Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 05

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nascosto in un angolo oscuro: e mi ha detto più volte in appresso che
vistomi por mano all'arme, fu per saltarmi in sulle braccia, e stava
sull'ale, per non arrivar tardi: vedendo poi che m'affannavo soltanto
ad aprir la cassa, stette saldo, e solo a questo punto, conosciuta
la necessità, mi si scoperse. Sentii le sue pedate, quando appena
finivo la preghiera; mi volsi e me lo trovai vicino. Così da terra
gli abbracciai le ginocchia come colui che mi dava due vite ad un
punto, e come un angelo che mi scendesse dal cielo: rizzatomi poi
consideravo come senza disagio e pianamente si potesse levar di quivi
la donna. Alla fine prendemmo la coltre di velluto che copriva la bara,
e volta al rovescio, onde se si risentiva non s'avesse ad accorgere
su qual lugubre panno si ritrovasse, ed accomodate le lenzuola che
ravvolgevano, in modo di farle il miglior letto possibile, con gran
diligenza la sollevammo dalla cassa, e piano piano la posammo su
quest'involti.
La povera Ginevra non avea aperti gli occhi, ma le usciva dal petto
qualche tronco sospiro. Franciotto cercando per gli armadj, trovò per
buona sorte le ampolle delle messe, e ci venne fatto, mettendole quel
becco sottile fra le labbra farle scendere qualche stilla nello stomaco
a riconfortarla: poco tuttavia e solo per dare un leggiero ajuto agli
spiriti; che non avremmo voluto fosse tornata in sè in cotesto luogo.
Dipoi con gran cura, io da capo e Franciotto da piedi, presi i lembi
della coltre, l'alzammo, e senza accidente come volle la Vergine
Santissima la portammo fuori di chiesa, e per San Michele venimmo a
Ripa, dove sono le barche. Fra queste ve n'era una di Franciotto. Non
sapevamo così su due piedi trovar luogo nè migliore nè più sicuro. Vi
portammo la Ginevra; ed accomodatole un poco di letto sotto coverta,
ajutati da due o tre uomini che guardavano la barca, me le posi
accanto, e Franciotto corse per un barbiere amico suo, uomo di fede e
dabbene, onde venisse ad ajutarla, e trarle sangue se bisognava.
Dovea ripassare per Santa Cecilia. Giuntovi s'avvide d'una compagnia
d'uomini armati che era ferma davanti la porta, e sulle prime credette
fosse la corte. S'andò accostando pianamente muro muro, finchè giunto
ad appiattarsi vicino a loro s'accorse che non era la corte altrimenti.
Erano da trenta pezzi d'arme tra picche e spadoni a due mani. In
disparte una lettiga vuota portata da due uomini. E quello che pareva
lor guida stava guardando verso la chiesa, serrato nel mantello, e si
mutava or s'un piede or s'un altro in atto d'impazienza. Poco stante
uscirono due come famigli, ed accostandosegli dissero: Eccellenza, la
cassa è sconfitta e vuota!....
Fu tanta la potenza di queste parole, che scioltosi colui dal mantello
percosse con una lanterna, che tenera sotto, sul capo del servo, e se
lo fe' cadere ai piedi; e l'altro, a non essersi cacciato a correre,
avrebbe avuto di peggio, che già colui aveva posto mano alla spada.
Dopo molto tempestare gli convenne partirsi scornato.
Franciotto avea notato fra quegli armati uno in cappa e mantello alla
curiale, ed al lume di certi torchi che avean con loro, riconosciutolo
per quel ribaldaccio di maestro Jacopo da Montebuono. La presenza di
costui in tal luogo, ed in tal compagnia, gli fece nascer di strani
sospetti.
Quando si furono avviati, tenne loro dietro alla lontana, e invece
d'andar pel barbiere, fece disegno sul sopradetto maestro Jacopo.
