Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 04

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all'orecchio di Brancaleone. Era questi pochissimo curioso de' fatti
altrui; non di meno, dopo aver cavalcato un pezzo così in silenzio,
vedendo il suo compagno tanto sopraffatto dalla malinconia, gliene
seppe male, e vincendo la natura sua si dispose tentarlo onde gli
s'aprisse; e con parole di amica sollecitudine, venne al proposito di
pregarlo volesse narrargli que' casi che gli eran cagione di tanta
tristezza. E seppe così ben fare che ottenne il suo intento. Fieramosca
d'altronde sapeva potersi fidare di lui, ed i termini in cui si trovava
pure gli scioglievan la lingua, poichè da un cuore agitato da forte
passione sfugge facilmente il segreto. Alzatigli così un poco gli occhi
in viso, disse:
--Brancaleone, mi domandi cosa che non ho mai detto ad anima viva:
e neppur a te la direi (non te l'aver per male) se non pensassi che
potrei rimaner morto nella zuffa.... e allora?.... che ne sarebbe
di...; sì, sì, tu mi sei vero amico, sei uomo dabbene, hai da saper
tutto. Non ti dispiaccia ascoltarmi a lungo, che non potrei farti
capace in poche parole di tanti e così strani accidenti.--
Brancaleone con gli atti del volto gli accennava quanto avea caro che
dicesse, onde Fieramosca con un risoluto sospiro incominciò:
Quando sorsero i primi romori di guerra per parte del re
cristianissimo, che minacciava scendere all'impresa del reame, ben
sai ch'io mi trovava giovinetto di sedici anni ai servigi del Moro.
Tolsi licenza, e mi parve dovere metter la vita in difesa de' reali
di Raona che da tant'anni ci governavano. Venni a Capua; si mettevano
in ordine le genti d'arme, e dal conte Bosio di Monreale che avea
il carico del presidio, fui condotto e comandato alle difese della
città. Le munizioni erano tutte in pronto, e per allora, non essendovi
altro da fare, attendevamo a darci buon tempo. La sera si faceva la
veglia in casa del conte, il quale, amico già di mio padre, mi teneva
come figliuolo. Già prima d'andarmene col duca di Milano, spesso gli
capitavo per casa. Ivi conobbi una sua figlioletta, e così fanciulli
senza saperne più in là, ci portavamo maraviglioso amore. Il giorno
ch'io mi mossi per andare in Lombardia, furono i pianti e le dipartenze
inestimabili: io, mi ricordo, cavalcava un giannetto, il migliore che
fosse mai, e nell'andarmene passai sotto le finestre di lei, che si
domandava Ginevra, e benissimo atteggiavo il cavallo nel dirle addio
colla mano; ella mi gettò di nascosto del padre e d'ognuno, perchè
appena faceva giorno, una fascia azzurra che non ho mai lasciata
d'allora in poi.
Ma queste erano cose da scherzo. In un anno ch'io stetti fuori mi s'era
assai freddato questo primo amore. Tornato come ti dico, e riveduta
Ginevra, che avendo messa persona era divenuta la più bella giovane del
reame, aveva assai buone lettere, e cantava sul liuto che non avresti
voluto sentir altro, non potei tanto schermirmi ch'io non ricadessi
l'un cento più nel maggiore e più forsennato amore che s'udisse mai.
Colei che si ricordava dei primi anni, e mi rivedeva onorato e con
qualche nome nell'arme, quantunque come onesta non lo volesse mostrare,
ben m'avvedevo che aveva caro udirmi quando narravo di quelle terre di
Lombardia, delle guerre che avevo vedute, e delle corti ed usanze di
colà; e s'ella amava ascoltarmi, io molto più amavo d'intrattenerla;
e tanto andò la cosa innanzi che non potevamo vivere discosti un dito
l'un dall'altro.
