--
Brancaleone non disse altro, guardò di nuovo ben bene la barbuta
volgendola da tutti i lati, e facendola sonare colle nocche delle dita
con un certo fare tutto suo; poscia apertala, l'adattò egli stesso al
cavaliere.
In questo frattempo erasi combattuto fra i tre Spagnuoli e Bajardo
nel modo che si è narrato. Questi, vinto ch'egli ebbe, venne ove
Grajano appunto avea finito d'armarsi, e stava per montar a cavallo.
Il cavaliere astigiano disse al vincitore qualche cortese parola, e
vedendo che Brancaleone non badava loro, gli domandò quanto valessero
gli avversarj.
Bajardo toltisi i guanti di ferro e l'elmetto li deponea sulla tavola
asciugandosi il sudore, e diceva:
--Don Inigo de Ayala, _bonne lance, foy de chevalier_.--
Ed anche agli altri accordava quelle lodi che credeva meritassero;
diede al guerriero che usciva a combattere alcuni avvisi sul modo di
governarsi, che non andaron perduti.
Entrò nell'arena Grajano bene a cavallo su un gran destriere morello
coperto d'una gualdrappa color d'arancio, ed un araldo gridò ad alta
voce il suo nome; dopo di che, il cavaliere andò sotto il palco di
Consalvo, e percosse colla lancia tre volte gli scudi d'Azevedo e
d'Inigo: un fremito interno ed involontario scosse ogni fibra di
Fieramosca quando udì pronunziare quel nome. Si rinnovò il rimorso
d'aver taciuto a Ginevra ch'egli era vivo; e come l'uomo è tanto più
atto a far buoni propositi quanto più nè scorge remota l'esecuzione,
stabilì di nuovo di svelarle tutto alla prima occasione.
Intanto si cominciò a combattere: ed il guerriero piemontese, che per
robustezza e maestria nell'armeggiare era contato fra' primi, ottenne
deciso vantaggio sopra Azevedo, benchè non riuscisse a scavalcarlo: ed
anche con Inigo si portò in maniera che il giudizio d'ognuno rimase in
favor suo. Dopo di lui si provarono molti Francesi, il signor De la
Palisse, Chandenier, Obignì, e La Motta che, stizzito pel contrasto
avuto con Diego Garcia circa il combattere il toro, quel giorno fece
maraviglie.
Per dire il vero i tre Spagnuoli, che avean preso a difender il campo,
ebber la peggio, e dovettero accorgersi che porsi tre soli di loro
contra le migliori spade dell'esercito francese era un'impresa troppo
maggiore delle lor forze. Rimanevano però ancora in sella Inigo ed
Azevedo; e Grajano, che già gli aveva combattuti una volta, si mosse
di nuovo contro di loro. La stanchezza ch'essi provavano del tanto
combattere gli giovò forse in parte; comunque sia, a lui toccò la
fortuna di finir la guerra abbattendoli l'uno dopo l'altro, e fu
dichiarato vincitore della giostra. Ricevè dalle mani di Donna Elvira
il ricco elmetto, premio della vittoria, al suono degli stromenti,
e fra gli applausi universali. Finita in tal modo la festa, s'alzò
Consalvo, e colla figlia, il capitano di Francia e tutta la baronia
ritornava alla rocca, ove avvicinandosi l'ora del convito si stava
allestendo la mensa. La piazza e l'anfiteatro furon presto vuoti di
spettatori, che tutti, forestieri e terrazzani, andarono quali alle
lor case, quali alle osterie, ed a quella in specie di Veleno, che era
delle avvantaggiate, riposarsi e pranzare, trattenendosi delle varie
fortune di quella giostra.
Ginevra, la mattina di questo giorno in cui la fortuna le preparava
acerbissimi colpi, si svegliò un'ora più tardi che non soleva.
