Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 14

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chè il luogo non capiva più di tre uomini di fronte; ma non perciò
furono inutili. Presero la donna rimasta a poppa, e di peso la
portarono nella loro barca. Della qual cosa accortisi i tre combattenti
(così consigliando Brancaleone sotto voce) pianamente si venner
ritirando, e saltati a un tratto da questa nella loro, permisero agli
altri di scostarsi. Ettore non si sarebbe così facilmente levato dal
giuoco, se fra' nemici avesse ravvisato il Valentino; ma non vedendolo,
conobbe che in questo fatto aveva soltanto posto a rischio i suoi
bravi, e gli parve troppo bassa impresa imbrattarsi nel loro sangue.
Di più, visto che Ginevra era salva (almeno così stimava) credette
miglior partito attendere a riconfortarla. Don Michele dall'altra
si rose di vedersi rapire il frutto di tante brighe, e di non aver
pensato nella prima confusione a metter la donna in salvo a prora; ma
la cosa era fatta, e ben sapeva che voler ora tentare contra questi
giovani bravissimi di riaver la sua preda, era un voler fare un buco
nell'acqua. Ma lo sgherro del Valentino non avea però lasciata la
sua sconfitta interamente senza vendetta. Mentre i tre compagni si
ritraevano alla lor barca, gli era venuti stringendo colla spada nella
diritta e 'l pugnale nella manca; ed a Fieramosca, che era rimasto
l'ultimo, vibrò molti colpi, e nell'atto che scavalcava l'orlo, gli
venne fatto di pungerlo colla daga leggermente nel collo, ma nel calore
della mischia Ettore non se n'avvide.
Così scostatisi scambievolmente, gli uni seguirono il loro viaggio
verso Barletta, e gli altri si drizzarono al monastero.
La donna era avvolta in un lenzuolo. Fieramosca tutto ancora ansante
la pose seduta meglio che potè, e liberatala dal panno che la copriva,
invece di Ginevra trovò Zoraide svenuta: in tutt'altro momento avrebbe
benedetto Iddio d'averla liberata; ma allora si trovava non aver fatto
nulla quando credeva tutto finito. Che cos'era stato di Ginevra? Come
trovava ora qui costei? Sospirò profondamente, battendosi col pugno
la fronte, ed affrettando sè e i compagni (stupiti di non vederlo
contento, poichè non conoscevano lo scambio), in pochi momenti si trovò
nell'isola, e su per le scale in un lampo fu nella camera di Ginevra:
trovò tutto aperto e tutto vuoto, e l'isola e il monastero in profonda
quiete. Mentre usciva per cercar altrove qualche contezza, i suoi
compagni giungevan nell'andito sorreggendo Zoraide che aveva ripreso
gli spiriti, e che alle premurose interrogazioni di Fieramosca non
sapeva risponder altro se non che, verso le tre ore era stata svegliata
a un tratto da molti uomini, i quali, entrandole in camera, l'avean
avvolta nel lenzuolo e portata con loro in una barca, e d'altro non si
ricordava; che di Ginevra non sapeva nulla, non avendola veduta dalla
metà dello scorso giorno, in cui essendosi accorta che stava sopra di
sè malinconica, avea creduto bene di non darle noja, ed all'ora solita
era andata a letto senza cercar di lei.
Tutta questa storia Ettore l'ascoltava in piedi, cogli occhi fitti in
Zoraide, ed alla fine delle sue parole si veniva a mano a mano mutando
in viso facendosi pallido ed infossando le gote: all'ultimo dovette
sedere, e facendo forza per rialzarsi, le ginocchia gli mancavano. Uno
di loro intanto era andato a picchiare alla porta del chiostro, e fatto
risentir Gennaro, ritornava col lume. Brancaleone ed Inigo rimaser
colpiti all'aspetto di Fieramosca cambiato in pochi momenti da metter
spavento, e l'attribuirono alla fatica ed all'angoscia dell'animo.
