Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 06

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lo gettarono in Tevere, lavarono la groppa del cavallo imbrattata di
sangue, e sparirono in un vicolo oscuro.
Un mese dopo, il Valenza, deposta la porpora, fu a cavallo alla testa
d'un esercito. Usando ora la forza, ora i tradimenti, ebbe presto
occupata Faenza, Cesena, Forlì, la Romagna, parte della Marca, Camerino
ed Urbino. Ma i modi dell'acquistare, e l'arti per mantenere la mal
ottenuta signoria, le ingiurie fatte a tanti, accesero contra il duca
l'odio universale, che per iscoppiare non aspettava se non l'occasione.
Questa poteva nascere in due modi; o morendo il padre, o mancandogli
l'ajuto di Francia. L'età del papa, la fortuna dell'anni francesi in
Italia, sempre fluttuante, l'ammonivano a provvedersi d'altri appoggi,
ove questi gli fossero mancati.
L'occhio suo, scopritore d'ogni pratica, indagatore d'ogni senno e
d'ogni cuore più chiuso, gli mostrò qual fosse realmente allora la
condizione d'Italia. Conosceva il valore impetuoso de' Francesi, più
atto a vincer una giornata che a sostenere i fastidj di una guerra
magra e lunga.
Presentiva quanto valesse il solo Consalvo ad abbattere la loro
potenza. Lo vedeva per valore, prudenza, perseveranza terribile,
presso a fiaccare la fortuna de' gigli. Gli parve dunque d'attaccar
qualche filo con lui onde aver aperta una porta, se gli venissero meno
gli antichi amici. Una pratica tanto gelosa, e della quale se fosse
trapelato nulla alla parte francese, al certo si trovava disfatto,
non poteva esser commessa alla fede d'alcuno. Per questi rispetti era
partito occultamente da Sinigaglia, e s'era condotto a Barletta.
Mancava un'ora all'alba, ed il Valentino che aveva di quei temperamenti
ferrei ai quali non è quasi necessario il riposo, si alzò, chiamò Don
Michele che già stava in orecchi per non esser tardo, e consegnandogli
una lettera gli disse.
--Questa a Consalvo. Daratti un salvocondotto. Se ti domanda di me,
io non sono in Barletta, ma son presso. Jer sera da quei soldati, che
facean gozzoviglia qui sotto, seppi il fatto di Ginevra al tutto. Ora
son certo che quel Fieramosca l'ha seco, o non lontana: e suppongo
in parte ove si va per mare. Prima di vespro vo' saper dov'è. Trova
Fieramosca, e fa che non mi fuggano.--
Don Michele ricevette la lettera e gli ordini del suo signore senza
profferir parola. Tornò in camera, si vestì, e quando fu giorno chiaro,
tiratosi in capo il cappuccio s'incamminò alla rocca.
Mentre Don Michele usciva, il duca s'era fatto alla finestra, e lo
seguitava guardandolo di malissimo occhio, e facendo un viso che ad
altri avea presagito sventure. Eppure fra quanti ribaldi avesse al suo
servizio, e n'aveva di segnalati, nessuno potea dirsi tanto l'anima
d'ogni sua impresa quanto costui; e se può albergar fede, in un suo
pari, certo e' ne aveva data prova al suo signore in occasioni di somma
importanza. Ma appunto per avergli obblighi grandi, e per non potere,
senza tagliarsi un braccio, spegnerlo a sua posta, Cesare Borgia
l'odiava. L'origine sua era poco nota. I più lo dicevan Navarrese; e
sul fatto, che l'avea condotto a' servigi del duca, si raccontava uno
strano caso d'una vendetta che egli avea adempiuta contra un fratel
carnale nel modo che passiamo a narrare.