Io che in parte m'avvedevo come la s'avviasse, venivo riflettendo a
quanti affanni andavamo incontro ambedue. A momenti cominciava la
guerra: tristo chi in tale congiuntura si trova avvolto in legami
d'amore. E dove prima cercavo ogni modo d'esser con lei, dopo,
divisando ciò che meglio ci conveniva, e conosciuto che il nostro
amore era altro che da motteggi, mi rimaneva tanto di forza che pur mi
studiavo di mostrarlo meno, e cavarmelo dal cuore. La cosa andò così
avanti un pezzo. Ma quel combattimento invece di scemare il mio amore
l'accrebbe; e volendolo raffrenare di fuori, quello mi lavorava dentro,
e quasi mi conducea pel mal cammino. Già m'ero fatto scuro in viso,
e la notte per istracco che fossi non potevo prender sonno, e sempre
coll'immaginazione fissa in lei, sentivo calarmi per le gote le lagrime
calde calde sul guanciale, e stupivo di me medesimo.
Passarono così più settimane, e m'ero ridotto di qualità che bisognava
pur risolversi a qualche partito. Tu già indovini a quale m'appigliai:
un giorno sulle ventitrè ore la trovai sola in un suo giardino, e come
volle la mia sorte, le dissi il gran bene ch'io le volevo, ed ella
arrossendo, senza risponder parola si scostò lasciandomi afflitto e
peggio contento che mai; e da quell'ora in poi parea cercasse tenermi
discosto e quasi mai, quando v'erano altre persone, volgeva a me le
parole: ond'io per disperato, nè potendo sopportare quell'inestimabile
amore, risolsi in tutto andarmi con Dio, e cercar la morte ove allora
già si combatteva. E passando appunto la compagnia del duca di San
Nicandro, che andava alla volta di Roma, a raggiungere il duca di
Calabria, mi misi in ordine per andarmene con essoloro. E senza dirle
il mio proposito, un giorno volli ritentar la prova, ed alla stette
salda; onde mi dovetti persuadere che quell'amore ch'io credevo
scorgere in lei, era stato un sogno della mia immaginazione: e risoluto
affatto (era la sera, ed alloggiava quella notte in Capua la compagnia
del duca per partir la mattina) misi in ordine ogni cosa per esser a
cavallo l'indomani. Me n'andai, come il solito, a veglia in casa del
padre di Ginevra: eravamo soli noi tre intorno un tavoliere, e si
giocava a tavola reale; quando mi venne in acconcio, dissi a lui, come
avevo fisso di partire la mattina vegnente, che essendomi venuto a noja
quell'ozio, volevo andar a combattere, perciò fosse contento darmi
licenza. Il conte lodò il mio proposito, ed io colla coda dell'occhio
pur guardavo, non privo affatto di speranza, che viso facesse Ginevra.
Pensa quale diventai vistole mutar il color del volto, e farlesi rosse
le palpebre? Di furto mi saettò un'occhiata che troppo mi diceva.
Stetti infra due di non farne altro, ma conobbi che oramai non potevo
ritrarmi coll'onor mio; e mi fu forza, quando mi trovavo il più
contento e felice uomo del mondo, eseguire la mia malaugurata partenza:
di qui nacque ogni mia sciagura.
Dio volesse che quando misi il piede alla staffa fossi caduto morto;
sarebbe stato men male per lei e per me.
Mi condussi a Roma sempre maledicendo la mia fortuna, e giunsi in
quella, che per una parte entrava re Carlo, e per l'altra i nostri si
ritraevano a furia. Vi fu qualche leggiero scontro, ed io tanto mi
spinsi avanti fra certi Svizzeri, che fui lasciato per morto con due
roncolate nel capo, onde penai gran tempo a guarire.
Queste ferite le toccai presso Velletri: portato nella terra e
medicato, ebbi a star quivi due mesi, senza saper più nulla di Ginevra
nè del padre, e solo udivo d'ora in ora le triste novelle del reame che
vi giungevano, ed eran fatte dalla gente di casa sempre maggiori, e con
tante favole tra mezzo che non potevo in esse distinguere cosa buona.
