Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 18

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forme fantastiche, che già percosse dal sole ne rifrangevan i raggi
indorati. Altre strisce di nebbia più densa restavano leggermente
posate sulla pianura, somigliando a letti di cotone bianchissimo, sovra
i quali sorgevano qua e là gruppi d'alberi più alti, e le creste di
qualche collinetta. Il disco del sole vicino ad uscir dal mare spandeva
in cielo la sua luce rancia, lasciando muti gli oggetti terrestri,
illuminati soltanto dal riflesso dell'atmosfera. Tutti gli spettatori
avean come involontariamente gli occhi volti verso il punto dove
stava per comparire. Sull'ultima linea del mare parve alla fine quasi
generata una scintilla di luce vivissima; crebbe, prese forma, uscì il
sole maestoso come un globo di fuoco, e diffuse la sua luce, che diede
forma e colore agli oggetti, e si duplicava oscillando riflessa nel
mare.
Una squadra di fanti venuta quivi per tempo teneva sgombro il campo
dal popolo che stava disperso in gruppi tutt'all'intorno, radunandosi
più frequente nei luoghi ove molti venditori di comestibili e di
vino avean tese le loro tende, ed alzati banchi e tavole. V'era fra
questi l'oste del Sole, Veleno, che il lettore ben conosce, e che in
uno dei luoghi più in vista aveva piantato il suo negozio ambulante
sotto una frascata, alla quale già eran concorsi molti de' soldati
suoi soliti avventori: due o tre gran padelle da friggere eran al
fuoco su altrettanti fornelli di ferro portatili; una tavola composta
d'asse rozze, e connesse alla meglio su varj pali, che fitti nel suolo
servivano di gambe, era coperta di canestroni di pesce, carciofi,
ortaglie d'ogni genere da friggere. Egli, con due grembiuli e la
berretta di bucato, colle maniche della camicia rimboccate sino alla
spalla, teneva sotto il braccio la pentola da infarinare, in una matto
il piatto col fritto ancor crudo, nell'altra le mollette per prenderlo,
e si affaccendava a preparar questo cibo tanto gradito agli Italiani
meridionali, senza restar mai un momento dal cicalare, ridere,
domandare e rispondere a tutti in una volta, e soltanto interrompeva a
quando a quando questi dialoghi, o per cantar _La bella Franceschina_,
o per gridar quanto n'avea nella canna: Ah che alici! ah che alici! son
vive le trigliarelle! o non avete occhi, o non avete danari! ed altre
simili inculcazioni che s'udivano da mezzo miglio lontano.
Alla fine, un mormorar più forte della folla che occupava i luoghi
superiori fece volgere a tutti il viso verso quella parte, e passando
di bocca in bocca giunse la nuova, che già si scorgeva il drappello
francese. Pochi minuti dopo compariva alla voltata d'una strada,
che usciva di dietro una collina, ed avanzandosi, venne a porsi in
battaglia nella parte superiore del campo, volgendo la fronte al mare.
Scavalcati i guerrieri ed un centinaio e mezzo di compagni ed amici
che eran con loro, lasciaron ai famigli i cavalli, e, saliti al luogo
dei giudici, si dispersero sotto i lecci aspettando l'arrivo degli
Italiani. Sulla strada di Barletta un nuvolo di polvere, fra il quale
si potè presto distinguere il lampeggiar dell'armi, mostrò che non eran
per farsi troppo aspettare. Le turbe sin allora disperse si strinsero
ai confini della lizza, studiando ognuno di cacciarsi avanti, malgrado
che i fanti di guardia, con que' modi amorevoli che in ogni tempo ha
sempre usato la soldatesca in simili occasioni, battendo sul suolo, e
talvolta sulle punte dei piedi i calci delle ronche e delle picche,
ricacciassero indietro l'onda che tentava di sopraffarli.
Giunsero gl'Italiani, si fermarono in faccia ai loro avversarj
nell'ordinanza medesima, e scavalcati, salirono anch'essi sul rialto
degli elci.
