Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - 10

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passarono così alcuni giorni, ma non era più fra loro quell'amorevole
e spensierata familiarità di prima.
Intanto nel monastero fra l'ortolano Gennaro, le converse e gli uomini
di munizione della torre, non v'erano altri discorsi che delle feste si
dovean fare in Barletta; e chi v'andava alle volte per sue faccende,
sempre tornava raccontando ciò che si preparava colà, e che si diceva
sulle allegrezze di quel giorno: tantochè venuta quella benedetta
mattina, a riserva di coloro che assolutamente non potevano, gli
altri se n'andarono sul far del giorno alla città per prender posto;
e l'ortolano che, come tutti gli uomini meridionali, era pazzo per i
divertimenti, messosi indosso i migliori panni, ed al cappello un bel
mazzetto, si disponeva entrare nel suo battello, che appena spuntava
l'alba. Zoraide gli si fece incontro al sommo della scala che per pochi
scalini scendeva al mare, ed era vestita con più cura che non parevan
domandarlo il luogo e l'ora.
--Gennaro--disse--verrei con te a Barletta.--Queste poche parole
erano state pronunciate con una certa esitazione così nuova per
Gennaro, avvezzo ad udirla parlar risoluto e tronco, che rimase un
momento guardandola prima di rispondere che era padrona, ed era troppo
onore per lui, e solo gli doleva non avere spazzato il battello e
messo un panno onde stesse con maggior agio.--Ma ora torno; fo in
un momento--disse, e voleva andare per le cose che gli occorrevano.
Zoraide gli afferrò un braccio, e l'ortolano si sentì dare tale stretta
che la guardò negli occhi; pensava fra sè: è impazzita, o spiritata
costei?
La donzella aveva lasciata Ginevra ancora in letto, e non voleva
entrare in ispiegazioni circa questa sua gita, che non poteva a meno di
non parere strana, essendo la prima volta che usciva del monastero. Le
sembrava, ogni momento che si tardasse a partire, veder comparire la
sua amica.
Perciò con poche parole, e con voce di comando più che di preghiera,
affrettò l'ortolano a scendere, e fu da lui condotta alla città.
Costui mentre remigava non ristette mai dal cicalare, dicendole che
l'avrebbe menata per tutto, che era amico del cameriere di Consalvo,
e che nessuno meglio di lui avrebbe potuto trovarle luogo per goder
delle feste. Giunsero sulla piazza al Castello, quando Consalvo e tutti
i suoi coi baroni francesi si avviavano ad incontrar Donna Elvira;
e le preghiere di Zoraide che non la lasciasse sola, non valsero a
trattenere Gennaro dal seguir la cavalcata fra la polvere e gli urti
della folla. Soltanto la condusse all'osteria di Veleno dicendole non
dubitasse che tosto sarebbe tornato.
Trattenuto più che non pensava, osservò la sua promessa un po' tardi;
e quando volle venir con lei alla piazza per prender posto nei palchi,
trovò tutto pieno di spettatori, e con un'occhiata s'accorse che non
v'era speranza di situar sè e la sua compagna. Ora colle preghiere, ora
coi gomiti aprendosi la strada fra il popolo che era affollato anche
dietro i palchi, giunse pure a cacciarsi sotto uno di questi presso
l'apertura per la quale entravano nell'arena i combattenti; ma da un
tal luogo non vedeva altro che sopra il suo capo le gambe spenzolate
degli spettatori, e si disperava d'essere stato guida sì poco accorta.
Per sua fortuna, nel momento che il toro fu lasciato, uscì dell'arena
Fanfulla da Lodi; preposto a dirigere quei giuochi, il quale, vista
Zoraide che stava molto malcontenta guardandosi intorno, venne
ravvisando l'ortolano e questi gli si raccomandava dicendo:
--Eccellenza! Illustrissima! guardate questa povera signora che si muor
di voglia di veder la giostra e siam giunti tardi...--
Zoraide accorgendosi che il giovine cui si dirigeva questa preghiera
mostrava in certe sue occhiate fulminanti più che buona volontà di
trovarle posto, punzecchiava Gennaro che stesse cheto; ma era tardi:
Fanfulla venne a lei, e, presala per la mano, la trasse fuori al largo
dietro il palco, e con un bastoncello fece far piazza al popolaccio;
poi, alzati gli occhi guardava dove potesse allogarla.