Travagliata sempre con maggior forza da' suoi pensieri presso
all'alba soltanto avea potuto prender sonno: sonno agitato da cento
fantastiche immagini. Ora le si rappresentava Fieramosca ferito,
coll'occhio moribondo, in atto di raccomandarsele; ora le pareva
mirarlo vittorioso, cinto di gloria, fra baroni, e che, torcendo lo
sguardo con disprezzo da lei, lo volgesse ad altra donna porgendole la
destra. E pur dormendo diceva per racquetarsi: Felice me che ciò non
sia altro che un sogno! ma pure tremava parendole persine di udire i
suoni di festa che celebravano le nozze d'Ettore, le campane, lo sparo
delle artiglierie; ed alfine il loro fragore le percosse talmente
l'orecchio che si riscosse a un tratto, aprì gli occhi e volgendoli
al balcone dal quale si scorgeva Barletta, s'accorse che se tutto il
rimanente era stato sogno, non lo era però il fragore che l'era venuto
all'orecchio. Si pose seduta sul letto, e cavando di sotto le coltri
un piede piccoletto, rotondo e bianco come il latte, lo nascose in
una pianelletta vermiglia, mentre s'infilava sulla camicia una veste
azzurra, mandandosi dietro le orecchie colle due mani i lunghi capelli
castagni.
Venne a seder sotto i pampini del balcone, mirando cogli occhi
abbagliati dalla luce d'un cielo sereno e limpido il quadro maestoso
che s'offriva a' suoi sguardi.
Il sole levato già da un pajo d'ore illuminava di faccia il lido, la
città e la rocca: fra le torri e gli spaldi rossicci parevano tratto
tratto crearsi in un subito globi di fumo color di perla, attraversati
da rapide lingue di fuoco, ed ai raggi solari splendevano d'una luce
candidissima, rivolgendosi in mille giri che salivano dileguandosi
nell'azzurro del cielo; dopo alcuni istanti giungeva lo scoppio che
ripercosso dall'onde s'udiva rinascere fra le rupi del lido e si
perdeva a poco a poco in un eco lontano fra l'ultime gole de' monti.
La rocca e la città, velata ora dal fumo, che presto era poi dissipato
dalla brezza marina, si specchiavano nella tinta cerulea del mare
in bonaccia, e talmente piano, che la loro immagine rovesciata si
riproduceva tremola, ma intera, nell'acque.
Il suono delle campane e degli stromenti giugneva or più forte or più
debole secondo il soffiar del vento; e nella quiete del monastero si
potevan persino distinguere a momenti le grida e gli evviva del popolo
che acclamava il Capitano di Spagna. Ma nè questi segni d'allegrezza,
nè il quadro ridente che aveva sott'occhio, non valevano a sgombrar
dall'animo di Ginevra la mestizia che l'opprimeva. Alla puntura dei
rimorsi un'altra se n'era aggiunta egualmente terribile: il sospetto
d'esser tradita da quello al quale avea fatto il sacrificio immenso
di disobbedire alla voce del dovere e della coscienza. Era un dubbio
che la sua mente respingeva, ed il cuore abborriva, ma in conclusione
il dubbio era nato; chi ne fece la prova può dire se sia cosa facile
il dissiparlo. E per verità se ciò che temeva era falso interamente,
varie circostanze potean nondimeno dargli l'apparenza del vero.
Ettore avea saputo bensì celarle l'incontro di Grajano, ma, avvezzo
com'era ad aprirsele in tutto, non riuscì ad infingersi tanto che ella
non s'avvedesse essere nel di lui cuore riposto un segreto del quale
non voleva metterla a parte.
Dall'altro canto i modi tanto diversi di Zoraide le erano come una
spina che non poteva svellersi dal cuore. E pensava: Chi m'assicura
che Ettore anch'esso non abbia indovinato? chi m'accerta ch'egli
non la curi? E quando da tutti questi argomenti cercava dedurre una
conseguenza, si smarriva in un laberinto di dubbi senza trovare il filo
ad uscirne.