Pure alla fine ritornato gagliardo, e volendo uscire di tanto
travaglio, montai una mattina a cavallo e me ne venni a Roma. Ivi
era un disordine grandissimo; e papa Alessandro che al passaggio del
re poco gli s'era mostrato amico, vedendo ora spacciate le cose del
reame, e che già della lega fra il Moro ed i Veneziani si bisbigliava,
onde ai Francesi conveniva dar volta, stava in sospetto grandissimo
ed il meglio che poteva s'armava ed afforzava Roma e 'l castello.
Appena scavalcato andai a far riverenza a monsignor Capece, che molto
m'accarezzò, e volle in tutti i conti levarmi d'in sull'osteria.
Intanto cresceva il romore in Roma, ed aspettandosi a giorni la
vanguardia del re, composta di Svizzeri, molto si temeva da tutti, ed
ognuno pensava a' fatti suoi.
Comparve alla fine l'esercito. Il papa col Valentino s'era fuggito a
Orvieto. Le genti francesi parte s'alloggiarono in città, parte fuori
in Prati[5]; e si comportavano assai bene co' cittadini, tantochè
ognuno si veniva rassicurando. Dopo pochi giorni il re andò alla volta
di Toscana: pure per Roma passavano tuttavia or l'uno or l'altro di
quei capi, conducendosi alla spicciolata, onde fosse minore il disagio
delle vettovaglie. Erano oramai quietati i timori, ed ognuno attendeva
come il solito alle faccende. Io che sempre dal pensiero di Ginevra era
travagliato, appena potei coll'onor mio, mi spiccai da monsignor Capece
per tornare a casa, e saper notizie certe di là; chè in tutto questo
tempo non m'era venuto fatto di parlare con chi n'avesse contezza.
Una mattina di buon'ora mi posi in cammino, disposto di cavalcare quel
giorno sino a Citerna, e da strada Julia ove stava monsignore, presi
per piazza Farnese, drizzandomi verso porta San Giovanni. Sotto il
Coliseo mi si fece incontro una truppa di Francesi con bagaglie; e
come furon presso, vidi che venivano con una lettiga ove giaceva mal
condotto uno de' loro capitani, e dalle fasce che avea attorno alle
tempie si capiva che doveva esser ferito nel capo. Mentre scansato il
cavallo, m'era soffermato un poco per guardar costui, fui desto da
un acuto grido, e, volgendomi a quello vidi Ginevra a cavallo, che
dall'altra parte veniva in compagnia con essoloro. Ma oh Dio, quant'era
cambiata! Fu un miracolo s'io non caddi in terra: il petto mi scoppiava
sotto la corazza: pure avvisando ciò che poteva essere, finsi seguire
il mio cammino; poi, voltato il cavallo, senza mai li perder di vista,
e pensando al peggio, tenni loro dietro sino all'alloggiamento.
Ben puoi credere ch'io non fui ardito farmi rivedere a monsignore,
che mi credeva già lungi di molte miglia, e tanto meno presentarmi a
Ginevra, temendo, s'io le parlavo, udir da lei ciò che mai non avrei
sofferto ascoltare; e bramoso pure di chiarire la cosa non sapevo che
risolvere. Portato dal cavallo che tendeva a ritornare alle stalle di
monsignore, mi trovai in Banchi alla chiavica, presso alla bottega di
un tal Franciotto, detto dalla Barca, perchè la professione sua era
levar le mercanzie da Ostia per portarle a Ripa grande. Era costui
mio amicissimo, e fattomisi incontro, scavalcai, e trattolo da parte,
gli dissi che per alcuni rispetti m'ero partito da monsignore, e mi
conveniva tenermi celato; perch'egli m'offerse una sua casetta che
aveva in borgo, e tosto mi vi condusse. Io presi partito di dirgli: che
avevo veduto una donzella della quale conoscevo il casato, con certi
Francesi; ed avrei voluto sapere com'era quivi capitata, per porgerle
ajuto se fosse stato mestieri: ed insegnatogli il luogo ov'era andata
a smontare, lo pregai s'ingegnasse parlare con alcuno de' famigli, e
farmi trovare in parte, ove, senza scoprirmi, potessi ottenere il mio
desiderio. Egli ch'era di sottile ingegno benissimo seppe contentarmi.