Solo dubitava non si facesse accompagnare sino all'uscio da alquanti
di costoro. Ma, come a Dio piacque, abitando al principio della
Longara, quando fu a Ponte Sisto, per esser così breve tragitto, lasciò
andar gli altri che passarono il ponte; ed egli s'avviò a casa sua.
Franciotto lo raggiunse sotto l'arco, e dettogli non temesse di nulla,
lo pregò venisse insino a Ripa grande per una giovane che stava col mal
di morte; e tante gliene seppe dire che lo condusse da noi.
Come fu entrato sotto coverta, tosto riconobbe me e la Ginevra, e
s'accorse ch'egli aveva dato in un trabocchetto. Franciotto, trattomi
da parte, mi narrò ciò che aveva veduto avanti a Santa Cecilia e le
parole udite, tantochè principiai a riflettere: mi si squarciò il
velo, e capii come doveva essere andata la cosa. E stringendo maestro
Jacopo, e minacciandolo, chè era il più pauroso uomo del mondo, lo feci
cantare, e mi disse che per ordine del Valentino avea dato alla donna
la sera della cena un vino medicato, per virtù del quale era rimasta
assopita, ed ajutando esso l'inganno, l'avea dichiarata morta, onde,
portata in chiesa, il duca avesse agio a venirsela a prender la notte.
Era un vero miracolo che una trama tanto bene ordita fosse andata a
vuoto: e pensa quanto ne ringraziai Iddio.
Allora volto a maestro Jacopo, gli dissi: Ascoltatemi, maestro Jacopo.
Io potrei farvi cascar morto con questa daga, ma vi voglio conceder la
vita col patto che sia salva quella di costei: onde adoperate i vostri
argomenti se volete tornar sano alle vostre brigate. Se poi direte ad
anima viva come sia finito questo fatto, io v'ammazzerò come un cane ad
ogni modo.
Il maestro spaventato mi promise tutto ciò che volli, e con gran
premura si mise attorno alla donna; onde io consigliatomi con
Franciotto feci scioglier la barca, e tutti insieme pel fiume ne
venimmo alla Magliana, che di poco eran suonate le cinque ore.
Il buon maestro non disse mai nulla di questo.
Ginevra frattanto s'era risentita, ed avendo aperti gli occhi, li
girava intorno attonita. Io, fatto oramai sicuro d'averla viva, e
parendomi d'aver operato un miracolo, attendevo di tutto cuore a
ringraziar Dio, posto ginocchioni al capezzale di lei, che avevamo
allogata in una cameretta del vignajuolo.
Dopo un poco d'ora, tenendole io una mano, sulla quale appoggiavo la
fronte e talvolta le labbra, la ritrasse e m'alzava i capelli che mi
cadevan sugli occhi, guardandomi fisso. Alla fine mi diceva: Oh non sei
tu Ettore mio?.... Ma come qui?.... Dove siamo?.... Non mi par la mia
camera.... sono in altro letto.... Oh Dio, che cos'è stato?
In questa, Franciotto, che s'affacciava ogni tanto per vedere come
andasse la cosa, comparve sull'uscio. Ginevra diede un grido, e
gettandomisi addosso tutta tremante diceva:--Ajutami, Ettore; eccolo,
eccolo! Vergine Santissima, ajutatemi!--Io mi sforzavo rassicurarla il
meglio che potevo, ma tutto era niente, e mostrava aver tanto spavento
del buon Franciotto che pareva gli occhi le volessero schizzar fuori
dalla fronte. M'avvidi dello scambio e le dicevo: Ginevra, sta di buona
voglia; non è il duca costui, ma un mio carissimo amico, e ti vuole
quanto bene egli ha.
L'avresti veduta a queste parole deporre ogni timore, e volgersi
piacevolmente a Franciotto quasi in atto di chieder perdono. Pensa
come in cuor mio maledivo quello scellerato!
Ginevra allora cominciò a domandarmi che le spiegassi in qual modo si
trovasse quivi, ed io la pregavo fosse contenta per allora aver fede in
me, ed attendere solo alla salute, che voleva riposo; e tanto le dissi,
che mi riuscì di quietarla; e, verso la mattina, fattole prender un
cordiale, s'addormentò.