Tentò la seconda volta di rizzarsi, ma le forze l'aveano abbandonato
interamente, e ricadendo col capo in dietro sulla sedia disse con
voce alterata:--Brancaleone! Inigo! io mi sento il maggior male ch'io
avessi mai, e non sono da tanto che potessi alzar una penna, non che
la spada: il tempo vola, e che cosa sarà di Ginevra? Potessi ritornar
gagliardo un'ora!... e poi esser fatto in polvere.... Vi prego,
carissimi compagni, non tardate un momento.... andate voi.... neppur
so dirvi dove.... ma tornate a Barletta, cercate, liberate costei,
trovatela in tutti i modi. Dio eterno! ch'io non possa far un passo per
lei!....--e volle riprovare, ma non gli fu possibile, e di nuovo pregò
più caldamente i compagni che lo lasciassero, e corressero ad ajutar
la donna; ed aggiunse tante istanze che coloro, conoscendo non esser
tempo da perder in consigliarsi, promettendogli di tornar presto con
qualche nuova, lo lasciarono; e, messisi in mare con egual prestezza,
si dirizzarono alla città.
Zoraide intanto tutta sollecita si dava da fare per soccorrere il
suo liberatore con parole ed atti pieni di tenera amorevolezza, e
slacciatogli l'elmo s'affannava a sfilargli il giaco di maglia: quando
vi fu riuscita, nell'asciugargli la fronte e 'l collo dal sudor freddo
che ne grondava, si accorse della ferita che avea toccata poco sotto il
collarino della camicia.
--Ohimè! sei ferito!--gridò; e tosto con un panno tergendo il poco
sangue che era uscito, e che, nascondendo la ferita, la facea parer
maggiore, si racquetava vedendola così leggera e diceva:
--Oh non è nulla! è una scalfittura;--ma riguardando poi più
attentamente col lume, vedeva intorno alla ferita formarsi come una
rosa d'un rosso pavonazzo, ed osservando il viso di Fieramosca vi
scorgeva negli occhi e sulle labbra nascere un certo livido, le mani
e l'orecchie color di bossolo, fredde ed irrigidite. Per esser nata e
vissuta in levante, avendo pratica di trattar ferite d'ogni specie,
tosto le nasceva il sospetto che il pugnale fosse avvelenato. Pregava
il giovane a porsi sul letto; e reggendolo, non senza fatica, riusciva
a farvelo salire; tastandogli il polso lo sentiva batter lento lento e
come imprigionato.
Ma le pene del corpo eran nulla per Fieramosca a petto delle
idee angosciose che a mano a mano gli s'andavano moltiplicando,
presentandosi alla sua mente sotto forme sempre nuove. I casi accaduti
in quella sera, ed il pericolo di Ginevra non gli avean lasciato fin
allora pensare ad altro che ad essa; ma come al condannato l'ultima
notte della sua vita, se può aver qualche ora di sonno, nello
svegliarsi gli piomba tutt'a un tratto sul cuore l'idea della morte
imminente, nello stesso modo appena potè Fieramosca risentirsi dallo
sbalordimento in cui era, gli sovvenne della sfida, del giuramento
prestato di non esporsi a rischi di riportar ferite: pensò della
vergogna che era per incontrare mancandovi, del dolore di non poter
alzar la spada coi suoi compagni; dello scherno che farebbero i
Francesi di lui, del perduto onore italiano; e queste immagini tutte
insieme lo saettarono di tanta forza nella parte più sensibile del
cuore, che tutti i muscoli del suo corpo si contrassero con un moto
convulsivo, e gli uscì dal petto un sospiro così amaro, che Zoraide
balzò in piedi sbigottita, domandandogliene la cagione. Ettore
esclamava:
--Io son vituperato per sempre! La sfida, Zoraide, la sfida! (si
batteva col pugno la fronte); mancano pochi giorni, e mi sento ridotto
di qualità, che non potrei tornar gagliardo neppure in un mese. Oh Dio!