Stanca la mente da tanto travaglio, s'alzò per trovar con chi parlare
e distrarsi, e cercò di Zoraide; in casa non v'era: scese in giardino,
neppure: domandò nel monastero ai pochi rimasti, e nessuno sapeva ove
fosse. Si sentì una stretta ai cuore, e mille sospetti indefiniti
le si affollarono alla mente; nel far questa ricerca s'era trovata
presso la torre che difende l'entrata dell'isola. La vide abbandonata
e nemmeno un uomo di guardia; tutti, partito il Conestabile, erano
andati uno ad uno a goder delle feste. Passò il ponte, e camminò un
tratto luogo la spiaggia, avendo il mare a destra, ed a sinistra l'erta
del monte rivestita di folti cespugli. Passeggiava a passo lento, e
colla mente troppo ingombra di pensieri per potersi occupare di ciò
che accadeva intorno a lei. Fu a un tratto sorpresa da una strepito
che udì tra le frasche; e quindi sbigottita, vistone uscir un uomo,
il quale reggendosi a stento, coperto di cenci insanguinati, tutto
lacero dai rovi, coi capelli lunghi, arruffati, che gli ingombravano
il volto, le cadde in ginocchio ai piedi: ella ebbe il pensiero di
fuggire, ma come ardita ed animosa, rimase; e, guardando quello
che tanto stranamente le era comparso davanti, venne a poco a poco
raffigurando il capo-banda Pietraccio, che, secondo la traccia data
da Don Michele, essa involontariamente con Fieramosca aveva ajutato
fuggirsi. La cosa era appunto accaduta come avea preveduto lo sgherro
del Valentino: Pietraccio, mentre essi tentavano di porgere ajuto alla
donna, s'era cacciato a correre su per la scala e poi per la porta,
e liberatosi ruotando il pugnale da chi gl'impediva il passo, benchè
ferito ed inseguito da molti, pure messosi per la macchia come pratico
ed agilissimo gli era venuto fatto salvarsi. Per non cader in mano di
quelli che lo cercavano, gli convenne viver miseramente appiattato nel
più folto del bosco, ed ora, trovandosi per caso vicino a quella che
non poteva temere credendola sua liberatrice, spinto dallo stento e
dalla fame le si raccomandava ajutandosi co' cenni per farle conoscere
la sua miseria che troppo al suo aspetto si dimostrava. Ginevra sentì
ribrezzo e pietà di questo sciagurato, e gli disse non dubitasse, chè
nel monastero non v'era altri che le monache, e, non essendo la torre
guardata, poteva venir con lei, che l'avrebbe nascosto in una legnaja
sotto la sua casetta, e ristoratolo. L'assassino, il qual forse trovava
la morte men dura d'un tal vivere, la seguì, e senza esser visto potè
giungere al suo nascondiglio, ove dalla pietosa donna gli fu recato
cibo e bendata la ferita che, quantunque leggera, pure cercava rimedio,
e con un po' di paglia accomodatogli da dormire. Risalì quindi Ginevra
in casa, nel punto che Zoraide e Gennaro tornavano da Barletta.
Non si potè trattenere dal fare alla giovane un amorevole rimprovero
che fosse partita senza dirle nulla.
--Zoraide mia! sono stata in pena assai non trovandoti per tutta
risola; perchè non dirmi che andavi?
--Per non isvegliarti--rispose Zoraide; e la poca sincerità di questa
risposta le tinse le guance d'un leggiero vermiglio, che non isfuggì
agli occhi di Ginevra; poi seguì:
--Sono partita per tempo con Gennaro e....
--E--disse Ginevra sorridendo--jer sera non sapevi che volevi andare
alla giostra?--
Questa interrogazione tanto diritta aggiunse una tinta di dispetto
al volto di Zoraide, che rispose brevemente:--Sì.... avevo così
un'idea;--poi ripreso il filo che l'era stato interrotto,--da gran
tempo--disse--desideravo vedere una di queste giostre per poter
giudicare se veramente siano poi tanto al disopra dei giuochi degli
Arabi. Ma viva Dio! da noi ciò che fanno qui i cavalieri ed i signori,
si farebbe far dagli schiavi, e nessuno de' nostri capi esporrebbe la
vita per divertire tre o quattro migliaja di spettatori dell'infima
plebe.--
Ginevra accorgendosi che Zoraide per non aver a dare altri schiarimenti
sulla sua gita volea mettere innanzi il discorso della giostra, non si
curò d'insistere e disse:--Insomma la giostra è stata bella?