Dopo i saluti e le cortesie scambievoli, il signor Prospero e Bajardo,
che erano i due padrini, s'abboccarono, e decisero che prima di tutto
conveniva trarre a sorte i giudici.
Il lettore si maraviglierà, son certo, di non trovar il famoso Bajardo
fra i combattenti in così importante occasione, e vederlo invece
adempiere le parti di padrino: gli dirò dunque che non ne abbiam
provata minor maraviglia di lui, nè sapremmo formar su questo fatto
altra congettura se non supporre che qualche ferita non interamente
sanata gl'impedisse di trattar l'armi, o che forse la quartana che lo
travagliava in quel tempo, troppo gli scemasse le forze: a ogni modo
sappiamo certissimo che egli non era fra i campioni.
Scritti dunque i nomi di alcuni caporali de' due eserciti spagnuoli,
francesi ed italiani in egual numero; rotolati i brevi, e posti in
un elmo, cadde la sorte su Fabrizio Colonna, Obignì e Diego Garcia
di Paredes; i quali, sedendo al luogo preparato per loro, aprirono
su una tavola il libro dei Vangeli, e ricevettero il giuramento de'
ventisei guerrieri: col quale s'impegnavano a non adoperar frode
nel combattere; asserivano non aver incanti nè sui loro corpi, nè
sull'arme; ed incontrar quel cimento valendosi della sola virtù e delle
forze naturali. Furon letti di nuovo ad alta voce i patti coi quali
si rimaneva d'accordo che ogni uomo potesse riscattar sè, l'arme e 'l
cavallo mediante cento ducati; ed uno fra gl'Italiani, votando sulla
tavola il sacco del danaro che avean recato, lo contò, e lo consegnò ai
giudici. S'aspettava quindi che i Francesi facessero altrettanto: visto
che nessuno si moveva, Prospero Colonna disse loro più modestamente che
potè:--Signori, e il vostro danaro?--
Si fece avanti La Motta, e rispose sorridendo:
--Signor Prospero, vedrete che questo basterà.--
Montò la stizza al barone romano per la millanteria inopportuna,
ma si frenò, e disse soltanto:--Prima di vender la pelle conviene
ammazzar l'orso. Ma non importa; e quantunque fosse patto fra noi di
portar il riscatto, neppur per questo non vogliamo metter ostacoli
alla battaglia.--Signori (aggiunse poi volto ai suoi), avete udito:
questo cavaliere tien la cosa per fatta; sta a voi a chiarirlo del suo
errore.--
Sarà inutile il dire che questi modi sprezzanti fecero ribollire il
sangue agl'Italiani, ma nessuno rispose nè a La Motta, nè al signor
Prospero, fuorchè con qualche digrigno, o qualche occhiata fulminante.
Terminati questi apparecchi, furon dai giudici licenziate le due parti
e data loro una mezz'ora per prepararsi; dopo la quale un trombetta a
cavallo, situato all'ombra degli elci, accanto ai giudici, darebbe tre
squilli di tromba, segnale dell'assalto.
Ritornati a' loro cavalli e montati in sella, furon dai padrini
disposti in fila a quattro passi di distanza l'uno dall'altro; e tanto
il Colonna quanto Bajardo osservarono di nuovo i barbazzali, le cigne
delle selle, le corregge e le fibbie dell'armature; e, se v'eran occhi
esercitati ne' due campi, eran senza dubbio i loro.
Finita questa rivista, fermato il cavallo nel mezzo della linea, il
signor Prospero disse ad alta voce:
--Signori! non crediate ch'io voglia dirvi parola per eccitarvi a
combatter da uomini pari vostri: vedo fra voi Lombardi, Napoletani,
Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d'Italia ugualmente? Non
sarà ugualmente diviso fra voi l'onore della vittoria? Non siete voi a
fronte di stranieri che gridan gl'Italiani codardi? Una cosa sola vi
dico: vedete là quel traditor scellerato Grajano d'Asti. Egli combatte
per mantener l'infamia sul capo de' suoi compagni!... m'intendete!...