Ma non dormivo io. Ben conoscevo ch'era pazzia lo sperare volesse
indursi a rimanere meco; e che a mio e forse a suo malgrado, pure
avrebbe voluto tornarsene col marito, appena le sue forze gliel'avesser
concesso. Onde spedii velocemente a Roma Franciotto ad informarsi in
che termini si stesse colà, e come vi fosse intesa la cosa.
Tornò verso sera, recando la nuova che il Valentino s'era levato colle
sue genti, ed avviato verso Romagna, ed avea menato con sè Grajano e la
compagnia. Non si sapeva quale impresa fosse per fare dapprima.
Ne feci motto alla Ginevra, la quale, udito da me alla fine quanto
le fosse occorso, ondeggiava in varj pensieri senza sapere a che
risolversi. Con molte parole le mostrai che in modo nessuno le
conveniva tornarsene a Roma, ove il Valentino avrebbe con facilità
potuto trovarla, ed emendare il primo colpo fallito: che suo
marito, avvolto nelle faccende della guerra, e tutto cosa del duca,
difficilmente avrebbe potuto, anche volendo, servirle di difensore:
e poi come, dove rintracciarlo? La pregavo, con affetto grandissimo,
non volesse andar contro ad una quasi divina disposizione, che per
istrade tanto fuor delle ordinarie ci aveva riuniti, togliendola da una
condizione piena d'insidie e di pericoli: pensasse che levandoci di
qui, potevamo per la supposta morte condurci senza sospetti in parte
ove libera e tranquilla potrebbe almeno aspettare e vedere dove andasse
a parare la sua fortuna e quella di suo marito; ed alzando la fede, le
dissi queste formate parole:
--Ginevra! io giuro alla Vergine Santissima che sarai meco, non
altrimenti che se fossi con tua madre.--Franciotto ancor esso ajutava;
tantochè la buona Ginevra alla fine con molti sospiri, nè potendo
affatto vincere un cotal rimorso che la rodeva mi disse:--Ettore, tu
sarai mia guida, a te sta il mostrare che il Cielo, e non altri mi t'ha
mandato.
Entrato in questa risoluzione feci al maestro un'altra orazioncina
colla mano sulla daga, poi lo rimandai a Roma in compagnia di
Franciotto, dal quale mi divisi con grandissimo dolore. Montati in
barca colle nostre poche robe ci levammo di quivi e giù per fiume
giunti ad Ostia ci drizzammo terra terra verso Gaeta. Il reame era
tuttora in mano de' Francesi; ed essendo loro amico il Valentino, non
mi pareva esserne sicuro finchè non mi trovavo mille miglia lontano
da loro. Per la qual cosa, più che potevo, senza troppo affaticar la
Ginevra, col continuo viaggiare sollecitavo ad allontanarmi da quelle
coste; e come a Dio piacque ci trovammo una sera a salvamento in
Messina; e ringraziai di tutto cuore Iddio di averci tratti da tanti
pericoli.
Giunto Fieramosca a questo punto, vide che dal campo si movevano molti
uomini a cavallo i quali venivan per loro, e soggiunse:
Troppe cose mi resterebbero a narrarti; costoro vengono, e mi manca il
tempo. Ma per conchiudere: passammo circa due anni in codesta città.
Ginevra si ritirò in un monastero, ed io, che m'ero dato per suo
fratello, la visitavo più sovente che potevo.
Passato questo tempo s'era accesa la guerra fra Spagnuoli e Francesi.
La vita ch'io menavo mi parve alla fine troppo indegna di un soldato e
d'un Italiano.
Legato com'ero dal voto fatto in Santa Cecilia non potevo sperare al
nostro amore virtuoso fine.