per che gran peccato mi tocca questa sciagura?--
La giovane a queste parole non sapeva che rispondere, ma probabilmente
più che alla battaglia pensava al presente pericolo di colui che tanto
le stava nel cuore; pericolo che la sua esperienza le mostrava ogni
tratto divenir più grave. A quel momento d'orgasmo avea con un subito
passaggio tenuto dietro una specie di letargo: era caduto supino, la
testa rovesciata sul guanciale, più pallido che mai; il batter delle
vene del collo si mostrava convulse, e, guardando Zoraide la ferita,
trovò il rosso attorno cresciuto quasi d'un dito.
Ed Ettore pur seguitava a dolersi, e diceva:--Ecco il campione
dell'onore italiano! ecco il glorioso fine della battaglia, delle
braverie e dei vanti che n'abbiamo menati! eppure in faccia a Dio,
dov'è il mio delitto? potevo fare altrimenti che non ho fatto?--
Ma queste ragioni eran ben lungi dal recargli sollievo, e pensava:
--E a chi racconterò questa storia? a chi dirò le mie ragioni? ed anche
dicendole non parrà vero ai nemici poter fingere di non crederle, e
dire: Ettore immaginò queste ciance perchè avea paura di noi.--
Mentre con queste immaginazioni s'agitava la mente, il veleno pur
troppo innestatogli dal pugnale di Don Michele faceva progressi
serpendogli per le vene che si diramano sulla superficie del cranio,
e a gradi a gradi si sentiva intorbidare la vista ed il lume
dell'intelletto, con uno stiramento alle tempie pel quale gli pareva
veder tutti gli oggetti prima traballare, poi dar volte sempre più
rapide, sparse di punti lucidi che l'abbagliavano. Zoraide gli stava
ritta accanto guardandolo tutta sgomentata e tremante, ed Ettore le
teneva in viso gli occhi aperti e fissi. E con quella vacillazione
di sensi, al debol chiarore del lumicino che andava morendo, vedeva
progressivamente scomporsi le fattezze della giovane e i suoi
lineamenti mutarsi in quelli di La Motta: questa larva stirando gli
angoli della bocca formava un riso amaro e spaventevole; andava
ingrossando e dilatando le labbra, e n'usciva la forma di Grajano
d'Asti, che da piccolo a poco a poco cresceva, e spalancate anch'esso
le fauci in egual modo, produceva la pallida sembianza del Valentino:
così queste forme nascendo l'une dall'altre presentarono come una
fantasmagoria di quei personaggi che dovevano a quell'ora star più
spiccatamente dipinti nella mente dell'infermo. Fra l'altre venne
anche l'immagine di Ginevra alla quale, chiamandola a nome con parole
caldissime d'amore, diceva: Lasciarmi morir così! io che t'amai tanto!
levami di questo pozzo..... toglimi queste tarantole che mi strisciano
sul viso.... Ed altre tali vane parole. Al fine delle quali, tutte
le figure che credeva scorgere, si vennero confondendo insieme,
formarono dapprima una tinta unita, rossa e tremola come un lampeggiar
prolungato, che poi oscurandosi e perdendosi gradatamente si estinse
del tutto, quando le facoltà morali e corporee del giovane furono
interamente sospese.


CAPITOLO DECIMOSESTO.

Per condurre di pari il racconto de' molti accidenti che accaddero
separatamente in quella sera ai varj attori di questa storia, ci
è convenuto lasciar il lettore sospeso sul conto di ciascuno; e
quantunque sia questo il costume di molti narratori, non crediamo
che riesca gradito quando il libro che si ha fra le mani è da tanto
d'inspirar il desiderio di conoscere il fine. Non ci scuseremo
presso il lettore d'aver seguìto un tal metodo, che del resto era
indispensabile nel caso nostro: questa scusa sarebbe un atto di vanità
che potrebbe far ridere alle nostre spalle; e la modestia, che in
alcuni è una virtù, in molti è un tornaconto.