Verso mezz'ora di notte venne per me, e mi condusse ad un'osteria, ove
trovammo un suo giovane che aveva già uccellato uno degli scudieri di
quel barone francese, e fattolo bere, l'avea messo in sul raccontare,
ed appunto giungemmo quand'era tempo.
Franciotto in poche parole lo condusse a dire ciò che mai non avrei
voluto sapere: e sul fatto della donna ci narrò che giungendo essi
a Capua, e quei di dentro facendo resistenza grandissima, entrarono
a forza, e quasi la terra andò a sacco: che il suo padrone Claudio
Grajano d'Asti (così ci disse chiamarsi) entrato con molti soldati
in casa il conte di Monreale, che ferito nell'assalto, era stato ivi
portato e più non poteva difendersi, giunse alla stanza ove giaceva, e
la figlia buttandosi in ginocchio, raccomandava sè e 'l padre. Grajano
stava in cagnesco, e piuttosto volto al male; onde il conte alzandosi
sul gomito il meglio che potè, gli disse: quanto possiedo al mondo sia
vostro, ed abbiate in isposa questa mia figlia; ma sia salva l'onestà
sua dalle mani di costoro. E Ginevra tremando per la vita del padre e
per sè stessa, non si seppe opporre. Due giorni dipoi il conte morì.
Io mi morsi le mani pensando che se mi fossi trovato colà, forse non
cadeva in balìa di questo ribaldo; ma non vi era rimedio. Mi tolsi di
quivi, e tutta la notte andai vagando per le strade come forsennato;
e più volte fui per finirmi. Per vera virtù di Dio pure mi rattenni.
Il dolore, lo struggimento di cuore ch'io provavo era tanto, che le
parole non ne saprebbero dire la millesima parte, con certe strette al
petto che mi levavan l'anelito, e mi pareva ogni tratto di soffocare:
nè potendo sopportar più una vita tanto dolorosa e travagliata formavo
i più strani consigli, le più pazze risoluzioni del mondo. Ora divisavo
di ammazzare il marito, ora d'incontrar la morte in qualche strano
modo, onde mostrare a Ginevra che ero stato condotto a quel passo per
amor suo, e mi confortava l'idea del rammarico che n'avrebbe provato;
e d'una in un'altra di queste immaginazioni quasi uscivo di cervello.
Stato così più giorni, una sera volli tentar la fortuna. Involto nella
cappa, ottenebrata la vista, e colla capperuccia che mi scendeva sugli
occhi, andai alla porta di lei e bussai. Si fece alla finestra una
fante, e domandò chi volevo.--Dite a madonna, risposi, che le vuol
parlare uno che vien da Napoli e le porta nuove de' suoi.--Fui messo
dentro e lasciato in una saletta terrena con un lumicino che mandava
appena un poco d'albore. A me pareva di stare ora presso la porta del
paradiso, ora più giù dell'inferno, ed era tanto il contrasto, che
mi sentii mancar le ginocchia, e mi convenne lasciarmi andare su una
sedia. Aspettai pochi minuti, che a me parvero mill'anni. Quando sentii
giù per la scala lo stropiccìo de' piedi e della gonna di Ginevra,
quasi mi lasciò affatto ogni virtù vitale. Entrò ella e rimase così un
poco discosta guardandomi; ed io, lo crederai? non potei nè parlare,
nè muovermi, nè formare una voce: ma appena m'ebbe riconosciuto,
gettò un grido, e cadeva in terra svenuta; se non ch'io la raccolsi
in braccio, e, slacciandola, m'ingegnai soccorrerla tutto spaventato
dall'importanza del caso, e dal timore d'esser quivi trovato: e
coll'acqua d'un infrescatojo che era presso, le spruzzavo la fronte.