Tutt'Italia era in arme: i Francesi parevano i più forti; ed oltre
l'amor di patria che mi spingeva a combattere il nimico più pericoloso,
avevo una vecchia ruggine co' Francesi e colle loro insolenze. Scorgevo
ancora, ti dico il vero, più sicurezza per la Ginevra all'ombra delle
bandiere di Spagna, ove non poteva giungerla il Valentino.
Queste ragioni conosciute vere dall'animosa Ginevra, che non ostante
il suo amore per me non poteva patire ch'io rimanessi addietro, mentre
si combatteva per la fortuna d'Italia, ci risolvettero in tutto; e,
scritto al signor Prospero Colonna che metteva genti insieme per
Consalvo, mi posi sotto la sua bandiera.
In quel tempo si trovava colla compagnia a Manfredonia; onde noi,
lasciata Messina, per mare ci drizzammo a quella volta. In quel viaggio
ci accadde uno strano accidente.
Eravamo sorti a Taranto; e quivi riposatici, uscimmo dal porto una
mattina per andar a Manfredonia. Era una nebbia folta del mese di
maggio, e la nostra barca a due vele latine e dodici remi, volava sul
mare piano come una tavola. A mezzo giorno ci si scopersero addosso
quattro navi ad un trar d'archibugio, e ci chiamarono all'ubbidienza.
Volevo fuggirle, ed avremmo potuto, che stavamo a sopravvento; ma
considerato che coll'artiglierie potevano fare qualche mala opera,
presi partito d'andare a loro.
Erano legni viniziani che venivano di Cipri, e conducevano a Vinegia
Caterina Cornaro, regina di quell'isola. Saputo l'esser nostro, non ci
detter noja, e dietro loro seguivamo il viaggio.
Era già fatta notte: la nebbia cresceva, ed io stimavo gran ventura
aver trovato costoro che ci aiutavano a non ismarrir la strada in
quell'oscurità.
Presso la mezzanotte, Ginevra dormiva, e solo due uomini stavano in
piedi per regolar la vela e diriger la barca; ma anch'essi tratto
tratto andavano dormicchiando. Io seduto a prora vegliavo, fisso in
mille pensieri. Tutto era cheto. Mi parve udire sulla coverta della
nave della regina, che ci precedeva di mezz'arcata, i passi d'alcuni
uomini; gli udivo parlar sommesso, ma parole concitate e piene d'ira;
tesi l'orecchio; una voce di donna si mescolava all'altre, e pareva
chiedesse mercede: seguiva un pianto, e s'udiva a riprese, quasi
costoro tentassero soffocarlo. Alla fine sentii un tonfo nel mare,
come d'un corpo cadutovi. Io dubitando forte mi rizzai, e stringendo
le ciglia, mi parve vedere non so che bianco agitarsi a fior d'acqua:
mi buttai a mare ed in quattro sbracciate mi vi trovai accosto,
afferrai un lembo di veste, e presolo coi denti tornai alla barca
traendomi appresso un corpo. Gli uomini miei s'erano risentiti allo
strepito; m'ajutarono risalire, e tirar su chi era meco. Trovammo
una donzella in sola camicia, legate le mani con una villana corda,
e non dava segno di vita. A forza d'ajuti tuttavia si riebbe alla
fine. Facemmo di rimaner addietro ai Viniziani che seguirono il lor
viaggio, nè si curarono di noi. Calammo la vela ed aspettammo fermi che
aggiornasse. Uscito il sole si allargò il tempo, ed in poche ore fummo
a Manfredonia, ov'io trovai il signor Prospero, e Ginevra cogli altri
allogai all'osteria.
Tu ora vorrai sapere chi fosse codesta donzella campata dal mare, ma
non posso soddisfarti, perchè nemmen io lo so. Non è mai riuscito nè a
me nè alla Ginevra di strapparle una parola sui suoi casi, o sull'esser
suo. Ell'è nata in Levante, è Saracina certamente, e più diritta e
leale ed amorevole che donna del mondo; nel tempo stesso fiera ed
ardita che non la sbigottiscono nè il sangue, nè l'armi, ed in faccia
al pericolo è più uomo che donna. Da quel giorno in qua è rimasta
sempre con Ginevra: ed io feci in modo che la badessa di Sant'Orsola le
ricevesse entrambe nel suo monastero, ove per la vicinanza (ora che la
guerra ci tiene chiusi in Barletta) posso venirle visitando più spesso.