Comunque stia la cosa, dobbiamo abbandonar per poco anche Fieramosca;
tornar alla rocca e trovar il Valenza che vi lasciammo nelle camerette
basse guardanti la marina.
Il primo de' due fini pei quali s'era condotto all'esercito spagnuolo,
malgrado la sua astuzia, gli era andato fallito; nè avea potuto
infondere a Consalvo bastante fiducia per indurlo a far lega con esso
lui, od almeno a spalleggiarlo. Lo Spagnuolo, serbandogli fede quanto
al tenerlo celato, avea declinate le sue domande, accogliendolo poi
del resto con quell'onore che, se non si doveva alle sue qualità, si
credeva dovuto al suo grado. Nei sette o otto giorni che scorsero
fra l'attaccarsi e lo sciogliersi di questa pratica, stette così
quasi sempre chiuso nelle sue camere per non dar indizio di sè; e se
qualche rara volta uscì a prender aria, fu di notte e colla maschera
al viso, come in quel secolo s'usava fra gli uomini d'alto stato, e
spesso per ajutare col segreto le poco lodevoli operazioni. Ma, come
dicemmo, alle mire politiche s'univano macchinazioni contro quella
che era stata ardita abbastanza per mostrargli sprezzo; e queste
macchinazioni, mediante la destrezza di Don Michele, e secondo le sue
promesse, dovevano in quella sera avere il loro effetto. Parrà forse
difficile ad alcuno il concepire come quest'insigne ribaldo, rotto ad
ogni sfrenatezza, potesse tanto stimare il possesso di una femmina,
e seguirne con tanto studio la traccia. Ed in fatto sarebbe errore
l'ammettere che l'amore, anche nel senso più abbietto, guidasse i
desiderj del Valentino. Ma Ginevra aveva resistito, resistito mostrando
sprezzo ed orrore per lui; viveva, a creder suo, felice con un altro;
gli pareva rimanere al di sotto e schernito: e chi nell'universo doveva
potersi vantare d'aver fatto stare Cesare Borgia?
Di quante donne aveva incontrate che avesser pregio di bellezza, tutte
aveva lasciato o colpevoli od infelici; e ve n'era pur fra queste delle
virtuose e dabbene, e di tali che strette per sangue ad uomini potenti
dovevan tenersi sicure. Si poteva ora sopportare che una femminella
poco nota e meno curata si facesse beffe a tal segno di lui che faceva
tremare Italia da un capo all'altro?
A quest'ora però il Valentino si trovava presso a poter far le sue
vendette, e diceva fra sè: il disagio d'essere stato in questa segreta
me l'avrai da pagar caro! E per verità il soggiornare in camerucce
simili ad una prigione, avvezzo com'era al vivere splendido della corte
romana, doveva parergli duro, se a quell'uomo fosser mai parse dure
cento privazioni per ottenere un suo fine. I modi tuttavia d'impiegare
il tempo non gli erano mancati interamente. Oltre le ore che aveva
dovuto passar con Consalvo, e quelle spese ad ordir con Don Michele la
traccia di loro impresa, gli pervenivano pure di giorno in giorno dalla
Romagna messi che spediti di colà da' suoi più fidati gli portavan
lettere, carte, avvisi sugli affari correnti; giugnevano e ripartivano
la notte, verificando in ogni cosa l'asserzione di Niccolò Machiavelli
che, scrivendo al Comune di Firenze poco prima di quest'epoca, diceva:
_Di quante corti sono al mondo, quella ove più si serba il segreto è
la corte del duca_. E benchè non aggiungesse chiaramente il perchè,
lasciava intendere che alle lingue imprudenti veniva imposto il
silenzio dell'avello.