Ch'egli non esca vivo di questo campo.--
Fieramosca che era vicino a Brancaleone gli disse sottovoce:--Ah! se il
voto non mi legasse le mani!...--E Brancaleone gli rispose:--Lascia far
a me che non ho voti; so io dove gliel'ho da appiccare!--
La voglia d'uccider Grajano era nata in lui dal giorno in cui, udite le
vicende del suo amico, vide che poteva così toglier di mezzo l'ostacolo
che si frapponeva fra esso e Ginevra. Sapendolo poi nel numero dei
campioni francesi, conobbe che l'occasione non gli sarebbe mancata; ed
il giorno della giostra, si rammenterà il lettore delle informazioni
che si procacciò, mentre il cavalier astigiano s'armava accanto
all'anfiteatro. Ora la fine impreveduta di Ginevra distruggeva il suo
primo pensiero; tuttavia non abbandonò il disegno, e gli crebbe poi il
desiderio di eseguirlo, per le parole del signor Prospero, al quale,
come al capo della parte colonnese, obbediva ciecamente in tutto.
I due padrini intanto s'eran ritirati ai loro posti: Bajardo presso
i giudici, ed il Colonna sotto le querce. Questi tutto armato,
fuorchè il capo, su un gran cavallo nero coperto di una gualdrappa
vermiglia ricamata in oro, alzava la fronte grave ed ardita verso i
suoi, aspettando in silenzio la tromba. Avea accanto un suo paggio,
bel giovane di sedici anni, vestito di cilestro, colle calze color
di carmino, e varj caposquadra dell'esercito in diverse attitudini
che, malgrado la loro immobilità, mostravano non so che d'energico e
di marziale. A misura che s'avvicinava il momento, venivano a tutti
mancando le parole; al più, s'udiva qualche monosillabo bisbigliato
sommessamente fra' vicini; ed in questa quiete che dava all'adunanza un
aspetto grave e solenne risonava solo di tempo in tempo lo scalpitare
ed il nitrir dei cavalli, che tenuti in riposo e ben pasciuti, non
potevan ora star fissi nell'ordinanza, rodevano i lunghi freni
dorati, li coprivan di spuma, facendo arco del collo e della coda; e,
rizzandosi sui piè di dietro, sbuffavano colle nari tese e sanguigne, e
parevan dagli occhi gettar faville.
È difficile ai giorni nostri formarsi un'idea dell'aspetto marziale
d'un uomo d'arme di quel tempo, coperto tutto di ferro esso e 'l
cavallo. Ogni cavaliere colla visiera abbassata, chiuso nell'arnese,
collo scudo al petto e la lancia alla coscia, inforcava una sella, i
cui arcioni ferrati s'alzavano avanti e dietro come due ripari che
rendevano quasi impossibile il cadere; incastrato così, stringendo le
ginocchia, era talmente aderente al cavallo, che tutti i suoi moti gli
si comunicavano con quell'unità che dovrebbe legare le due nature del
centauro.
I cavalli avean le parti anteriori e laterali del capo difese da
un guernimento di ferro, nel quale eran soltanto due buchi per gli
occhi; in mezzo alla fronte una punta; il collo, le spalle ed il
petto ugualmente coperto da piastre soprapposte a guisa di scaglie,
e snodate, onde lasciar liberi tutti i moti; ed un arnese dello
stesso artificio si stendeva sulla groppa e le parti laterali del
ventre, lasciandone scoperto soltanto il luogo per le spronate. Le
belle fattezze di questi nobili animali eran così deturpate da tutte
quell'armature che parevano dalle gambe in fuori quasi altrettanti
rinoceronti. Vedendoli fermi si sarebbe creduto impossibile che
potessero muoversi non che correre; ma uno scuoter di briglia od un
accostar del calcagno del cavaliere li trovava agili e pronti come
fosser nudi, tanto maestrevolmente eran congegnate quell'armi.