--Bella? e come!--prese a dir Gennaro, che si moriva di voglia
di servire esso di storico, e cominciò dall'uscita di Consalvo,
descrivendo il meglio che poteva la ricchezza e le gale di quei
baroni; poi coll'idea di farle cosa grata le diceva, scuotendo il capo
e stringendo le labbra, nel mentre che le sue mani facevano girare
e rigirare la berretta in cento modi:--E se aveste veduto vostro
fratello come stava a cavallo, su quel bel puledro color d'argento;
tutti dicevano: che bel giovane! E per dir la verità con quel vostro
mantelletto azzurro era proprio una pittura. Mi son voluto ammazzare
tra la folla per seguitar la cavalcata fuor di porta! Ci voleva buoni
gomiti, ve lo dico io, sì.... ma quando la figlia del signor Consalvo è
scesa di lettiga, ero accosto come da me a voi; e il signor Ettore l'ha
messa a cavallo.... cioè, dirò meglio, essa gli ha appoggiato un piede
sul ginocchio, un piedino così, vedete! (e per mostrarne la misura
stendeva il pollice della mano destra appuntando l'indice della manca
alla sua attaccatura), e poi su, svelta come un grillo; e sapete che
cosa vi dico? non le dovrebbe dispiacere vostro fratello; chè quando è
stata in sella gli ha detto certe paroline, e gli ha fatto un bocchino,
che beato chi l'ha veduto: e lui, mi son accorto, s'è fatto rosso;
Dio sa che cosa si son detto! e ho pensato fra me: sta attento che il
signor Ettore s'avesse da fare sposo: sarebbe una gran bella coppia, ve
lo dico io: pajon fatti l'un per l'altro.--
Pensi ognuno se questo racconto, e queste riflessioni erano grate a
Ginevra. Non potendole sopportare, e volendosi tor dinanzi costui,
disse brevemente:
--Sì, sì..... mi racconterai ciò un'altra volta--E si volgeva per
andarsene con Zoraide alle sue stanze. Ma Gennaro che era sul bel dire
non volle lasciarla e proseguiva:
--Eh questo non è niente! bisognava vedere poi alla giostra, nel palco
de' signori; è stato sempre seduto vicino a lei, e non hanno fatto
altro che discorrere; e poi, ecco qui la signora Zoraide ve lo può
dire, se tutti non ponevano mente a loro. Anzi c'era l'oste del Sole
che provvede il vino in castello, e diceva che il padre è contento
che la sposi: sarebbe un bell'affare sapete! quante belle migliaia di
ducati! Altro che tribolarsi la vita sua a cavallo, alla pioggia e al
vento!--
Ginevra, per finir questi discorsi che troppo la pungevano, quantunque
ne conoscesse la vanità, disse:
--Ma la giostra, in somma, la giostra?
--Oh la giostra! A Barletta non se la ricorda nessuno la simile.--
E qui principiando dalla caccia de' tori, e dalle prodezze di Don
Garcia, descriveva poi le battaglie all'azza ed alla lancia, ripetendo
i nomi d'ognuno gridati già dagli araldi. La sua memoria lo servì anche
troppo. Quando fu a conchiudere disse:
Quello poi che ha finita la festa, ed ha scavalcato i tre Spagnuoli uno
dopo l'altro, è stato il signor Don Grajano d'Asti.
--Chi, chi?--disse Ginevra con un'alterazione di volto e di voce che
non potè nascondere.
--Un certo signor Don Grajano d'Asti; dev'essere un gran barone: armato
e vestito ch'era una ricchezza.
--Grajano d'Asti hai detto? Grande, piccolo, giovane.... com'era?--
Gennaro che non aveva perduto un capello dell'armi, fisonomie ed
aspetto di tutti i combattenti, ed aveva presente il volto di Grajano,
che entrando in campo colla visiera alzata l'avea benissimo lasciato
vedere, potè descriverlo tanto a puntino, che non rimase alla donna
il minimo dubbio non fosse costui suo marito. Potè nondimeno esser
presente a sè stessa abbastanza per celare in parte il tumulto che le
sconvolgeva il cuore, e per conoscere quanto importasse il non essere
scoperta. Nel tempo che Gennaro si studiava di darle ad intendere la
forma e le fattezze del barone, ebbe agio a riprender gli spiriti,
e veduto che i suoi due ascoltatori s'erano pure accorti che udendo
pronunziare quel nome avea fatto una fermata, per dissipare ogni
sospetto, disse, quando l'ortolano finì di parlare:
--Non v'avete a stupire ch'io mi sia turbata al nome di costui;
passarono un tempo di strane vicende tra esso e la casa mia; furon poi
fatti accordi, e da molti anni è tolta ogni occasione di scandalo:
tutto pensavo però, fuorchè di trovarlo ora a Barletta ed al soldo
francese.--
Dette le quali parole, si volse per andarsene alle sue camere; Zoraide