CAPITOLO SESTO.

In questa giunsero i Francesi che dovevano condurli al campo: i due
amici s'alzarono, e presi i cavalli s'avviarono con loro.
Attraversarono per mezzo lunghe file di tende e di trabacche, mirando
l'assetto di quelle genti che correvano sulla loro via per sapere a
che venissero; ed in mezzo ad una folla di soldati sboccarono su una
piazza formata da molti padiglioni disposti in giro, nel centro dei
quali, sotto una gran quercia, era teso quello del capitano. Vi s'era
radunato il fiore dei caporali dell'esercito; scavalcarono, e furono
messi dentro. Dopo cortesi ma brevi accoglienze, vennero portati due
sgabelli, sui quali sederono volgendo le spalle alla porta.
La tenda parata d'un drappo azzurro sparso di gigli d'oro era in forma
d'un quadrilungo, diviso in due quadrati uguali, da quattro colonne
sottili di legno a strisce celesti e d'oro. In fondo era il letto
coperto d'una pelle di pardo, sotto il quale dormivano sdrajati due
gran levrieri. Poco distante una tavola ingombra confusamente d'un
monte d'ampolle, di spazzole, di collane, di giojelli, e sopra la
quale era appeso uno specchio poligono chiuso in una cornice d'argento
lavorata a cesello, mostrava che il gentil duca non isdegnava la cura
dell'attillarsi: ed un elegante moderno avrebbe bensì cercato invano su
questa _toilette_ l'indispensabile acqua di Colonia, ma poteva trovar
però un compenso in due gran vasi di argento dorato sui quali era
scritto _Eau de Citrebon_, ed _Eau Dorée_. Più fogge d'armature eran
appiccate alle colonne a guisa di trofei, ed in traverso posate sovra
arpioni, lance e zagaglie.
Sotto queste, nel mezzo, sedeva Luigi d'Armagnac duca di Nemours,
vicerè di Napoli, eletto dal re Luigi XII a capitano della guerra. Era
vestito d'una cappa azzurra foderata di zibellino, e le sue nobili
fattezze splendevano di gioventù, d'ardire e di cortesia cavalleresca.
D'Aubignì, Ivo d'Alegre, Bajardo, Mgr. de la Palisse, Chandenier erano
a' suoi lati, ed intorno intorno altri baroni e cavalieri di minor
conto gli facevan corona formando un circolo nel quale venivano a
trovarsi rinchiusi Ettore e Brancaleone.
Quest'ultimo s'intendeva più di menar le mani che d'arringare, onde
lasciò a Fieramosca il carico d'esporre l'ambasciata.
Rizzossi il giovane e volse agli astanti in giro uno sguardo rapido,
nel quale balenava un ardire senza insolenza qual s'addiceva al luogo,
agli ascoltanti, ed a ciò che era per esporre. Narrò l'insulto di La
Motta, propose la sfida, e per adempiere alla formalità d'uso, spiegato
il cartello, lesse ad alta voce la formola seguente:
_Haut et puissant Seigneur Louis d'Armagnac duc
de Nemours._
_Ayant apprins que Guy de La Mothe en présence de D. Ynigo Lopez de
Ayala a dit que les gens d'armes Italiens étoient pauvres gens de
guerre; sur quoi, avec vostre bon plaisir, nous respondons qu'il a
meschamment menti, et mentira toutes fois et quant qu'il dira telle
chose. Et pour ce, demandons qu'il vous plaise nous octroyer le champ
à toute outrance pour nous et les nostres, contre lui et les siens, à
nombre egal, dix contre dix._
Die VIII Aprilis MDIII.