Aveva Don Michele una moglie giovane e bella, ed un suo fratello
scapolo e minor d'anni viveva in casa sua. La bellezza della cognata
potè tanto sul cuore del giovane, che, gettato ogni rispetto dietro
le spalle, s'adoperò in modo da ridurla ad ogni sua volontà. Ma non
seppero tanto ben nascondere questa tresca che non se ne avvedesse
una fanticella: ne fece la spia al marito. Questi postosi in agguato,
li sorprese: e, cavato un pugnale per dare ad ambedue ad un tempo,
venne loro fatto di fuggirgli dalle mani senza altro danno che una
leggiera ferita. Fu tanta la passione del torto ricevuto, che, messosi
in traccia del fratello il quale colla cognata fuggiva per porsi in
sicuro, lo voleva ammazzare ad ogni modo. Ma questi, udito che gli avea
giurata la morte addosso, seppe tanto schermirsi che per molti anni gli
ebbe mandato vuoto ogni suo disegno: il che fu cagione che l'offeso,
disperatosi affatto di poter fare le sue vendette, era da tal furiosa
passione condotto al sepolcro.
Intanto venne bandito un Giubileo nell'anno MCCCCLXXXV, e nella terra
ove dimorava Don Michele si fecero processioni, penitenze, prediche per
le piazze, onde molti odii di parte si spensero, furono fatte paci,
ed anch'esso parve si risolvesse a deporre ogni rancore per voltarsi
in tutto alle cose di Dio. Ma il fratello, per quante proteste gli
venisser fatte da parte sua non si volle mai piegare a capitargli
d'innanzi. Al fine dell'anno santo, consumato da Don Michele in
continue pratiche di penitenza, si risolse di lasciar il mondo affatto,
e condottosi ad un convento di Scalzi, entrò in noviziato, compiuto
il quale pronunciò i voti solenni. Mandato da' superiori in varie
parti di Spagna, e persine a Roma allo studio della teologia, divenne
grandissimo dottore, e tornando in patria con voce d'uomo di santa
vita, parve ai religiosi di conferirgli il sacerdozio. Disse la prima
messa con quella pompa e frequenza di popolo, d'amici e di congiunti
che si usa; finita che l'ebbe, e, tornato in sagrestia, si pose (tale
il costume) colla pianeta ancora indosso, ritto sulla predella, ove gli
amici ed i parenti venivano l'un dopo l'altro a baciargli la mano ed
abbracciarlo.
Da tutti, replicate volte, era stato udito deplorare l'odio nutrito
tant'anni contra il fratello, e dire spesso, che non aveva al mondo
altro desiderio se non d'ottenere intero obblio del passato, anche,
qual servo di Dio, umiliandosegli il primo. In questa solenne
occasione, mosso dalle preghiere di tutti i parenti, si risolse alla
fine il fratello venire anch'esso cogli altri, e quando gli fu innanzi
con parole molto modeste cominciava a parlare, nell'atto che cingendo
colle braccia il sacerdote, se lo stringeva al petto, ma poi invece di
rialzar il capo, furon viste mancargli le ginocchia, cadde rovescio
in terra, dando un gran sospiro, ed il prete brandendo in aria un
pugnaletto sottile che in quell'abbracciamento gli avea cacciato nel
cuore, ne baciò la lama stillante, e spinto col piede il cadavere
disse: Ci sei capitato! e sparì via. Fu tanto lo sbalordimento degli
astanti, che non fecero verso di lui dimostrazione veruna.
Per questo fatto ebbe il bando della testa; fuggì di paese in paese,
finchè si ricoverò a Roma, e dal Valentino ebbe salva la vita. Questi
penò poco a conoscere le sue virtù, presto l'adoperò in cose di somma
importanza, ed il ribaldo frate diventò in breve l'anima di tutte le
sue imprese.
Quando giunse alla porta del castello, interrogato dalla guardia di
chi cercasse, mostrava un cofanetto che tenea sotto braccio, dicendo
esser allora giunto di Levante, e cercar di Consalvo per offerirgli
più qualità di cose rarissime, rimedii segreti contra le malìe, e
cento pappolate. Un di costoro, dopo averlo squadrato, gli accennò lo
seguisse.