Oltre lancia, spada e pugnale che ogni uomo d'arme portava sulla
persona, avea appese all'arcione davanti una mazza d'acciajo, ed
un'azza: e gl'Italiani avean gran nome nel maneggio di quest'armi. Il
modo poi d'ornarsi era vario, secondo il capriccio d'ognuno: sulla
cima degli elmi svolazzavan penne di molti colori disposte per lo
più intorno ad un lungo pennacchio formato della coda del pavone.
Alcuni invece di penne aveano strisce di stoffa frastagliata, dette
dai Francesi _lambrequins_. Chi portava sopravveste, chi tracolle,
chi avendo un'armatura ricca e ben lavorata, la lasciava scoperta:
anche i cavalli avevan sul capo o penne o qualche altro ornamento, e
le briglie larghe quasi un palmo a festoni, e di colori che chiamavan
l'occhio: spesso per la fattura e per la ricchezza degli ornati erano
esse sole di gran valore. Sugli scudi, oltre l'impresa che solevan
portarvi dipinta, avean gl'Italiani fatto scrivere motti convenienti a
quell'occasione: quello di Fieramosca diceva, per citarne uno: _Quid
possit pateat saltem nunc Itala virtus_.
Un araldo alla fine venne avanti in mezzo al campo, e bandì ad alta
voce, che alcuno non ardisse favorire o disfavorire nessuna delle parti
nè con fatti, nè con voci, nè con cenni: ritornato presso i giudici,
il trombetta diede il primo squillo di tromba: diede il secondo.... si
sarebbe sentito volar una mosca: diede il terzo, ed i cavalieri con
moto simultaneo allentate le briglie, curvati i dorsi sul collo dei
cavalli, e piantando spronate che li levavan di peso, si scagliarono
a slanci prima, poi di carriera serrata rapidissima gli uni su gli
altri, levando il grido, _Viva Italia!_ da una parte, e _Viva Francia!_
dall'altra, che s'udì fino al mare. Avean circa centocinquanta passi
da correre per incontrarsi. S'alzò a poco a poco la polvere, crebbe,
si fece più densa, gli avvolse prima che si fossero giunti, li coperse
e nascose affatto come un nuvolo quando si dieder di cozzo, urtandosi
i cavalli fronte contra fronte, e i cavalieri rompendo le lance sugli
scudi e le corazze degli avversarj con quel fragore che produce una
frana di massi che rovinando su un pendio senza ostacoli da prima, poi
trova una selva nella quale si caccia, e fiacca, sradica, fracassa
ciò che trova. Fu tolto così agli spettatori la vista del primo
scontro, ed appena in quell'ammasso confuso e polveroso d'uomini e di
cavalli potevan distinguere il balenar dell'armi percosse dal sole, e
qualche brano di penne, che la furia dei colpi aveva lacerate, volare
avvolgendosi in quel turbine, ed allontanarsene poi sollevato dal
vento. Il frastuono rimbombò per le valli dei contorni; Diego Garcia
si percosse col pugno sulla coscia per la maraviglia e per la smania
di non esser anch'esso là in mezzo; e questo fu il solo atto che si
notasse fra gli spettatori attoniti ed immoti.
Rimase per alcuni secondi riunito quel gruppo di battaglia, ed un certo
luccicar più sottile che qua e là balenava a traverso la polvere,
mostrò che i cavalieri avean posto mano alle spade: s'udiva uno
scrosciar di ferri, un martellar così a minuto come se in quello spazio
fossero state in opera dieci paja d'incudini. Tutto quell'ammasso pieno
d'una luce vivissima, e direi guizzante in sè stessa, era simile ad
una macchina di fuoco d'artifizio, quando è velata in parte dal fumo:
tanto era complicato e rapido il muoversi, lo stringersi, l'aprirsi, il
ravvolgersi che faceva in tutte le sue parti.