Questa corrispondenza si manteneva per mezzo di legni leggieri che,
navigando terra terra dalla Romagna, s'appiattavano fra certi scogli
a piè del Gargano; di là con una barchetta a notte chiusa giungeva il
messo alla rocca, e dalle loro ciurme composte d'uomini scelti aveva
Don Michele tolto i compagni che alla sua impresa gli bisognavano.
In questa sera, mentre il castello era pieno di romori e di suoni,
stava il Valentino seduto avanti ad una tavola al lume d'una lucerna,
ripassando, per ingannar l'ore, molte carte che i corrieri dei giorni
innanzi gli avevan recate. Era vestito d'una cappa riunita d'avanti
da una fila di piccoli bottoni, col busto e le maniche di raso nero
piuttosto strette, e sovr'esse molte strisce di velluto bianco volanti,
e solo riunite al braccio in quattro luoghi da' cerchi del medesimo
panno: presso il collarino della cappa tre o quattro bottoni aperti
lasciavan vedere un giaco di finissima maglia d'acciajo che portava
sempre di sotto: abito che fu dal duca usato sovente; e chi ha visitato
in Roma la galleria Borghese si ricorderà d'avervi veduto il ritratto
suo per mano di Raffaello, vestito in tal guisa. Malgrado la forza
della sua complessione, era travagliato di tempo in tempo da un umore
acre della specie degli erpeti, che ora gli serpeggiava latente pel
sangue, ora si scopriva alla cute e sulla faccia specialmente, ed
allora la livida pallidezza del suo volto si cangiava in un rosso
spugnoso pieno di bolle, dalle quali stillava umore, e la schifosa
deformità del suo viso era tale da metter ribrezzo anche nelle persone
che di continuo gli stavano vicine; nè un'anima simile alla sua poteva
vestirsi d'una forma che più ne facesse il ritratto. Per la vita
sedentaria menata in quei giorni tanto contra il suo solito, e per
virtù della primavera s'erano sprigionati quegli umori infetti con
grandissima forza, deturpandogli più che mai i lineamenti, ed inducendo
in tutto il suo essere una inesplicabile ed irrequieta rabbia,
conseguenza ordinaria di tali malanni.
Verso le due ore, quando nelle sale al disopra stava cominciando il
ballo, la porta della camera del duca fu spinta leggermente ed aperta
da un uomo vestito di calzoni rosso-oscuri stretti alla carne, d'una
cappa che gli giungeva a mezza coscia, con un cappuccio nero sugli
occhi, spada, pugnale, ed un involto sotto braccio. Il Valentino alzò
il viso; e colui entrando, e facendo riverenza, deponeva sulla tavola
l'involto, senza che da nessuno dei due venisse profferita parola:
messa il duca una mano sull'involto diceva al messo:
--Stanotte mi leverò di qui: va nell'ultima di queste camere,
chiudiviti; e per cosa che ascolti, non venir se non ti chiamo.--
L'uomo uscì per la porta in faccia a quella dalla quale era entrato,
e Cesare Borgia trattosi d'accanto un pugnaletto che radeva, tagliò
i cordoni di seta vermiglia che coi sigilli apostolici legavano una
lettera in carta pecora che gli scriveva papa Alessandro. Nell'aprirla
uscì dell'interno rotolando sulla tavola un globetto d'oro; alla
vista del quale il duca balzò in piedi con sospetto; e guardando più
attentamente i sigilli e lo scritto, si veniva rassicurando e si
riponeva a sedere.
Nè si voglia attribuire questo suo sbigottimento a timor panico: erano
tanti i modi in quel secolo d'apprestar veleni, e persine di mandarli
chiusi in lettere in forma che all'aprirle facessero immediatamente il
loro effetto, che era perdonabile il duca se la vista d'un oggetto che
non aspettava l'aveva colpito: e se v'era al mondo uomo che dovesse
alla prima pensar al peggio, era esso sicuramente.