Entrarono in un gran cortile, chiuso da fabbriche alte d'architettura
antica. Le camere d'ogni piano avean l'uscita su logge aperte verso
l'interno, rette da colonne di sasso bigio, sulle quali posavano archi
ora tondi ora a sesto acuto, secondo le diverse epoche della loro
costruzione. Molte torri rotonde, coronate di merli a coda di rondine,
e del color rossiccio de' mattoni vecchi, sorgevano a disuguali
distanze, e s'alzavano molto al di sopra dei tetti. Sulla cima della
maggiore, detta la torre dell'oriuolo, sventolava un grande stendardo
giallo e vermiglio, la bandiera di Spagna.
Salirono al primo piano per una scala esterna a largo parapetto, sul
quale erano posti in fila molti leoni di pietra, rozzamente scolpiti,
ed entrarono in una sala ove Don Michele venne lasciato dalla sua guida
che gli disse:
--Quando il gran Capitano uscirà, gli potrete parlare.
--E di grazia, quando uscirà?
--Quando ne avrà voglia--rispose ruvidamente il soldato, e se n'andò
pe' fatti suoi.
Don Michele sapeva benissimo che la pazienza è la dea delle anticamere,
perciò tacque; ed accortosi che una brigata di gentiluomini radunata
in fondo presso di gran finestroni che davan sul mare, lo andava
squadrando, si pose, per atteggiarsi in qualche modo, a passeggiare
osservando le antiche pitture, ond'erano piene le mura. Così a poco a
poco si venne loro accostando naturalmente: chi sa, pensava, che non
trovi da far bene anche qui! Alla fine colse destramente l'occasione
d'incastrar qualche parola fra i loro discorsi, e, dopo pochi minuti
era divenuto anch'esso uno della brigata.
Quella fortuna che i galantuomini invocano quasi sempre inutilmente, lo
servì meglio che non s'aspettava. Osservando con sottile sguardo quei
signori, notò fra gli altri un uomo sui cinquant'anni, alto, smilzo,
con una spalla che usciva leggermente fuori di simmetria, il quale
teneva cinto uno spadone che gli alzava dietro il gabbano, e dava per
gli stinchi a chi gli era accosto, mentre s'andava centinando per
istrisciar inchini, e far l'uomo necessario ed intrinseco di ciascuno,
e principalmente di coloro che erano di maggior riguardo. Le ciglia
che s'alzavano in arco sino a mezza la fronte, e due occhi bigi, tondi
ed ammirativi, davano al suo viso magro l'espressione della curiosità
unita alla dabbenaggine; e questa qualità appariva poi più spiccata in
un sorriso perenne di compiacenza col quale accompagnava tutti i suoi
discorsi. Quest'uom dabbene era Don Litterio Defastidiis, podestà di
Barletta, l'uomo più curioso, più vano, più stucchevole del mondo.
Don Michele che s'intendeva di fisonomie, conobbe tosto che avea
trovato il fatto suo. Gli s'accostò; e con modi cortesi e schietti,
che, quando voleva, sapeva usare ottimamente, appiccò seco
ragionamento. Il podestà non finiva mai un discorso senza la lepidezza
obbligata (di quelle tali che il nostro lettore conosce sicuramente,
se è stato in qualche paesetto del Regno, seduto una mezz'ora del dopo
pranzo sulla panca dello speziale): e di più voleva che si ridesse.
Don Michele crepava dalle risa, e gli diceva: Io non conobbi mai il
più piacevole uomo! oh bella questa! oh curiosa quest'altra; e così
diventarono amiconi in meno di mezz'ora.
In quel tempo Prospero Colonna che usciva da Consalvo col salvocondotto
per la sfida, traversò la sala, e tutti gli fecero riverenza. Don
Michele domandò chi fosse quel barone, e a Don Litterio non parve vero
di far il saccente, e venne a parlar della sfida, di ciò che s'era
detto alla cena, di Fieramosca, de' suoi amori; e Don Michele n'ebbe
miglior mercato che non sperava, e disse, mostrando premura:
--Questo giovane.... come lo chiamate?