Ma le lagrime bollenti che mi piovevano dagli occhi e le inondavano il
volto, furono più possenti e la richiamarono in vita. Io non seppi far
altro che prenderle una mano e premervi su le labbra con tal passione,
ch'io credetti che l'anima mia passasse in quel punto. Così stemmo un
poco: alfine tutta tremante si spiccò da me, e con voce che appena la
potevo udire, mi disse: Ettore, se sapessi i miei casi!..... Li so,
risposi, li so pur troppo, ed altro non domando, altro non voglio che
poterti morir vicino e vederti qualche volta finchè son vivo.
In questa s'udì rumore al piano di sopra, mi corse un gelo per l'ossa,
dubitando d'essere scoperto, e che a lei s'accrescessero i guai. Preso
commiato cogli atti più che colle parole, sollecitai a levarmi di
quivi, ed uscii un poco meno afflitto e sconsolato.
Intanto la ferita del marito non guariva, e molti Francesi,
gentiluomini e prelati, ogni giorno lo venivan visitando. Benchè
il maraviglioso viso di Ginevra mostrasse l'affanno interno che la
travagliava, nondimanco la sua bellezza, con un certo languido pallore,
aveva pure un tal che d'appassionato, che non si poteva mirarla e non
restarne vinto: e fra quei signori la sua giovinezza, il costume e
l'angeliche sembianze ogni dì più destavano maraviglia, nè si potevano
saziare di magnificarla e lodarla da per tutto, a tale che la fama ne
corse all'orecchio del Valentino. Molto si susurrava allora in Roma sul
conto di costui. Il duca di Candia suo fratello era stato morto per le
strade la notte, ancora non faceva il mese; e non senza suo carico:
ond'egli tosto, deposta la porpora, s'era buttato all'armi del tutto, e
si dicevano di lui tante gran cose che non si sapea che pensare. Forte
dubitai fin d'allora che la Ginevra fosse vagheggiata da costui: e pur
troppo mi toccò udirne fra popoli molte sconce parole, ch'io non poteva
raffrenare per rispetto di essa, e consumavo dentro la rabbia per non
far atto che palesasse la condizion mia.
Intanto, sotto colore ora d'una, ora d'un'altra cosa, m'era pur venuto
fatto d'andarle per casa ad affiatarmi con quel suo marito; e se il
vederlo mi dava passione indicibile, soffrivo volentieri ed avrei
sofferto ogni gran cosa purchè potessi a quando a quando veder lei,
colla quale, dalla prima volta in fuori, non ebbi mai parole d'amore, e
già sapevo che sarebbe stato un buttare il fiato, perocchè troppo bene
la conoscevo.
Questo Grajano d'Asti era di que' tali che ne vanno dieci per uscio,
nè bello nè brutto, nè buono nè cattivo; assai buon soldato bensì, ma
che avrebbe servito il Turco se meglio lo avesse pagato. Le sostanze di
Ginevra lo facevano ricco assai bene: e tanto valutava lei quanto si
valuta un podere, per la rendita e non per altro.
Passarono più settimane. La sera potevo veder la Ginevra, chè il marito
non aveva nessun sospetto di me; e travagliato dalla sua ferita che
molto penava a chiudersi, nè sapendone molto in fatto d'amore, aveva
tutt'altri pensieri pel capo; così mi trovavo con lei più spesso di
prima.
Il Valentino frattanto, volendo metter genti insieme per l'impresa di
Romagna, fece capitale di Grajano d'Asti che oggimai si trovava presso
a poter risalire a cavallo. Seppi come aveva attaccata questa pratica,
ed alla prima furono d'accordo. Si fermò tra loro una condotta di
venticinque lance, ed al marito di Ginevra parve avere buonissimi patti.
Una sera venne il duca alla casa di Grajano per istipulare l'accordo,
e fu fatto un poco di cenetta, alla quale si trovarono certi prelati
francesi ed alcune lance che stavano a spasso, ed intendevano
appiccarsi con costui, che accettava ognuno in quel tempo.