La lettera era scritta in una cifra della quale nessuno aveva la chiave
fuorchè egli ed il papa; per la pratica fatta la lesse correntemente, e
la sua sostanza era questa:
_Il pontefice essere stato tentato dall'oratore del Cristianissimo
onde fermasse con questo i patti d'una lega contra il re cattolico
per ispogliarlo del reame: offrendo nell'istesso tempo d'unir le sue
forze a quelle della Chiesa per l'impresa di Siena e degli Stati del
Co. Giordano. Non aver però il papa creduto bene di scendere a questi
accordi prima di sapere a che termini fosse la pratica attaccata dal
Valentino con Consalvo._
_Avere dalla madre e dall'amica del cardinale Orsino avuta una somma
in denaro ed una perla di mirabil bellezza, trafugate entrambe dal
palazzo di monte Giordano, quando era andato a sacco per ordine del
papa dopo la morte del duca di Gravina, Vitellozzo e Liverotto da
Fermo._
_Volere che il duca tenesse le genti in pronto, onde alla morte del
cardinale sopraddetto potesse andare a campo a Bracciano, ove gli
Orsini e i loro consorti s'erano rannodati._
_Per supplire poi alle spese che domandava l'esecuzione di tali
disegni, avere stabilito il pontefice di dar il cappello a Gio.
Castellar arcivescovo di Trani, a Franc. Remolino oratore del re
d'Aragona, a Francesco Soderini di Volterra, a monsignor di Corneto
segretario de' Brevi, e ad altri ricchi prelati, aspettando che il
figlio tornasse a Roma per decidere quanto venisse bene di fare, onde
impadronirsi de' loro tesori._
_In ultimo diceva essere stato ammonito che in quell'anno studiasse
guardarsi da un grave pericolo, e consigliato portasse indosso, a
sua salvaguardia, un globetto d'oro con entrovi un oggetto di somma
venerazione, simile a quello che si mandava al duca al medesimo
effetto._[11]
Quantunque i fatti accennati in questa lettera orribile, sieno pur
troppo veri, e che il tradimento ordito contra il cardinale di
Corneto specialmente, tornando in capo al papa, come ognun sa, sia
stato cagione della sua morte, siamo stati in dubbio se dovessimo
svelare tanto vituperio ai nostri lettori. Ma se Iddio, per fini
impenetrabili, ha permesso che alcuno dei primi custodi delle cose
più sante ne abusasse sì bruttamente, forse nocerebbe voler nasconder
le sue iniquità, e ne riporteremmo taccia di parziali, e di cercar
il trionfo della parte e non della verità, cui per reggersi non fa
mestieri l'ajuto della doppiezza. I falli di papa Borgia, e di altri
ministri della Chiesa saranno pesati sulle bilance incorruttibili
dell'ira di Dio, e non è dato all'uomo antivederne i giudizi: ma dalle
ceneri di quei pontefici, non meno che dalle tombe de' martiri, sorge
una verità che ci mostra, non sull'oro, non sulle spade, nè sulle arti
cortigianesche, ma sulle virtù evangeliche alzarsi e star gloriosa la
croce di Cristo.
Al duca di Romagna, come si può immaginare nel leggere la lettera
di suo padre, vennero in mente riflessioni molto diverse da queste.
Volgendo alternativamente lo sguardo allo scritto ed alla palla d'oro
che si faceva girar fra le dita, componeva il volto ad un sorriso nel
quale appariva disprezzo per un verso (poichè non credeva nè in Dio
nè in Santi), per l'altro una credulità timida e sospettosa, poichè
avea fede nell'astrologia: tanto è vero che l'intelletto ha bisogno di
veder un principio al di là del mondo corporeo. Se anche non avesse
disposto di partir la stessa notte per Romagna, le cose contenute in
quella lettera ve l'avrebbero indotto. Una trama che doveva saziar la
sua ambizione e tanto impinguare i suoi forzieri era ben altra cosa che
un vano impegno di femmine. Pensò che non poteva molto tardare a tornar
Don Michele co' suoi; messosi perciò in seno la palla d'oro coll'atto
non curante di chi dice, «sarà quel che sarà», si diede a metter
insieme le carte ed altre cose che dovea portar seco.