--Fieramosca.
--Questo Fieramosca è egli vostro amico, che vi preme tanto?
--Oh! mio amicissimo. E preme molto al signor Prospero, e poi
universalmente a tutti.... È tanto un bravo giovane! Ci vediamo ogni
sera o in casa Colonna, o in piazza. Peccato, che ha un brutto vizio!
Non ride mai, mai! vedete. Sempre con una faccia di scomunicato, che
ti senti accorare. Eh! io è un pezzo che me n'ero accorto, e non mi
volevano credere. Son curiosi questi bravacci di soldati. Pare che sia
vergogna per loro d'esser innamorati! Insomma, jer sera il prigione
francese che l'ha conosciuto a Roma ha cantato: ed ora poi non c'è più
dubbio. Dice bene il proverbio «Amore, tosse e scabbia, non la mostra
chi non l'abbia.»--
La lepidezza del podestà fu accolta al solito da Don Michele con una
risata, che dovette replicare due o tre volte, poichè piacque a Don
Litterio di replicare altrettante il suo proverbio. Tornati poi sul
serio, il primo riprese:
--Da codesto amore a me basterebbe la vista guarirlo, che nemmeno se ne
ricorderebbe. Ma....--
E qui una pausa per farsi pregare.
--Guarirlo?--disse il podestà--come vorreste guarirlo? Per questa
febbre ci vuoi altro che medici e speziali.
--Ed io vi dico che vorrei soltanto trovar un suo amico che m'ajutasse,
e poi vada il capo se resto bugiardo.--
Don Litterio lo guardò un poco per veder se diceva davvero o da burla;
e non è da dire se l'altro sapesse far sì che quest'investigazione gli
riuscisse favorevole. Quando si fu mezzo persuaso, gli disse:
--Se non volete altro, questo non vi mancherà.--
E ravvolgeva fra sè d'aver egli il merito di questa portentosa
guarigione, come si vantava d'aver avuto quello di scoprire il male.
E certamente chi avesse operato il miracolo di render Fieramosca
compagnone, amico del chiasso e dell'allegria, sarebbe stato portato al
cielo dai suoi amici e da quanti lo conoscevano.
E così punzecchiava Don Michele per udire qual modo avesse ad ottenere
una cosa tanto difficile, e questi stava sulla sua, facendosi pregare
assai, quasi non si fidasse ben di lui. Pure alfine mostrando di
lasciarsi vincere, gli diceva, come in terra di Turchi avesse veduto
usare ed imparato un segreto maraviglioso a spegnere qualsivoglia più
furioso amore, e non durò gran fatica a rendersi interamente padrone
del cervello di grillo del povero podestà, che stimò gran ventura
l'aver trovato costui.
--Il tutto sta--disse alla fine Don Michele--ch'io possa trovarmi per
cinque minuti colla sua innamorata: del resto lasciate il pensiero a me.
--Questo, veramente, così su due piedi non ve lo potrei promettere.
Perchè a dirvela, non la conosco. Ma se è in Barletta, o dieci miglia
qui intorno, lasciatevi servire: non andranno ventiquattr'ore che vi
saprò dire qualche cosa. Ora trovo Giuliano... è il fante del Comune...
un diavolo per saper tutto.
--E dove ci vediamo--domandò Don Michele.
--Dove vi pare.
--Se credete, ci troveremo all'osteria del Sole, così sulle ventidue.
--Siamo intesi--rispose Don Litterio; e lasciato Don Michele
maravigliato della propria ventura, s'avviò al palazzo del Comune per
rintracciar Giuliano. Se non dispiace al nostro lettore faremo a meno
d'accompagnarlo, per non lasciar che Don Michele s'annoi troppo in
quest'anticamera.