e Gennaro si dovettero accorgere al color del volto che tratto tratto
se le cangiava, che un qualche nascosto pensiero, di grande importanza,
la travagliava; si guardarono perciò dal seguirla, e quando fu partita,
disse l'ortolano alla giovane:
--Che si senta male? Oppure ho io detto nulla che non istia
bene?--Zoraide che aveva pel capo tutt'altro, e neppur essa poteva ben
definire quali pensieri, quali sospetti avesse, rispose con una stretta
di spalle, e se n'andò, desiderando non meno di Ginevra d'esser sola;
Gennaro rimasto ivi colla berretta in mano borbottava incamminandosi
pe' fatti suoi.--Son tutte ad un modo! Chi le capisce è bravo!--
Ginevra intanto per una scaletta saliva in camera, ma ad ogni gradino
le pareva d'avere il mondo addosso; le cresceva l'anelito, sentiva
battere il cuore con tanta furia, che quasi si veniva meno. Diceva
continuamente sotto voce: _Vergine mia, ajutatemi_; e crescendo
l'affanno non potea dir altro che _mio Dio! mio Dio!_ ed alla fine fu
tale la stretta, che si sentì mancar le ginocchia e dovette sedersi
al quarto o quinto scalino ove avea potuto giungere appena; e con un
respirare interrotto e frequente, e la fronte molle d'un sudore di
spasimo, pensava: Io non sarò mai viva domattina! Quantunque avesse
sentito Zoraide andar per altra parte alla sua camera, e chiudervisi,
ed essendo dopo il mezzo giorno sull'ore calde, sapesse le monache
starsi ritirate a riposare nelle loro celle, pure il sospetto di poter
esser trovata ivi e così sottosopra le dava grandissimo travaglio: e
per fuggirne il rischio, deposto il pensiero di salir più in camera,
risolvette invece d'andarsene, per la porticella del chiostro, in
chiesa, ove s'avvedeva oggimai dover solo cercar ajuto e difesa contro
i mali che la minacciavano. Così il meglio che potea si condusse fin
là, ora attenendosi ai muri, ora facendo ogni opera per camminar come
il solito, quando o vedeva qualche conversa girar per gli anditi,
ovvero qualche monaca far capolino dalla finestra.
Nella chiesa non v'era persona: si buttò a sedere sul primo gradino del
coro che si trovò vicino, e stette un buon pezzo col capo fra le mani
ed i gomiti sulle ginocchia per riprender gli spiriti, e colla mente
confusa in tanti pensieri, che si può dire non ne avesse propriamente
alcuno.
Dietro all'altar maggiore si scendeva per otto o dieci gradini di marmo
in una cappelletta sotterranea, ove cinque lampade d'argento ardevano
dì e notte avanti un'immagine della Madre di Dio, dipinta sul muro da
San Luca, per quel che si credeva da ognuno. I miracoli, che la fama
diceva operati in questo luogo, erano stati cagione che si fabbricasse
poi la chiesa ed il monastero. Il luogo era in forma d'un esagono, e
nel lato rimpetto alla scala era l'altare e l'immagine; ad ogni angolo,
una colonna, con un capitello a grossi fogliami di antica maniera,
reggeva una delle spine della volta che al sommo si congiungevano tutte
in un tondo di pietra come una macina, il quale aveva in mezzo un foro
largo un braccio, chiuso da una ferrata, e rispondeva su in chiesa
avanti la predella dell'altar maggiore. Un sottil raggio di sole che
entrava per le invetriate a colori d'uno dei finestroni della volta,
si facea strada per quel foro sino nel sotterraneo. Fra le tenebre
diradate appena dalla luce debole e rossiccia delle lampade scendeva
visibile il raggio formando in aria una striscia, e riproduceva sul
pavimento i colori de' vetri e la forma della ferrata. Andò Ginevra a
porsi ginocchioni a piè dell'altare, e, nel passare a traverso quel
raggio, la luce riflessa dalla sua veste azzurra rischiarò a un tratto,
come un lampo d'un lume pallido, tutta la cappella.
Cominciò a pregare colle mani giunte strettamente sul petto, e fisse
le pupille a quella pittura, ed a poco a poco sentiva diminuir il
batter de' polsi e calmarsi l'anelare del petto. Le sue preghiere non
tanto distinte in parole, quanto concepite col cuore e cogli affetti, a
poco a poco la ritornavano in calma.
Come tutte le antiche immagini, il volto di quella Madonna mostrava una
cotal mestizia tanto divina ed augusta, che sembrava alla travagliata
giovane sentisse pietà del suo dolore, e persino, a forza di fissarvi
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