In pochi minuti tutto fu all'ordine. Ritornò a sedere come prima; e per
non saper che fare, si cavò di seno quella palla, cominciò a guardarla
e riguardarla, e farsela cadere da una mano nell'altra pensando a ciò
che conteneva, e a chi gliel'avea mandata; e poi via via da un'idea
in un'altra, alla Religione di cui questi era capo, agli articoli di
fede ch'esso pure avea creduti un tempo, al suo splendido stato, frutto
della soggezione dei popoli all'autorità pontificia; e dopo avere
schernita in cuore la credulità di tanti, e pensato «Io, a buon conto,
me la godo alla barba di tutti», udiva una voce che uscendo cheta cheta
di sotto quest'edificio di superbia, di violenza e d'irreligione,
diceva «E se fosse vero?»
Il duca non volendo prestarle fede, nè potendo farla tacere, s'alzò
con istizza, passeggiò per la camera, e fece alla meglio che potè per
distarsi. Tutto inutile. Quel _se fosse vero_ l'incalzava, infestandolo
e togliendogli, se ardissi dirlo, il sapore degli onori, del potere,
di tutti i beni che possedeva. Si buttò sul letto, cacciando il volto
con rabbia fra i guanciali; e, dandosi del pazzo, riuscì poco a poco a
calmarsi. Gli si fecer gravi le palpebre, le chiuse, s'addormentò.
Ma nel sonno il corso delle sue idee rimanendo nella medesima
direzione, gli parve esser in Roma sulla strada che da castello va a
San Pietro. Il cielo, la terra erano sconvolti; tutto diverso, tutto
pieno di tenebre e d'urli. Egli si spingeva per correr in San Pietro,
e non poteva, ed ansava affannato: gli parve d'esser tenuto, guardò
intorno: erano tutti coloro che aveva traditi, assassinati, avvelenati,
e l'avean pe' capelli e per le carni, con un gridar lungo e disperato.
Dopo, senza saper come, era in San Pietro, in un caos inenarrabile,
bujo, pieno di pianti, fra lo scuotersi delle mura, l'aprirsi delle
tombe, il vagar delle larve; ed egli, sempre straziato dalle sue
vittime che gridavan «Giustizia di Dio!» pensava: questa è dunque il
Giudizio che non volevo credere!
E tirava alla disperata per andar innanzi, e cercar rifugio pressa al
papa che vedeva in fondo sul suo trono fra una luce pallida e fioca.
Ma l'impedivano di qua il fratello, duca di Candia, colle ferite
aperte, che invece di sangue gemevano una linfa corrotta, e colla
forma turpe e gonfia d'un cadavere imputridito sott'acqua, di là il
duca di Biselli, e Astorre Manfredi, e donne, e fanciulli, che tutti
piangendo stendevano le braccia al papa gridando, giustizia e vendetta!
Il papa era chiuso in un gran piviale nero col triregno in capo. Il
viso grasso, vizzo, cascante d'Alessandro VI era giallo come quello di
un cadavere; e mentre la sua figura si venne alzando lenta lenta, come
rizzandosi in piedi, le grida e i pianti furono coperti da uno scroscio
di risa infernali uscito dalla bocca di un demonio accovacciato colle
ginocchia al mento con queste parole: «Cristo, la fede, i papi... tutte
imposture» e questa ultima parola suonò sotto la volta della chiesa
come un lungo ululato.
Il duca n'avea ancor pieni gli orecchi, e già era cogli occhi aperti,
seduto sul letto, e svegliato del tutto.