Aspettò un pezzo inutilmente che Consalvo comparisse; alla fine ottenne
dall'usciere di essere introdotto.
Stava il Capitano di Spagna ritto accanto alla finestra, avvolto in
un robbone di raso vermiglio foderato di vajo, e l'augusta presenza,
l'alta fronte, l'occhio scrutatore, la fama in fine d'un tant'uomo
risvegliarono nel petto del condottiere del Valentino quel senso di
timore, e direi quasi d'avvilimento, che sempre coglie l'iniquo in
faccia all'uomo virtuoso. Fece un saluto umile e profondo, e disse:
--Glorioso signore! l'importanza del messo ch'io reco alla vostra
magnificenza m'ha costretto presentarmi a quella sotto un nome che non
è il mio. Se in ciò v'offesi, umilmente vi chieggo perdono; ma, come
potrete conoscere da voi stesso, il segreto era troppo necessario, nè
quegli che a voi mi manda poteva commettersi ad altri che alla vostra
gloriosa fede.--
A queste parole rispose brevemente Consalvo, che non mancherebbe a chi
si fidava di lui, e che esponesse. Don Michele consegnò la lettera del
duca: ebbe il salvocondotto, e tornando al suo signore con quello, lo
fece sicuro che il segreto della sua venuta in Barletta sarebbe stato
custodito da Consalvo.
Aggiunse poi quanto si riprometteva dalle ricerche del suo nuovo amico
il podestà; onde il Valentino, contento dell'avviamento che prendevano
le cose sue, si tirò il cappuccio su gli occhi; e, chiuso nel mantello,
uscì dall'osteria. Si fece condurre da un battello alla parte di dietro
della rocca, ove Consalvo, rimastone così d'accordo con Don Michele,
avea mandato un uomo ad aspettarlo. Gli fu aperta una porticella; e su
per una scaletta segreta, e per certi bugigattoli giunse alla camera
del Capitano spagnuolo.
Non crediamo necessario di dar minuto ragguaglio di questa conferenza.
Espose in sostanza il Valentino con una mirabil chiarezza la somma
delle cose d'Italia, le forze, le speranze, i timori de' varj Stati.
Fece intendere che avrebbe avuto caro accostarsi a Spagna, mostrando
d'esservi tratto dal desiderio del bene che poteva venirne ai suoi
popoli, ed a cessar le sciagure che incontrerebbero, ove gli Spagnuoli
rimanessero vincitori. Riuscì con ischiettezza, che sapea finger
benissimo, a dar di sè opinione migliore della sua fama. Offerse di
far con Ispagna una lega ove entrasse il papa, e si lasciasse luogo a'
Viniziani, ove vi si volessero accostare, colla quale s'impegnassero
ad ajutarsi ne' loro interessi scambievoli, e s'avesse a render palese
soltanto quando gli Spagnuoli fosser divenuti padroni di due terzi
del Regno. Propose di far colle proprie forze l'impresa di Toscana
mostrando che in Italia i primi amici di Francia erano i Fiorentini,
e molto gioverebbe l'abbattere un così potente alleato. Aggiunse che
avrebbe stimato di gran profitto a questa lega il chiamarvi i Pisani,
aiutandoli ristorarsi dei danni fatti loro soffrire dalla Repubblica
di Firenze, della quale, ove fosser resi più forti, sarebber divenuti
guardiani vigilantissimi.
Consalvo non aveva obbiezioni essenziali da fare a queste proposte,
ed il sottile ingegno di Cesare Borgia sapeva esporre con evidenza
grandissima cose che in gran parte eran pur vere. Ma lo Spagnuolo lo
conosceva, e durava fatica a fidarsi di lui.
Prese partito di non dar per allora una risposta precisa, e disse
voler conferire coi suoi più intimi prima di prendere una risoluzione.