L'ansietà di poter veder qualche cosa e sapere a chi toccasse il
primo onore, era tale che ormai si stava per prorompere in grida; e
già s'udiva un crescente bisbiglio, che fu però soffocato dai cenni
degli araldi, non meno che dal vedere uscir fuori da quel viluppo un
cavallo sciolto, talmente coperto di polvere, che neppur più si capiva
di che colore avesse la sella: scorrendo pel campo di mezzo galoppo si
trascinava fra le zampe la briglia mezza lacerata, e, mettendovi su
or un piede, or un altro, si veniva dando strappate al freno che gli
facean abbassar il capo, e lo mettevano a rischio di cadere; una larga
ferita dietro la spalla versava una fontana di sangue nero e segnava
la traccia; dopo non molti passi cadde sulle ginocchia sfinito, e si
arrovesciò sul terreno. Fu conosciuto esser della parte francese.
Gli uomini d'arme intanto accoppiatisi combattevano spada a spada,
e così due a due dando e ribattendo quei grandissimi colpi, e
volteggiandosi intorno scambievolmente per torre il lor vantaggio,
venivan dilatando la zuffa serrata dal primo assalto; la polvere
cacciata dal vento più non toglieva la vista dei combattenti; si
conobbe che l'uomo d'armi scavalcato era Martellin de Lambris.
Fanfulla, per disgrazia del Francese, gli si trovò contra, e con quella
sua pazza furia, nella quale era pur molta virtù e somma perizia, gli
appiccò alla visiera la lancia in modo che lo spinse quant'era lunga
a fargli assaggiar s'era soda la terra, e nel fare il bel colpo alzò
la voce in modo che s'udì fra tanto strepito, e gridò:--E uno!--poi
vedendosi non lontano La Motta che al colpo di Fieramosca avea perduta
una staffa, seguitava:--I danari non basteranno...... sono pochi i
danari....--Ed allargatasi poi la zuffa, disse al vinto:--Tu sei mio
prigione......--ma l'altro rimessosi in piè gli rispose d'una stoccata
che strisciò sulla corazza lucente del Lodigiano: non era scorso un
secondo, e già la spada di Fanfulla era caduta a due mani sull'elmo
del suo nemico, il quale sgangherato dalla prima percossa, a stento
si resse in piedi; e Fanfulla gliene appoggiò un'altra, e un'altra,
ed ogni volta gridava:--Son pochi i danari.... son pochi.... son
pochi.....--e lo sforzo del colpo gli faceva pronunziar la parola
con quella specie d'appoggiatura che udiamo uscir dal petto degli
spaccalegna quando calan l'accetta.
Colui non si potè riavere mai da questa tempesta malgrado i suoi
sforzi: venne a terra mezzo stordito, ma non volea perciò sentir parlar
di resa; onde Fanfulla, invelenito, gli diede l'ultima, cogliendo il
tempo in cui provava a rizzarsi in ginocchio, e lo distese immobile sul
sabbione dicendogli:
--Sei contento ora?--
Bajardo, visto che colui si sarebbe fatto ammazzare inutilmente, mandò
un re d'armi, il quale gettando il suo bastone fra i due guerrieri
gridò ad alta voce: _Martellin de Lambris prisonnier_. Corsero alcuni
uomini che l'aiutarono alzarsi, e sorreggendolo vennero a presentarlo
al signor Prospero.
--Dio ti benedica le mani!--gridò questi al vincitore.
E diede ai suoi sergenti in guardia il barone francese che non volle
lasciarsi toglier la barbuta, si gettò a giacere al piede d'una
quercia, e vi rimase muto ed immobile.