Io parte pensavo offerire i miei servigi per seguire la fortuna di
Ginevra con quella di Grajano; pure, non saprei dirti perchè non mi
mossi, nè mi trovai con loro quella sera. Andai, ch'era già fatto
notte, vagando ne' luoghi più deserti di Roma sempre martellandomi il
cervello con mille sospetti, e non potevo liberarmi da certi pensieri,
i più strani che avessi mai. Da molti giorni trovavo la Ginevra più
sbattuta: e mi pareva tratto tratto di vederle balenar sulla fronte un
non so che d'arcano, che studiasse tener celato nel cuore. Passai pure
quella notte, Dio sa con che smania. Senti se alle volte il cuore non
parla.
L'indomani vado da lei sulle ventitrè. Quando son presso all'uscio,
odo in casa un bisbiglio insolito: usciva un frate d'Araceli col
Bambino,[6] ed un torchietto davanti. Salto in casa (sudavo freddo!) e
la fante mi dice: Madonna sta in termine di morte.
La sera innanzi, dopo cena, era stata colta da uno sfinimento, ma non
pareva male d'importanza. Posta a letto e confortata con panni caldi,
si quietò, e così rimase sino alla mattina. Il sole era già alto e non
si sentiva. Venne un tal maestro Jacopo da Montebuono che s'impacciava
di medicina, e la trovò quasi fredda. Quello sciagurato, invece di
por mano a tutti gli argomenti più gagliardi, se la passò con qualche
parola dicendo fosse lasciata in riposo. Tornato poi sul tardi, si
sbigottì, e gridando ch'era spacciata, fe' correr pel prete, e senza
trovar strada a soccorrerla nè a vincere questo suo inesplicabile male,
poco dopo l'avemaria, la sconsolata famiglia udì dalla bocca stessa del
medico che era passata.
Gli alloggiamenti di Francia comparvero in questa, ed Ettore dovette
interrompere il suo racconto. Si fece avanti il trombetta sonando, e
gli uscì incontro un soldato a cavallo per intendere che cosa cercasse.
Saputo il motivo della loro venuta, ne avvertì l'ufficiale di guardia
in quel luogo, il quale, poich'ebbe vista la lettera che da Consalvo
si scriveva al duca di Nemours capitano di quell'esercito, impose
a Brancaleone ed a Fieramosca di aspettare che spedisse al duca ad
ottener licenza che entrassero in campo.
Offerì loro intanto una trabacca ove si alloggiava la guardia della
porta: ma i due amici, udendo che la stanza del capitano era ancor
molto lontana, risolvettero d'aspettar quivi, tanto che il messo fosse
tornato con la risposta.
Ivi presso sorgeva un gruppo di querce, con molt'erba fresca, che
protetta dall'ombra offeriva in quell'ore bruciate del mezzo giorno un
bellissimo stare. Vi si condussero i due guerrieri, e legati i cavalli
agli alberi, si disarmaron la fronte e sedettero uno accanto all'altro
appoggiando le spalle a quei tronchi. Una leggiera brezza marina
rinfrescava loro il viso; onde l'uno riprese a parlare con nuovo animo,
ed all'altro crebbe la voglia di ascoltarlo.
NOTE:
[5] Vien così chiamato un tratto di campagna presso Castel Sant'Angelo,
fra il Tevere e Monte Mario.
[6] Il bambino d'Araceli creduto miracoloso si porta ai moribondi.


CAPITOLO QUINTO.

Fieramosca seguitò il suo racconto con queste parole:
Perduta Ginevra, il mondo fu finito per me. Uscii di casa cogli occhi
stupiditi che non davano una lagrima; e dove andassi, o che cosa fosse
di me in quei primi momenti, appena lo potrei dire se non me l'avesser
fatto conoscere le cose che accaddero dipoi. Andavo come una cosa
balorda, o come succede talvolta, ben sai, quando una mazza ferrata
ti percuote sull'elmetto a due mani, che per un poco ti zufolan gli
orecchi, e pare che ogni cosa dia volta innanzi agli occhi. Così non
sapendo quasi che cosa mi fosse accaduto, passai ponte (la casa della
Ginevra era presso Torre di Nona) e su per borgo me ne venni in piazza
di San Pietro.