Rimase un momento sbigottito, ma questo sogno rese però in lui più
ferma la scellerata opinione che poteva commetter qualunque delitto
senza timor del castigo in un'altra vita.
Mentre si rinfrancava con questo pensiero (eran sonate le tre ore da
pochi minuti), il ronzìo del parlare di tante persone, i suoni, le
grida d'allegrezza che scendevano dal piano superiore della rocca
giugnevan deboli per la grossezza delle volte in quel piano terreno,
allorchè quello stesso grido, che avea interrotto il colloquio di Donna
Elvira e Fanfulla, fu udito dal duca molto più vicino, e quasi venisse
di dietro all'uscio suo, il quale metteva s'un poco di rena secca che
si trovava tra il mare e i fondamenti del castello. Uscì a vedere chi
l'aveva mandato, e non vide che un battello vuoto la cui prora solcando
la sabbia s'era fermata a riva: guardò su alla loggia ed alle finestre,
e non vide alcuno: stava per rientrare nella sua camera, pure fece
alcuni passi avvicinandosi al battello, ed allungando il collo sopra
gli orli vi trovò nel fondo distesa una donna che col capo all'ingiù
fra le due mani tratto tratto si lamentava. Dopo un primo movimento
di sorpresa, subito si risolse; ed entrato nel battello, postole un
braccio sotto le ascelle, e coll'altro alzandola alle ginocchia la levò
di peso, e tramortita come era, la portò dentro e la depose sul letto.
Ma qual fu la sua maraviglia quando, accostatole il lume per vederla
in viso, conobbe Ginevra! Gli era troppo rimasto impresso quel volto
per poter negar fede ai suoi occhi; ma come indovinare per quale strano
accidente gli venisse ora in mano così sola, ed a quel che pareva
avendo ingannate le insidie di Don Michele?
Di qui innanzi, diceva fra sè stesso, voglio credere almeno vi sia il
diavolo. Altri che un diavolo amico non potea servirmi tanto a piacer
mio. E posato il lume s'una piccola tavola accanto al capezzale,
seduto sulla sponda del letto, studiava i moti del viso di Ginevra
per cogliere il momento in cui si fosse risentita; il piacere di
potersi goder finalmente una vendetta lunga, dolorosa gli accendeva
gli occhi d'una fiamma scorrente a guisa di scintilla elettrica fra
ciglio e ciglio, e le macchie che gli deturpavan il volto, parea
ribollissero tingendosi d'un colore quasi sanguigno. Certo la faccia
d'un uomo, mettendo insieme la deformità fisica con quella che induce
nei lineamenti l'espressione del delitto, non s'era mostrata mai sotto
un aspetto più orrendo. Da un lato Ginevra pallida, immobile, col
dolore scolpito in viso, con una mossa tutta abbandonata e languente;
dall'altro il Valentino, quale l'abbiamo descritto, formavano un quadro
troppo doloroso. Stettero ambedue in questa situazione immobili lungo
tempo: potè dirsi felice Ginevra finchè i suoi sensi smarriti, le
palpebre abbassate le tolsero la conoscenza del luogo ove si trovava, e
la vista di quello che oramai era assoluto padrone di lei; ma durò poco
questa fortuna, e da qualche moto leggiero s'avvide Cesare Borgia che
la sua vittima stava per aprir gli occhi. In quel luogo, ed a quest'ora
era certissimo che nessuno poteva impedirlo: il gridare sotto quelle
volte, mentre la festa era nel maggior calore, non sarebbe stato udito.
Trovandosi dunque sicurissimo, propose in cuor suo, poichè gli avanzava
il tempo, di goder senza fretta d'una fortuna tanto seconda.
Finalmente un sospiro profondo uscì dal petto della giovane, e fece
alzare i veli che lo coprivano. Aprì un momento gli occhi, e tosto li
richiuse. Gli aprì la seconda, la terza volta, poi cominciò a fissarli
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