Fanfulla avea voltato il cavallo, e messolo di mezzo galoppo per
tornar nella battaglia, guardava intorno ove potesse giovar l'opera
sua, e veniva per giuoco facendo in aria colla spada mulinelli, nel
quale esercizio avea la più destra e spedita mano dell'esercito. Dando
un'occhiata generale alla zuffa vedeva che la fortuna non inclinava
punto pei nemici, e che gli uomini d'arme italiani facevano molto
bene il dovere: allora alzò più che mai il grido, chiamando a nome La
Motta, e ricominciando la novella de' _danari son pochi_; e queste
tre parole le veniva cantando sull'aria d'una canzone che si udiva
allora per le strade dai ciechi: onde l'atto del cavalcare in un certo
suo modo sbadato e bizzarro, quel giocar di spada tanto mirabile, e
pur fatto come scherzando, e 'l tuono della voce, tutt'insieme dava a
quella canzonatura un non so che di così curioso che persino la seria
fisonomia del signor Prospero dovette un momento lasciarsi aprire ad un
sorriso.
Nel tempo impiegato a conseguir questa prima vittoria, Ettore
Fieramosca aveva bensì colla lancia fatto staffeggiare La Motta,
ma non gli era riuscito scavalcarlo. Era d'altra forza, e d'altro
valore che il prigioniere di Fanfulla. Fieramosca geloso dell'onore
riportato da questo, avea cominciato colla spada a lavorare in modo,
che lo sprezzatore degli Italiani con tutta la sua virtù a stento
potea stargli contra. Le ingiurie profferite da lui la sera della
cena, quando avea detto che un uomo d'arme francese non si sarebbe
degnato aver un Italiano per ragazzo di stalla, tornarono in mente a
Fieramosca; e mentre spesseggiava stoccate e fendenti, schiodando e
rompendo l'arnese del suo nemico, e talvolta ferendolo, gli diceva con
ischerno:
--Almeno la striglia la sappiamo menare? Ajutati, ajutati, chè ora son
fatti, e non parole.--
Non potè colui sopportar lo scherno, e menò un colpo al capo con tal
furia che, non giugnendo Ettore ad opporre lo scudo, tentò ribatterlo
colla spada; ma non resse, volò in pezzi, e quella del francese
cadendo sul collarino della corazza lo tagliò netto, e ferì la spalla
poco sopra la clavicola. Fieramosca non aspettò il secondo: spintosi
sotto, l'abbracciò tentando batterlo in terra; l'altro, lasciata la
spada pendente, tentava sferrarsi. Ciò appunto volea Fieramosca:
sviluppatosi da lui prima che avesse potuto riprender la spada, dato
di sprone al cavallo, lo fece lanciarsi da una parte; ed ebbe tempo
di spiccar l'azza che pendea dall'arcione, colla quale tornò addosso
all'avversarjo.
Il buon destriere di Fieramosca ammaestrato ad ogni qualità di
battaglia, cominciò, avvertito da un leggier cenno di briglia e di
sprone, a rizzarsi come un ariete che voglia cozzare, e far volate
avanti, senza mai scostarsi tanto dall'avversarjo che il suo signore
non lo potesse giungere. Vedendolo lavorare con tanta intelligenza,
pensava Fieramosca: Ho pur fatto bene a condurti meco! E si portò
tanto virtuosamente coll'azza, che venne riacquistando sul Francese il
vantaggio che aveva perduto.
La zuffa di questi antagonisti che potean dirsi i migliori delle due
parti, se non decideva della somma della battaglia, quasi però avrebbe
deciso dell'onore. Sarebbe stato doppio biasimo per La Motta esser
vinto, avendo egli manifestato tanto disprezzo pe' suoi nemici; doppia
gloria a Fieramosca il riportarne vittoria. I suoi compagni, conoscendo
che egli era atto a tal impresa, si guardarono dal prendervi parte; si
guardavano anche i Francesi dal porgere ajuto al loro campione, onde
non si dicesse che dopo tanti vanti non gli era bastata la vista di
star contra un solo. Perciò quasi senz'avvedersene, per alcuni minuti
restaron tutti dal combattere fissando gli occhi ne' due guerrieri.