Sul più alto gradino, nel miglior luogo, seduto molto a suo bell'agio,
colle ginocchia aperte e le braccia intrecciate sul petto si trovava
per i suoi peccati il Conestabile della torre di Santa Orsola, Martino
Schvarzenbach. Fanfulla non avrebbe dato quest'incontro ed in questi
termini per mille ducati. Col suo bastoncello poteva giugnere al
tallone del Tedesco, alto da terra un uomo e mezzo circa: lo percosse
leggermente; e colui si voltò in giù guardando chi lo voleva. Fanfulla
senza scomporsi alzò la mano all'altezza della fronte, e movendo le
dita dall'alto al basso con una leggera scossa di capo laterale unita
ad un cenno dato coll'occhio e colla bocca, gli fece intendere come gli
occorresse il suo posto per la donna che conduceva; e l'espressione
del suo viso avrebbe fatto saltar la stizza ad un morto. Martino, che
essendo in alto si teneva sicuro, memore forse in quel momento del
barile guastatogli, fece colle spalle quell'atto d'impazienza che
significa, levamiti d'attorno; e si rimise come era prima.
--Tedesco! Tedesco!--disse allora Fanfulla scuotendo il capo ed alzata
la voce:--ti farai dare un carico di legnate; e in ogni modo la giostra
per oggi fa' conto d'averla veduta!--
E Martino non si moveva, solo a mezza voce brontolava; chè il suo
avversarjo, benchè lontano, pure lo teneva in sospetto.
Prima fatto che detto saltò Fanfulla su una trave ch'era in
traverso, prese di sotto il Conestabile per le gambe, il quale colto
all'improvviso non potè ajutarsi, lo fe' sdrucciolar giù di dove era
seduto, e lo tirò a sè credendo batterlo in terra; ma il povero Martino
era rimasto incastrato in mezzo di due assacce, fra le quali il suo
ventre non potea farsi strada, e gridava: Misericordia! ajuto! L'altro
seguitava a dar tratti, tirate e scosse, e finchè quel pover uomo
non fu a terra tutto pesto e pieno di graffiature, non fu contento.
Ciò fatto, e dicendogli con pace:--Me ne dispiace al cuore, ma non
te lo dicevo io che la giostra l'avevi veduta?--fece con diligenza
salir Zoraide e Gennaro, e si cacciò tra la folla ridendo delle
mille villanie gli mandava dietro colui, che s'andava racconciando e
tastandosi se aveva nulla di rotto, raccoglieva il cappello, la spada,
i guanti, durando fatica a rimettersi di quella sconfitta.
Zoraide intanto, che dal luogo procurato dalla vittoria di Fanfulla
scorgeva ottimamente tutto l'anfiteatro, volse l'occhio in giro e lo
fermò sul balcone in faccia, ove scorse Ettore che, seduto accanto
a Donna Elvira fra i primi baroni, l'intratteneva e procurava colla
sua cortesia di mostrarsi degno d'esserle destinato cavaliere in quel
giorno. La giovane spagnuola di cuor caldo e di mente fervida, ed in
parte anche leggiera, voleva forse attribuire a quelle attenzioni una
causa che in lei lusingava del pari l'amor proprio ed il cuore. Il
loro dialogo aveva spettatrici due donne, che a distanze diverse, e
con sentimenti dissimili, pure non ne perdevano un cenno. L'una era
Zoraide che, troppo lontana per poter udire i loro ragionamenti, vi
prendeva però premura tale, e tanto attentamente seguiva ogni lor moto
da doversi accorger che la figlia di Consalvo sapeva apprezzare quanto
valesse il prode italiano, e non lo guardava colla sola benevolenza
della cortesia; non si sentiva di dar giudizio quali fossero i pensieri
di Fieramosca, ma un cuore nei termini ove si trovava il suo suol
tremare d'un'ombra. L'altra era Vittoria Colonna, che per esperienza
aveva conosciuto non saper la giovane Elvira abbastanza guardarsi
contra gli assalti d'un bel viso e di dolci parole. Sentiva per lei
affetto vero e profondo, ed appariva dalla fronte severa e dallo
sguardo penetrante della figlia di Fabrizio che vedeva mal volentieri
stringersi tanto que' ragionamenti, e ne temeva le conseguenze.