Non lasciò mancare al Valentino nè buone parole, nè uffici cortesi;
lo condusse in certe camere terrene, che davan sul mare, facendonelo
padrone pel tempo che gli sarebbe piaciuto passare in Barletta; e da
alcuni suoi servitori più fidati lo fece servire con quell'onore che si
doveva al figlio d'un papa.
Verso sera Fieramosca e Brancaleone giunsero alla porta della città.
Appena messi dentro, cominciò a formarsi intorno a loro una folla
d'officiali, d'uomini d'arme, di soldati, che s'ingrossava di quanti
incontravano per istrada, e tutti volevano esser i primi a sapere
la risposta de' Francesi.--Com'è andata? che cosa hanno risposto?
chi combatterà? quando? dove?...--Ma i due amici dicevan, ridendo a
questa furia: venite alla rocca e lo saprete. Giunsero alla rocca, ed
introdotti a Consalvo, Fieramosca gli consegnò la lettera del duca di
Nemours, che quegli lesse ad alta voce, e diceva accettarsi la sfida,
ma negarsi d'accordar campo franco. Questo rifiuto parve strano a
tutti, ed il gran Capitano disse:
--Non mi sarei aspettato che i Francesi cercassero sutterfugi per
ischivar la battaglia. Ma il campo franco l'avrete: io ve l'assicuro.--
Poi chiamato un suo scrivano gli disse: scriverai al duca di Nemours,
stia di buona voglia che l'ostacolo è tolto; che gli offerisco una
tregua sin dopo il combattimento; ed in fine, che fra due giorni
aspetto mia figlia donna Elvira, alla quale intendo far un po' di
festa; s'egli vuole, mentre si posan l'armi, venire a goderla con noi,
sarà cagione di renderla più lieta.
Fra lo scrivere, lo spedir la lettera e ricever la risposta, passarono
appena due ore. Il duca di Nemours accettò l'invito, e la tregua, che
fu bandita per la città a suon di tromba quella sera stessa, insieme
co' nomi de' combattenti italiani, ai quali per compiere il numero
voluto dai Francesi, si aggiunsero altri tre, e furono:
Ludovico Aminale da Terni.
Mariano da Sarni.
Giovanni Capoccio Romano.


CAPITOLO OTTAVO.

Il monastero dell'isola posto fra il monte Gargano e Barletta era
dedicato a Santa Orsola. Le sue mura oggi non presentano allo sguardo
che un monte di rovine coperte di spini e d'edera; ma all'epoca
della nostra istoria erano in buon essere, e formavano un edifizio
d'aspetto severo, innalzato dai tardi rimorsi d'una principessa della
casa d'Anjou, che venne ivi a finir santamente una vita scorsa fra le
sfrenatezze dei piaceri e dell'ambizione. Non si potrebbe desiderare
solitudine più tranquilla o più amena di questa.
Sopra uno scoglio, alto forse venti braccia sul livello del mare, è
un piano di terra fruttifera, che gira da cinquecento passi andanti.
Nell'angolo più vicino alla terra ferma sorge la chiesa. Vi s'entra per
un bel portico, retto da gentili colonne di granito bigio. L'interno a
tre navate, con archi a sesto acuto, posati su fasci di colonne sottili
ornate d'intagli, riceve la luce da lunghe finestre gotiche chiuse
con invetriate a colori, piene di storie de' miracoli della Santa. La
tribuna dietro l'altar maggiore è tonda, ornata di musaici in campo
d'oro. Vi si vede un Dio Padre nella gloria, ed ai suoi piedi Santa
Orsola, con le undicimila vergini portate dagli angioli.
La chiesa, lontana dall'abitato, rimaneva quasi sempre vuota. Le sole
monache si radunavano in coro ad ore fissate del giorno e della notte
per salmeggiare. Era verso sera, e mentre si cantava il vespro dietro
l'altar maggiore con quella sua cantilena lunga e monotona, una donna
pregava inginocchiata accanto ad un avello di marmo bianco ingiallito
dagli anni, e coperto da un baldacchino parimente di marmo pieno
di fogliami e d'animali all'uso gotico, ove riposavan l'ossa della
fondatrice del monastero.