In questi i pensieri che abbiam accennati produssero un incredibile
impegno di vincere, e combattevano con un accanimento, un'attenzione
a non commetter errori, un'alacrità a profittar dei vantaggi, che la
loro zuffa potava dirsi un modello dell'arte cavalleresca.
Diego Garcia di Paredes, che avea passata la sua vita nei fatti d'arme,
pur colpito da maraviglia alla vista di così maestrevole battaglia,
non potendo più star alle mosse, si era alzato in piedi; poi, venuto
sull'estremo ciglio del greppo che dominava il campo, gli stava
guardando avidamente. Veduto da lontano, con quel suo busto gigantesco
piantato su due gambe erculee, e colle braccia naturalmente pendenti,
pareva immobile al pari d'una statua; ma, ai vicini, il contrarsi de'
muscoli sotto le strette vesti di pelle che portava, lo stringer delle
pugna, e più di tutto lo sfavillar degli occhi, palesavano quanto
bollisse internamente, e si rodesse di non poter essere ivi altro che
spettatore.
I riguardi che impedivano agli altri di turbar questa battaglia, o
non vennero in mente, o non furon curati da Fanfulla che, lasciato il
signor Prospero, veniva scorrendo pel campo; punse il cavallo, e colla
spada in alto si serrò contro La Motta. Se n'avvide Ettore e gli gridò:
_Indietro!_ ma ciò non bastando, spinse il cavallo in traverso a quello
del Lodigiano, e col calcio dell'azza gli diede a man rovescia sul
petto onde con poco buon garbo gli fece rattener le briglie:
--Basto io per costui, e son di troppo--gli disse istizzito.
Fu da tutti lodato l'atto cortese verso La Motta fuorchè da Fanfulla,
che prorompendo in una di quelle esclamazioni italiane che non si
possono scrivere, disse, mezzo in collera mezzo in riso:
--Hai la lingua nelle mani!--
Voltò il cavallo, e messosi a guisa di pazzo fra i nemici, gli
sconvolse senza assalirne nessuno in particolare, e finito così quel
momento d'inazione, si rinnovò più calda che mai la battaglia.
Fin dal principio, Brancaleone fisso nel suo proposito avea corso la
lancia con Grajano d'Asti, e la fortuna s'era mostrata uguale fra
loro. Venuti alla spada si mantennero ancora senza deciso vantaggio
per nessun de' due: Brancaleone era forse superiore al suo nemico per
robustezza ed anche per maestria, ma il Piemontese era gran giocator
di tempo; e chi conosce l'arte dello schermire, sa quanto sia utile
questa qualità.
Fra i combattenti dell'altre coppie la vittoria era per tutto in forse;
e quantunque la battaglia non durasse che da un'ora e mezzo circa, era
stata però tanto ostinata e calda che si poteva facilmente conoscere
gli uomini ed i cavalli aver bisogno d'un breve respiro, che venne loro
conceduto di comune accordo dai giudici. La tromba ne diede il segno,
ed i re d'armi entrando in mezzo spartirono i combattenti.
Quel bisbiglio che udiamo sorger istantaneo nei nostri teatri al calar
del sipario dopo uno spettacolo che si sia cattivata l'attenzione
degli spettatori, nacque egualmente fra le turbe che circondavano il
campo. I cavalieri tornati alla prima ordinanza scavalcarono: chi si
traea la barbuta per rinfrescarsi la fronte e tergerne il sudore; chi,
trovando l'arnese o la bardatura de' cavalli guasta in qualche parte,
s'ingegnava di racconciarla. I cavalli, scotendo il capo e dimenando
le mascelle, cercavan sollievo al dolore cagionato dalle scosse de'
freni. E non sentendo più l'uomo in sella, si piantavan sulle quattro
zampe ed a capo basso davano un crollo prolungato facendo risonare le
loro armature. I venditori del contorno, trovandosi a polmoni freschi,
alzaron più alte le grida, e i due padrini, mossi i cavalli, vennero a
trovare i loro guerrieri.