Quel mio amorevolissimo Franciotto, saputa in parte la mia sventura,
mi venne cercando, e mi trovò buttato in terra appiè d'una colonna: in
qual modo mi vi trovassi, non lo saprei dire. Sentii due braccia che
entrandomi di dietro sotto le ascelle, mi sollevarono e mi posero a
sedere. Allora mi riscossi e me lo vidi accanto. Cominciò a confortarmi
con amorose parole, e così a poco a poco ritornavo in me. M'ajutò
alzarmi, e con gran fatica mi ricondusse a casa; mi spogliò, e fattomi
entrar in letto, si pose seduto al capezzale, e se ne stava senza
darmi noja di parole o di conforti che troppo sarebbero stati fuor di
tempo.
Passammo così quella notte senza aprir bocca. Mi s'era messa una febbre
gagliarda che a momenti mi levava di cervello, e la fantasia alterata
mi faceva parere tratto tratto d'avere un'enorme figura tutta carica
d'armature, accovacciata sul petto, e mi sentivo affogare.
Finalmente l'afflitta natura fu soccorsa dal pianto. Sonavano dieci ore
in castello, e la prim'alba entrava pel fesso della finestra. Avevo
sul capo appiccata al muro la spada e l'altre arme: alzando gli occhi
mi venne veduta la tracolla azzurra, che molt'anni prima m'avea dato
Ginevra. Quella vista, a guisa di una balestra che scocca, m'aperse la
strada alle lagrime, che cominciarono ad uscirmi a torrenti; e questo,
sollevandomi il petto, fu cagione ch'io rimanessi in vita. Dopo ch'io
ebbi pianto un'ora buona senza mai fermarmi, mi parve d'esser rinato,
e potei ascoltare e parlare; e col soccorso del buon Franciotto, venni
passando quella giornata, e verso sera mi volli alzare.
A mano a mano che ritornavo in me, consideravo qual partito dovessi
pigliare in tanta calamità: e d'un pensiero in un altro, disperatomi
affatto di poter rimanere in vita, e considerando, se mi lasciavo
consumar dal dolore oncia a oncia, quanto fosse per riuscirmi
insopportabile una tal qualità di morte, risolsi di morire allora
per volar dietro a quell'anima benedetta. E così deliberato con me
medesimo, mi parve aver fatto un grandissimo guadagno, e mi sentii
mezzo racquetato.
Franciotto, che era stato meco dalla sera innanzi, uscì per veder un
momento la bottega, e mi promise di tornar tosto. Io, posto mano alla
daga (che è questa appunto ch'io ho accanto) volli far quell'effetto
allora allora. Poi ripensato meglio che in quella sera si dovea far la
sepoltura alla Ginevra, volli rivederla ancora una volta, e morirle
vicino. Vestito così a bardosso, cintomi la spada, e preso l'ultimo mio
bene, quella tracolla azzurra, uscii.
Passato ponte, m'abbattei nel mortorio. Venivano i frati della Regola
a due a due, e più compagnie di fratelli cantando il Miserere,
prendevano per via Julia e Ponte Sisto, colla bara coperta d'un gran
drappo di velluto nero.
Io, se t'avessi a dire, a questa vista non mi smarrii punto; ma
pensando che, se non in vita, in morte almeno saremmo uniti, che
eravamo avviati all'istesso viaggio, e che una stessa stanza era per
accoglierci ambedue, seguii pieno di funesta gioja e già tutto nel
mondo di là, lasciandomi condurre senza badare ove s'andasse. Passato
Ponte Sisto per Trastevere, entrammo in Santa Cecilia.