Quel primo toro entrato nell'arena era stato sul principio abbandonato
alla moltitudine; molti erano venuti a combatterlo con varia fortuna,
ma senza poterne ottener vittoria. Da un palco laterale ove coi baroni
francesi eran molti Spagnuoli ed Italiani scese finalmente Diego
Garcia, che era da que' forestieri stato pregato desse saggio di sua
destrezza in questo genere di combattimento. L'abilità del _matador_
(ossia uccisore del toro) consiste oggi in Ispagna nel saper cacciargli
la spada nella giuntura delle vertebre del collo, mentre abbassa il
capo per levar sulle corna il suo avversarjo: in que' tempi, ove il
maneggio d'armi pesanti cresceva alle braccia la forza, si soleva tener
per miglior colpo lo staccar netto con un fendente il capo del toro; ed
a chi accoppiava molta forza a molta destrezza sovente riusciva.
Paredes entrato nell'arena col suo buon spadone a due mani che teneva
sulla spalla sinistra, vestito in giustacore di bufalo e colla testa
scoperta, vide che il toro era già stato ferito e perdeva sangue.
Accennò ai donzelli, e disse volerne uno fresco; perciò fu tirato il
laccio a quello già combattuto e condotto fuori, ed aperto il rimessino
n'uscì un altro maggiore, d'aspetto feroce, che dallo scuro venendo al
sole, aizzato ed infierito cominciò a scorrere a slanci l'arena come
è costume di questi animali, finchè, visto il suo antagonista, gli si
fermò rimpetto, abbassando il capo, mugghiando, con un palmo di lingua
fuor della bocca; quasi volesse prender campo, s'arretrava, gettandosi
l'arena coi piè dinanzi sulla groppa e sul collo. La forza di Garcia
era somma; sarebbe stato però fidarvisi troppo volerla metter con un
toro che aveva la fronte armata di grandissime corna, ed un collo largo
e nerboruto da non temer paragone; lo Spagnuolo vide che bisognava
operar con cautela. Alzò a due mani lo spadone sulla spalla manca, col
piè dritto battè due o tre volte il suolo, gridandogli _ah! ah!_ Il
toro abbasate le corna si getta sul suo nemico; questi ne era quasi
giunto, allorchè lanciatosi da una parte gli cala sul collo la spada
con tanta forza e fortuna, che il capo cade sull'arena, ed il corpo fa
ancora uno o due passi prima di stramazzare.
Uno scoppio generale di grida fe' plauso a Diego Garcia, che tornò a
sedersi fra' suoi. I cavalieri francesi non avvezzi a questo genere di
spettacolo, vedendo con quanta facilità lo Spagnuolo avesse tagliato
quel collo, pensarono fosse cosa molto agevole. E come erano uomini
sul fiore dell'età e della forza, e venivan loro benissimo maneggiate
l'arme, dicevano: Anche noi faremmo lo stesso. E quello che lo disse
più degli altri fu La Motta, il quale, come vedemmo, prigione di Garcia
se n'era riscattato: superbo per natura, aveva sempre con lui il dente
avvelenato; non che ne fosse stato trattato male, ma perchè gli pareva
troppo strano l'aver avuta la peggio, ed il vedersi davanti chi l'avea
fatto stare a segno.
Lodò il colpo di Garcia per non parer invidioso e scortese; ma con quel
viso che i Francesi d'oggi chiamano _suffisant_, a definir il quale
gl'Italiani mancano forse di vocabolo adattato e gli disse, stando
ritto e pettoruto, e, come era suo costume, senza molto voltarsi verso
lui:--Bravo, Don Diego; ben tagliato, _Par Notre Dame_; poi volto al
suo vicino Francese disse sorridendo: _Grand meschef a été que le
taureau n'eût pas sa cotte de mailles; la rescousse eût été pour lui_.