PROSPERO COLONNA
FABRITIO COLONNA.
Letto il cartello lo buttò in mezzo, ai piedi del duca, e Bajardo
sguainata la spada lo raccolse colla punta. Ettore allora fatta un po'
di cadenza al ragionamento stava per finire, quando gli corse l'occhio
su uno scudo lucidissimo che gli stava appiccato in faccia, e faceva
specchio a quelli che gli erano dietro le spalle. Vi scorse l'immagine
di Grajano d'Asti: si turbò; e volgendosi, vide ritto a due passi il
marito di Ginevra, che cogli altri lo stava ascoltando. Questa scoperta
tanto repentina ed impreveduta tolse al fine del suo discorso quella
forza, che avrebbe voluto imprimergli. Da quelli, cui non eran noti i
suoi casi, fu a tale accidente attribuita una cagione troppo lontana
dal vero, e che facea troppo torto all'onore di Fieramosca. Sorrise
taluno de' guerrieri francesi, e vi fu chi bisbigliò non doversi molto
temere chi pareva turbarsi al solo parlar di battaglia. Il giovane notò
gli atti e le parole, e sentì una vampa di fuoco sulle guance; ma fermò
l'animo pensando, alla prova vedranno s'io tremi.
La risposta del duca non fu scarsa nè di parole nè di baldanza,
maggiore di tanto che anch'esso dall'aspetto dell'Italiano avea tolto
argomento d'animo mal sicuro.
In pochi minuti finì il parlamento, ed i due messaggieri trovaron
rinfresco per loro e pei cavalli in una tenda vicina.
Grajano aveva esso pure riconosciuto Fieramosca; e quando uscì dalla
presenza del duca, gli tenne dietro. S'avvicinò a lui salutandolo
col viso poco curante di coloro che negli uomini valutano i doni
della fortuna più di quelli della virtù: l'avea conosciuto in povero
stato, nè gli pareva che mostrasse essersi molto avvantaggiato dacchè
non s'eran più veduti.--Oh! gli disse, ser Giovanni...... no, ser
Matteo..... diavolo non mi ricordo..... Basta, poco importa. E così,
chi non muore si rivede!
--Appunto,--rispose Fieramosca, il quale malgrado la generosità del
suo carattere non poteva superare un senso di rammarico vedendo, chi
credeva nel mondo di là, vivo e giusto possessore di colei che amava
più della vita. Ebbe un bel pensare, e sforzarsi per non lasciar
quell'_appunto_ così asciutto; tutto fu inutile, e tacque. Grajano non
era tale da accorgersi di queste mezze tinte; visto che il discorso
cadeva seguitò:
--E così, che cosa facciamo? Stiamo per Spagna, eh?--
Ad Ettore parve queste interrogazioni in plurale sapessero un po'
troppo di saccenteria, e rispose:
--Che cosa facciamo? Voi, non so. Io sto per lancia col signor Prospero.
--Eh! badate al proverbio--disse ridendo il piemontese--_Orsin, Colonna
e Frangipani, riscuoton oggi e pagano domani._--
Questo detto correva allora fra i soldati di ventura italiani, e
nasceva dalla strettezza di denaro in cui si trovavan spesso i baroni
della Campagna di Roma, i quali eran perciò più avidi dell'altrui, che
puntuali a sborsar le paghe dei proprii soldati.
Fieramosca non era sullo scherzare in quel momento, onde non rispose
nulla: tuttavia, per non parere scortese, lo domandò dell'esser suo, e
perchè si fosse partito dal Valentino.
--Oh!--rispose Grajano--perchè colui ne vuol troppo, ed ha messa troppa
carne a bollire; e se oggi o domani muore il papa, gli saranno tutti
addosso, e gli faranno restituire capitale e frutti. Basta, di quel
galantuomo è meglio dirne nè mal nè bene. Ora mi son accomodato qui, e
son contentone che non cambierei col papa.--
Durante questo dialogo eran venuti alla tenda ove trovarono da far
colezione. Com'ebbero finito, e fu sparecchiato, vennero richiamati dal
duca per la risposta.