Deposta la bara in quella sagrestia ov'è l'avello del figlio di Santa
Francesca romana, io mi tenni da canto appoggiato al muro, mentre dai
frati si cantavano l'ultime esequie. Alla fine sonò sotto la volta il
_Requiescat in pace_.
Tutti uscirono in silenzio ed io rimasi solo quasi allo scuro; non
v'era altro lume che la lampada della Madonna. Udii alla lontana il
bisbiglio ed i passi del popolo che usciva. In quella scoccò l'ora di
notte, e camminava per la chiesa il sagrestano scuotendo il mazzo delle
chiavi, e disponendosi a chiudere.
Nel passarmi, vicino, si accorse di me e mi disse--si chiude.--Io gli
risposi--ed io rimango.--
Egli guardatomi, e facendo l'atto di chi riconosce taluno, disse:
--Sei l'uomo del duca? Troppo fosti sollecito.... La porta rimarrà
socchiusa; e poichè sei qui tu, io me ne vo pe' fatti miei.--E senza
udir altro se n'andò.
Io poco li davo retta; pure quelle parole mi fecero risentire, e non
sapevo se egli od io sognavamo. Che duca? che porta socchiusa? Che vuol
dire questo sciagurato? pensavo fra me.
Pure lontano le mille miglia dal vero, nè essendo capace di molto
ragionare in quei momenti, tornai presto nella prima risoluzione, e
dopo breve spazio (tutto intorno era cheto) me ne venni col brivido
della morte alla bara.
Tolto il drappo che la copriva, e, tratta la daga che era forte ed
acuta, mi posi a sconficcar la cassa, e durai gran fatica con quel solo
ajuto ad alzar le capocchie de' chiodi; ma tanto feci che n'ebbi levato
il coperchio.
Il bel corpo stava avvolto in un lenzuolo vestito di panni
bianchissimi. Io prima di morire volevo veder quell'angelo in viso
ancora una volta. Mi posi ginocchioni, e andavo svolgendo i veli che
mi toglievano quell'ultimo conforto. Alzai l'ultimo lembo, e apparve
il volto di Ginevra: pareva una statua di cera. Tutto tremante calai
la mia fronte sulla sua, ed alla sfuggita, che mi sembrò delitto, non
potei fare di non baciarle le labbra. Le labbra diedero un piccolo
tremito. Ebbi a cader morto. Può far tanto, dissi, Dio onnipotente,
la tua misericordia! E le tenevo le mani ai polsi. Il batticuore mi
toglieva il respiro. I polsi davano segno. Ginevra era viva!
Ma pensa com'io mi smarrii trovandomi solo a quel modo. S'ella si
risente, dicevo, e si trova in questo luogo, lo spavento basta a darle
la morte. Non sapevo che mi fare, e smaniavo. Mi volsi colle braccia
stese a quella Madonna, e la pregavo: O vera Madre di Dio! fa ch'io
possa salvarla, e giuro pel tuo divin Figliuolo, che sono volti solo
al bene i miei pensieri. Ed in cuore feci voto solenne di non cercar
mai da lei cosa che fosse contro l'onestà, s'io riuscivo a tornarla
in vita, e cancellare in tutto e sempre ogni pensiero di dar morte
al marito; la qual cosa sin allora avevo avuta fissa nell'animo, e
deliberato prima o poi di porla ad esecuzione.
A questa preghiera fatta tanto di vero cuore non mancò il pietoso ajuto
divino.
Il mio Franciotto che era uscito di casa, come ti dissi, nel tornare
m'avea veduto andar verso ponte, e parte immaginandosi il vero, e
temendo sempre, come mi disse dipoi, ch'io non prendessi partito
disperato, m'era venuto dietro. Ma, come discreto, si studiava di
parlarmi o darmi disturbo meno che poteva in quei momenti, ben
conoscendo che il caso mio non era da consigli, ma solo da ajuti
quando venisse il bisogno. Entrò cogli altri in chiesa, e vi rimase
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