Paredes l'intese, e gli saltò la stizza e disse fra sè: _Voto a Dios
que he de saber si ese perro frances tiene los dientes tan largos como
la lengua_[9]. Gli s'avvicinò e gli disse:
--Quanti bei ducati d'oro vi piacerebbe pagare se a me bastasse la
vista di tagliar a un toro il collo armato di maglia? e voi non poteste
neppur tagliarlo nudo. E anche senza parlar di ducati, chè non voglio
si creda che Diego Garcia pensi a farsi pagar come un _torero_, vada
solamente l'onore, e vediamo se saprete imitare il mio colpo come lo
sapete deridere.
A La Motta poco piacque una tale disfida, e si morse la lingua d'averla
provocata; non già per viltà, che era uomo dabbene ed ardito, ma
essendo quella la prima volta che gli accadeva di combattere una tal
bestia, non sapeva troppo in qual modo governarsi. Pure non si poteva
a meno; in presenza di chi era, conveniva saltar il fosso. Rispose
audacemente:
--Per un cavaliere francese non sarebbe vergogna certo rifiutar di
provarsi con un toro, ma non sarà mai detto che Gui de La Motta abbia
ricusato di far un colpo di spada, sia qual si voglia la causa. Alla
prova. S'alzò borbottando fra denti con istizza, _Chien d'Espagnol,
si je pouvais te tenir sur dix pieds de bon terrain, au lieu de ta
bête_!... Aveva diligentemente osservato e benissimo appreso il modo
onde a Garcia con tanta fortuna era venuto fatto il bel colpo; giovane,
uomo d'arme, e Francese, poteva diffidar di sè stesso?
A questa sfida, d'un genere così nuovo, si era alzata con rumore tutta
la gioventù; nel balcone di Consalvo si notò la mossa ed il bisbiglio,
e presto se ne conobbe la cagione, che in pochi momenti fu sparsa
in tutto l'anfiteatro, ed accolta dalla moltitudine con favore ed
allegrezza: è vero bensì che la nuova passando da bocca in bocca avea
sofferto strane trasformazioni, tanto più curiose quanto più nascevano
fra individui delle ultime classi del popolo. Il punto ov'era Zoraide,
essendo di tutto l'anfiteatro il più lontano dal balcone di Consalvo,
fu quello ove appunto giunse questa novella maggiormente sfigurata pei
due lati nell'istesso tempo. I più lontani cercando sempre di sapere
dai più vicini, succedeva un ondeggiare di teste, un volgersi di
visi che lasciava al solo aspetto conoscere i progressi che la nuova
andava facendo per le gradinate fra gli spettatori. Gennaro da un
pezzo era in piedi, allungando il collo ed aspettando con impazienza
il momento di saper qualche cosa; esso, Zoraide ed i loro vicini
avean visto il trambusto nel palco de' cavalieri e dei capi, poi i
primi uscire e spargersi per l'arena; la festa pareva interrotta: non
vedevan comparire altro toro; e gli uni agli altri si domandavano che
cos'è stato? che cosa è accaduto? sempre senza ottener risposta: alla
fine da un lato v'è chi comincia a dire: Si vuol combattere la sfida
fra Italiani e Francesi, ora in questo steccato. Oh giusto! dice un
altro, non vedi che Fieramosca è là seduto inchiodato nel palco; ed
a veder come parla con quella giovane, pare che pensi a tutt'altro
che a battaglia. Zoraide l'udì, e diede un sospiro. Si volse un terzo
dall'altra parte: Dicono che il capitano francese ha sfidato Consalvo,
e chi di loro ammazza il toro bandito ch'è venuto da Quarato, avrà
vinta la guerra, e sarà signore del reame. Intanto molti uomini, che si
davan da fare intorno al rimessino, pareva si preparassero a far uscir
fuori un altro toro. Si vedeva da un canto Diego Garcia col suo spadone
sulla spalla attorniato da molti che mostravan parlargli tutti insieme
e con gran prestezza, come se lo volessero persuadere di qualche cosa;
ma sulla sua fronte animosa che appariva al di sopra di tutte l'altre
si leggeva anche da lontano l'irremovibil proposito di compiere quanto
aveva promesso, quantunque il rischio fosse grandissimo. Poco più
lungi La Motta aveva intorno i suoi Francesi che lo confortavano a non
vituperarli.