Fu questa, com'era dovere, piena di orgoglio e di jattanza. Esser
pronti i Francesi a combattere; volersi fossero non dieci ma tredici;
numero tenuto infausto e scelto a presagir malanni agl'Italiani.
Fu consegnata ai messaggieri una lettera chiusa per Consalvo, e
separatamente una lista de' combattenti scelti per la parte francese.
Così accomiatati tornarono al padiglione aspettando che venissero i
cavalli per partire. Comparvero intanto fiaschi di vino e bevettero in
compagnia di molti cavalieri, fra' quali era Bajardo. Com'ebber bevuto,
questi pregò Fieramosca gli facesse vedere la lista. Ettore se la cavò
di seno e gliela diede: allora tutti curiosi si strinsero a Bajardo, ed
egli lesse i nomi seguenti:
Charles de Tourges.
Marc de Frignes.
Giraut de Forses.
Martellin de Lambris.
Pierre de Liaye.
Jacques de la Fontaine.
Eliot de Baraut.
Jean de Landes.
Sacet de Jacet.
Guy de La Mothe.
Jacques de Guignes.
Naute de la Fraise.
Claude Grajan d'Asti.
--Claudio Grajano d'Asti!--esclamò Fieramosca guardandolo con
maraviglia.
--Sì, Claudio Grajano d'Asti,--rispose questi.--Vi pare forse che non
sia grande e grosso come gli altri?
--Ma ditemi, messer Claudio, sapete voi perchè si combatte questa
sfida?
--Che? son sordo? Lo so sicuro.
--Saprete dunque che gl'Italiani sono tacciati di poltroni e traditori
dai Francesi, e perciò si combatte. Ora ditemi, di che paese siete voi?
--Son d'Asti.
--Ed Asti non è in Piemonte? Ed il Piemonte è Italia o Francia? Ed
essendo voi soldato italiano volete combattere coi Francesi contra
l'onore degl'Italiani?--
Fieramosca scintillava dagli occhi dicendo queste parole. N'avrebbe
usate di più gravi, ma si ricordava del voto che gl'impediva di por
mano all'arme contra costui.
Grajano invece, che era lontano mille miglia dal pensare di
Fieramosca, non poteva capire sulle prime ove andassero a parare
tante interrogazioni. Capì a stento quand'ebbe finito, e gli parve la
maggiore sciocchezza del mondo; onde senza quasi degnarsi di rispondere
direttamente e da senno si volse agli altri; e disse ridendo:
--Oh, sentite, sentite questa! Si direbbe che è il primo giorno che
prende la lancia in mano! Ho in tasca gl'Italiani, l'Italia e chi le
vuoi bene; servo chi mi paga, io. Non sapete, bel giovine, che per noi
soldati dov'è il pane è la patria?
--Io non mi chiamo bel giovane; mi chiamo Ettore Fieramosca--rispose
questi, che non si potè più frenare--e non so nulla di queste
poltronerie che voi dite. E se non fosse....--Qui gli corse quasi
involontariamente la mano sull'elsa, ma tosto la ritrasse, e seguitò a
parlare con quel volto contratto che fa chi è costretto ad inghiottire
un boccone amaro:
--Una cosa sola, perdio, non posso patire. Che questi nobili
gentiluomini e voi messer Bajardo, che siete il primo uomo del mondo
della nostra professione, ed il più leale e dabbene, abbiate a sentire
un Italiano dir tali vituperi contra la patria. Ma, e chi non sa che in
ogni paese vi son traditori?
--Il traditore sei tu!--gridò come un tuono il Piemontese. Ambedue
miser mano alle spade, ma non le sfoderarono affatto, che molti di
qua e di là, messisi in mezzo, li trattennero, ricordando che i
messaggieri non poteano nè offendere nè venir offesi. Le grida e 'l
tumulto fu grandissimo, ma la voce di Bajardo, che si facea sentir
sull'altre, fe ritornar tutti in quiete e nell'ordine, e Grajano venne
strappato per forza di là.