Questa donna, coperta sino a terra da un velo del color di que' marmi,
pallida, immobile ad orare, sarebbe sembrata una statua posta ivi
dall'artefice in orazione, se due lunghe trecce di capelli castagni non
si fosser mostrate fuori del velo, e se le palpebre, che tratto tratto
s'alzavano, non avessero lasciato trasparire due occhi azzurri ne'
quali si scorgeva il fervore di una caldissima preghiera.
La povera Ginevra (era essa) avea ragione di pregare, poichè si trovava
in quei termini ove al cuor d'una donna non bastano le proprie forze
per vincer sè stesso. Si pentiva, ma troppo tardi, del partito preso di
seguir Fieramosca, e d'unire in qualche modo la sua fortuna a quella
dell'uomo che per prudenza e per dovere avrebbe dovuto fuggir più
d'ogni altro. Si pentiva d'esser rimasta tanto tempo senza informarsi
di suo marito se fosse vivo o morto. La ragione le diceva: quel che
non si è fatto si può ancora fare; ma la voce del cuore rispondeva:
è tardi; e questo _è tardi_ sonava come una sentenza irrevocabile. I
giorni duravano lunghi, angosciosi, amari, spogliati d'ogni speranza
di poter uscire di quel travaglio, se non altrimenti, almeno col darsi
vinta all'una delle due forze che la combattevano. La sua complessione
s'accasciava sotto il peso di questo continuo contrasto.
L'ore della mattina, quelle vicine al mezzo giorno, le riuscivano meno
difficili. Lavorava di ricamo, avea libri, e l'orto del monastero
per passeggiare. Ma la sera! I pensieri più tetri, le cure più
moleste parevano, a guisa di quegl'insetti che al calar del sole si
moltiplicano e divengono più infesti, aspettar quell'ora per assalirla
tutti in una volta. Ginevra allora si rifuggiva in chiesa. Non vi
trovava allegrezza, non pace, ma almeno qualche momento di consolazione.
La sua preghiera era breve e non variava mai. Vergine Santissima,
diceva, fate ch'io desideri non amarlo; e talvolta aggiungeva: fate
ch'io mi risolva a cercar di Grajano, e desideri trovarlo: ma spesso le
mancava il cuore di profferir questa seconda preghiera.
Dal ripeter di continuo quelle parole, ne avveniva talvolta che
cogliesse sè medesima nel pensiero di Fieramosca, appunto nel momento
in cui la sua lingua pregava onde poterlo dimenticare. Allora
sospirava, piangeva, ma scorgeva anche troppo qual fosse in lei la
volontà più potente. Quel giorno tuttavia, per uno di quegli alti e
bassi che sono nella nostra natura, le sembrò di potersi finalmente
risolvere al miglior partito. L'idea d'una malattia che la sua salute
cadente le mostrava vicina; l'idea della morte fra i terrori di una
coscienza non pura, sopravvenne in un momento di titubanza, diede il
tratto alla bilancia, e le fece prender la risoluzione d'informarsi di
Grajano, e scoperto dove fosse, tornar con lui, in qualunque modo, ad
ogni costo. Se Fieramosca fosse stato presente, gli avrebbe dichiarata
la sua risoluzione allora allora, senza dubitar un momento; ma, disse,
alzandosi per uscir di chiesa: Questa sera verrà e saprà tutto.
Le monache, finito il coro, uscivano tacite alla sfilata per una
porticella che dava nel cortile del chiostro, e tornavano nelle loro
celle.