Intanto uno fra gli spettatori che sedevano ai gradi più bassi, e si
trovava aver finito allora un discorso con Veleno che gli era accosto,
disse volgendosi a Gennaro:--Dice quest'uom dabbene che que' signori
laggiù voglion fare a chi vuota un boccal di greco tutto d'un fiato
in faccia al toro.--Molti risero a questa sciocchezza, ma le risa
si quietaron tosto quando si vide che i sergenti guidati da Fanfulla
faceano sgombrar la piazza, nella quale rimase solo ed immobile, e
sempre col suo gran spadone in ispalla, il gigante spagnuolo.
Per questo secondo assalto, conoscendo quanto fosse difficile uscirne
ad onore, e che malgrado l'erculee sue forze, tagliar un collo di toro
rivestito di maglia di ferro era un'impresa almeno molto temeraria,
s'era provvisto d'un altro spadone più grave assai del primo, e che
usava soltanto quando doveva assaltare o difender trincee: era corso
a casa, e fattogli rifare il filo piuttosto tondo, s'era ristorato in
fretta, divorando ciò che gli era venuto alle mani, e bevendovi su un
buon fiasco di vin di Spagna. Per questi apparecchi aveva avuto tempo
di avanzo; chè non ce ne volle poco, nè pochi sforzi per fasciare
il collo d'un toro con un giaco di maglia, che, aperto davanti, ed
infilzate le maniche alle corna, rimase adattato e fermato sotto il
collo, cadendogli sulla fronte il collarino. Chi ha visto ai nostri
tempi cacce di questi animali sa che si può, qualora sieno ristretti in
luogo oscuro, per virtù di buoni canapi che si gettano loro alle corna,
tenerli fermi, e farne ciò che si vuole.
Al suono delle trombe e di tutti gli stromenti si fece avanti un re
d'armi vestito d'una casacca gialla e rossa, nella quale sul petto e
sulla schiena si vedeva l'arme di Spagna: accennando col suo bastone
fece far silenzio e disse ad alta voce:
--Per parte del re cattolico, Ferdinando re di Castiglia, Leone, del
regno di Granata, Indie occidentali, ec. ec. Don Gonzalo Hernandez, de
Cordova marchese d'Almenares, commendatore, cavaliere dell'ordine di
San Jago, capitano, governatore per S. M. cattolica del regno di qua
del Faro, proibisce a tutti qui presenti, sotto pena di due tratti di
fune, ed anche maggiore a suo beneplacito, di turbare con voci, gridi,
cenni ed in alcun altro modo il combattimento che sta per farsi con
tra il toro armato, dall'illustrissimo e magnifico cavaliere Don Diego
Manrique de Lara conte di Paredes.--
Tutte le trombe risposero; e gli spettatori di ogni classe, quali per
cortesia conoscendo che da un passo più o meno fatto fare al toro
poteva dipendere la vita dell'intrepido Spagnuolo, quali per timor
della corda, tutti rimasero immobili ed in così alto silenzio che,
all'aprirsi del rimessino, il cigolar del chiavistello fu il solo
strepito che s'udisse in mezzo a tanta turba da un capo all'altro
dell'anfiteatro. Uscì il toro, ma non colla furia degli altri; era di
minor mole, corto, traverso, e tutto nero; ma più selvaggio d'assai: si
fermò anch'esso a dieci passi da Don Garcia, e cominciò a guardarlo,
sferzarsi colla coda, e gettar in aria l'arena. Il suo avversarjo
colla spada in alto era tutto occhi, e ben sapeva che un primo colpo
fallito poteva riuscirgli fatale. Si mosse alfin la bestia, adagio i
primi passi, poi ad un tratto, dando un muglio, si gettò col capo basso
addosso a Garcia. Egli credendosi spiccarle il capo come all'altra, si
lancia da un lato e cala il colpo con grandissima forza; ma sia che
la spada non cadesse a filo, o che il toro facesse un contrattempo,
rimbalzò sulla maglia di ferro, ed il toro gli si rivoltò addosso con
tanta furia che, per tenerselo discosto, lo Spagnuolo ebbe appena tempo
d'appuntargli la spada alla fronte ov'era difesa dal collarino di
maglia. Qui si mostrò tutta la forza di Paredes. Piantato colle gambe
aperte una innanzi l'altra, lo spadone tenuto a due mani col pomo al
petto e la punta fissa nella fronte del toro, fu potente d'arrestarlo;
la lama grossa e forte resse alla prova; ed era tale lo sforzo di
Diego Garcia che si vedevano i suoi muscoli, nelle gambe e nelle cosce
specialmente, gonfiarsi e tremar non meno che le vene del collo e della
fronte; la tinta del suo viso divenne rossa, poi quasi pavonazza; e si
morse talmente il labbro inferiore che si tinse il mento di sangue.