Fieramosca com'ebbe ricacciata nel fodero la spada, e percosso colla
palma della mano sul pomo per fermarla meglio, si volse a Bajardo
scusandosi dell'accaduto.
Questi li posò le due mani sulle spalle guardandolo fisso, onde il
giovane mezzo arrossito abbassò gli occhi: stato così un poco, lo baciò
sulla fronte, e gli disse: _Benoiste soit la femme qui vous porta_.
Un'ora dopo il ponte della porta di Barletta s'abbassava per lasciar
entrar Ettore e Brancaleone che ritornavano.


CAPITOLO SETTIMO.

La mattina di questa giornata, che dagl'Italiani era stata spesa
nel preparar la battaglia, non fu perduta per gli ospiti, che dalla
sera innanzi occupavano le camere superiori alla cucina nell'osteria
del Sole. Il loro nome che è un segreto per tutti, salvo che pel
caposquadra Buscherino, non lo sarà neppure pei nostri lettori. Eran
costoro Cesare Borgia duca Valentino, e Don Michele da Corrella, uno
dei suoi condottieri.
Paragonare tali ribaldi agli animali più malefici e più nemici d'ogni
essere vivente, è debole immagine. Questi operano per istinto, e
l'istinto ha limiti certi. Ma qual limite avranno al mal fare cuori
perversi, guidati da ingegni di sottigliezza diabolica, forniti di
potenza, di valore (chè pur troppo non tutti gli scellerati son
codardi) e di ricchezze immense?
Il figlio d'Alessandro VI, terrore dell'Italia, e di quanti in essa
possedevano oro, signoria, o donna avvenente, si trovava quasi solo in
una povera casa, in mezzo a molti che avrebber comprato colla vita il
piacere di far le loro vendette sopra di lui.
Quelli ai quali non è noto quanta sicurezza possa trovare in sè stessa
un'anima di tempra forte, unita ad un giudizio freddo e calcolatore,
daranno a questa fiducia il nome di temerità. Ma il duca conosceva
abbastanza sè stesso; e messo in bilancia il pericolo col guadagno che
poteva sperare dal suo venire in Barletta, trovava tutte le probabilità
in suo favore.
Due cagioni lo spinsero a questo viaggio. L'una di ritrovar Ginevra
che da molti indizj teneva per certo fosse con Fieramosca: e se non si
dee supporre che un tal uomo stimasse più costei di qualunque altra
donna, si può almeno asserire che molto gli cocesse di esserne rimasto
beffato. L'altra nasceva dalla ragion di Stato; e per darne un'idea
chiara ai nostri lettori, è necessario richiamare per poco la loro
attenzione sugli aggiramenti tenebrosi della politica d'allora.
La potenza di casa Borgia, nata dall'inalzamento del cardinale Rodrigo
Lenzuoli al trono pontificio, erasi in modo accresciuta colle armi
spirituali e temporali, colle frodi, coi parentadi, e cogli ajuti di
Francia, che ogni principe, ogni repubblica italiana ne viveva in
sospetto. Cesare dapprima cardinale, mal pago della porpora, stabilì
voler egli solo ingoiare l'eredità del padre, e coglier il frutto de'
comuni delitti. Il duca di Candia suo fratello, gonfaloniere di Santa
Chiesa, al quale il papa aveva fermo di dare stato in Italia, era il
solo ostacolo che trovasse la sua ambizione. Un pugnale pagato dal
cardinale, o, secondo alcuni, vibrato dalla sua stessa mano, tolse
una notte quest'ostacolo. Da un pover'uomo che vegliava a guardia
delle barche di carbone a Ripetta furon visti giungere tre uomini in
riva al fiume. Uno a cavallo: era il cardinale: in groppa a traverso
tenuto dagli altri due pel capo e pei piedi, il cadavere del fratello;
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