Per la prigionia d'uno de' Francesi, e per trovarsi gli altri malmenati
e feriti quasi tutti, fu giudicato da ognuno, gli Italiani aver la
meglio; e fra i molti che aveano scommesso per l'una o per l'altra
parte, quelli che tenevan pe' primi cominciavano ad accigliarsi ed a
dubitare. Il buon Bajardo aveva troppa esperienza di simili fatti per
non accorgersi che le cose voltavan male pe' suoi. Studiando di non
mostrar questo sospetto gli incoraggiava, li poneva in ordinanza e
veniva ricordando ad ognuno le regole dell'arte, i colpi da tentarsi ed
il modo di difendersi.
Prospero Colonna che vedeva i suoi avere minor bisogno di riposo per
esser meno maltrattati dei nemici, dopo una mezz'ora domandò che si
riprendesse la battaglia, ed i giudici ne fecero dare il cenno. I
cavalli, ai quali un ansar frequente facea ancora battere i fianchi,
stimolati dallo sprone rialzarono il capo, e si lanciaron di nuovo
gli uni contra gli altri. Ormai la vittoria si dovea decidere in
pochi momenti: crebbe il silenzio, l'immobilità negli spettatori,
l'accanimento e la furia nei combattenti. Le gale del vestire, le
penne, gli ornamenti eran volati in brani, o bruttati di polvere e di
sangue. Dal fianco di Fieramosca pendeva tagliata da un fendente la
sua tracolla azzurra, l'elmo era rimasto nudo e basso, ma egli, ferito
soltanto leggermente nel collo, si sentiva gagliardo del resto, e
stringeva La Motta col quale si era di nuovo accozzato. Fanfulla avea
a fronte Jacques de Guignes. Brancaleone seguitava la sua battaglia
contra Grajano, avvisando al modo di coglierlo sull'elmo, e gli altri
compagni qua e là per il campo si raggiravano accoppiati coi Francesi
combattendo la maggior parte coll'azza, e stringendoli mirabilmente.
A un tratto s'alzò un grido fra gli spettatori: tutti, e persino i
combattenti volgendosi per conoscerne la causa, videro che la zuffa tra
Brancaleone e Grajano era finita. Questi curvo sul collo del destriere,
coll'elmo ed il cranio aperti pel traverso, perdeva a catinelle il
sangue che scorreva pei buchi della visiera sull'arme e giù per le
gambe del cavallo, il quale stampava le pedate sanguigne. Rovinò in
terra alla fine, e risonò sul suolo come un sacco pieno di ferraglia.
Brancaleone alzò l'azza sanguinosa brandendola sul capo, e gridò con
voce maschia e terribile:
--Viva Italia: e così vadano i traditor rinnegati:--ed insuperbito, si
cacciò menando a due mani sui nemici che ancora facevan difesa. Ma non
durò a lungo il contrasto. La caduta di Grajano parve desse il crollo
alla bilancia. Fieramosca accanito per la lunga ed ostinata difesa
di La Motta, raddoppiò la forza de' colpi con tanta rapidità che lo
sconcertò, lo sbalordì, e privato dello scudo con mezza spada in mano
e l'arnese schiodato e rotto, lo percosse sul collo coll'azza di tanta
forza, che lo fe' rannicchiarsi stordito sull'arcione dinnanzi, e quasi
smarrita la luce degli occhi.
Prima che si riavesse, Fieramosca, il quale gli stava a destra,
buttandosi lo scudo dietro le spalle, l'afferrò colla manca alle
corregge che sulla spalla reggono il petto della corazza, e stringendo
le cosce, diede di sproni al cavallo. Questi si lanciò avanti, e
così il cavaliere francese fu violentemente tratto giù dalla sella.
Quando si stese in terra, Fieramosca che avea colto il tempo e s'era
buttato da cavallo, gli si trovò sopra colla daga sguainata, ed
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