Ginevra s'avviò dopo di loro. Entrò in un loggiato pulito come uno
specchio che circondava un piccol giardino. Nel mezzo v'era un pozzo
sotto una tettoja retta da quattro pilastri di pietra. Di qui,
traversato un lungo andito, riuscì in un cortile di dietro. Il lato in
fondo era formato da una casetta, ove non era clausura, separata dalla
rimanente fabbrica, e vi s'alloggiavano i forestieri. Ginevra v'abitava
colla giovane salvata da Fieramosca, ed occupavano due o tre camere;
che, secondo l'uso de' monasteri, non avean comunicazione fra di loro,
ma soltanto per un andito comune. Ginevra, entrando nella camera ove
solevan passare insieme la maggior parte del giorno, trovò Zoraide
occupata ad un telajo, e lavorando cantava una canzone in lingua araba
piena di tuoni minori, come tutti i canti de' popoli del mezzogiorno.
Guardò un momento il ricamo, e diede un sospiro (era un mantello di
raso azzurro trapuntato d'argento che facevano insieme, destinato a
Fieramosca); poi si pose a sedere ad un balcone ombreggiato da pampini,
che guardava verso Barletta. Il sole s'era allora nascosto dietro le
colline di Puglia. Poche strisce di nuvole stavano su pel cielo tutte
accese al lampo solare, simili ai pesci d'oro notanti in un mar di
fuoco. La loro immagine correva in lunga lista riflessa dall'onde,
solcate qua e là da qualche vela di pescatori, che un leggiero levante
spingeva alla spiaggia. L'occhio della giovane era fisso al molo del
porto che aveva in faccia, dal quale spesso vedeva staccarsi una
barchetta e venir verso l'isola.
Oggi essa la desidera più del solito, le pare che debba portarle una
decisione; e qualunque sia, nel suo stato, sarà sempre un guadagno. Ma
quei momenti d'aspettazione le parevano pur lunghi ed amari! Vorrebbe
Ettore già presente, vorrebbe che avesse già udite parole tanto ardue
a pronunziarsi: s'egli tardasse o non venisse, domani sarà ella ancor
forte abbastanza?
Un punto oscuro che appena mutava luogo non tardò a comparire sul mare
vicino al lido. Dopo un quarto d'ora s'era accostato, ingrandito, e
quantunque appena si potesse distinguere che era un battello condotto
da un uomo, Ginevra lo riconobbe, e sentì darsi una stretta al cuore.
Per una subita rivoluzione di tutte le sue idee, le parve ad un tratto
impossibile dirgli ciò che un momento prima aveva, o credeva avere
irrevocabilmente fissato. Avrebbe veduta con piacere quella barchetta
tornar indietro, ma invece avanti, avanti: già era presso l'isola; già
s'udivano i remi tuffarsi, ed uscir dell'acqua.
--Zoraide, eccolo--disse volgendosi alla sua compagna, che alzò il capo
appena, fece col viso l'atto di chi risponde, e tosto riabbassò gli
occhi sul suo lavoro. Ginevra scese, e s'avviò al luogo ove s'approdava
all'isola, e per una scala tagliata a scarpelli nel masso, giunse al
mare appunto quando Fieramosca deponeva i remi in fondo al battello, e
la prora si fermava contro lo scoglio.
Ma se alla donna mancava il cuore di dichiarare le sue risoluzioni,
Fieramosca che aveva dal canto suo cose altrettanto gravi da svelarle,
non si sentiva maggior animo di lei.
Lontano per molto tempo dai luoghi ove guerreggiava Grajano, non
ne aveva più udita novella da un pezzo. Alcuni soldati venuti di
Romagna, o fossero male informati, o scambiassero il nome, gli avevano
affermato che era stato ucciso. Il prestar fede a costoro faceva
troppo al caso suo, perchè molto si studiasse a non credere, o si
desse briga di acquistar certezza del fatto. Accade di rado che ove si
tema di scoprire il proprio danno, si desideri di veder chiaro: così
trascurando sapere il vero, era venuto indugiando sino a quel giorno,
nel quale gli occhi suoi propri l'avevano finalmente tratto d'inganno.
Tornò in Barletta sempre combattendo con sè stesso; e sempre in
contrasto s'egli doveva dirlo, o non dirlo a Ginevra. Il primo partito
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