Il toro vedendo che gli si chiudeva quella strada all'assalto,
s'arretrò, e, preso del campo, gli si lanciò di nuovo addosso con
maggior furia. Garcia si sentiva saltar la febbre per vergogna d'aver
fallato; in un momento in cui volse rocchio ai palchi vide, come un
baleno, il volto di La Motta composto ad un riso di scherno; e questa
vista gli mise addosso un furore tanto smisurato, e tanto gli crebbe
le forze, che, alzata la spada quanto potè, la rovesciò sul collo del
toro con tal rovina che l'avrebbe tagliato se fosse stato di bronzo. Il
colpo in quel disordine non cadde dritto. Tagliò prima un corno netto
come un giunco, poi il giaco e le vertebre, e si fermò alla pelle della
giogaja, per la quale il capo rimase ancora attaccato al busto che si
rovesciò nella polvere.
A questa incredibil prova s'alzò un grido universale di lode tanto
romoroso ed istantaneo che parve uno scoppio di tuono. Paredes si
lasciò cader lo spadone ai piedi, rimase ansante per pochi momenti, ed
il vermiglio del volto si cangiò in un pallore che però non fu lungo.
Tosto l'attorniarono i suoi con festa. Chi ammirava lui, chi guardava
lo spadone, chi l'ampia ferita, e la nettezza del taglio, ed intanto
gli stromenti facean sentire suoni di vittoria.
Lo Spagnuolo era uscito d'impegno; toccava ora a La Motta. Il bel
colpo del suo antagonista lo metteva in pensiero; non poteva sperar
d'uguagliarlo; e se anche riusciva (cosa molto dubbia) a troncare la
testa al toro a collo nudo, sempre avrebbe avuta minor lode, e la sua
inesperienza in questo genere di combattimento gli faceva prevedere che
neppure saprebbe far tanto. In ogni modo conobbe non avrebbe saputo con
onor suo uscir da questo passo, ed il dispetto che ne provava lo cavò
di cervello.
Quando venne lo Spagnuolo a domandargli se volea scender nell'arena,
rispose negativamente con ingiuriose parole, e soggiunse che i
cavalieri francesi a cavallo e colla lancia in pugno erano i primi
del mondo, e come nobili e cavalieri volevano combattere e vincere
cavalieri pari loro in giusta guerra; e l'arte di uccider tori la
lasciavano ai villani ed ai beccai, onde gli si levasse d'innanzi, nè
gli affastidisse più il cervello. A così bestiali parole rispose Diego
Garcia con altrettante e maggiori; l'uno e l'altro fecero segno di por
mano all'arme: a questa rissa, che succedeva nel palco dei cavalieri,
si volsero Consalvo, il duca di Nemours e tutti gli spettatori; e per
dirla in breve ne nacque un'altra sfida colla quale Garcia montato
in superbia, con alta e terribil voce chiamò i Francesi, e s'offerì
combatterli a cavallo, e mostrar loro che gli Spagnuoli anche in questo
modo non tanto gli eguagliavano, ma erano dappiù di loro.
I capitani di Francia e Spagna vedevano con piacere lo spirito marziale
mantenersi ed accrescersi nei loro eserciti col mezzo di queste gare,
che parevano in quei tempi rinnovare i romanzeschi fatti narrati dai
poeti e dai trovatori. Accordarono quindi licenza anche per questa
disfida, ed in pochi momenti fu stabilito il numero ed il nome de'
guerrieri, e si combattesse dieci contra dieci fra due giorni lungo
il lido sulla strada di Bari. Ma posero per condizione che di questa
lite più non si facesse parola per quel giorno, onde le feste non ne
venissero turbate. I cavalieri delle due parti furono contenti, ne
dieder segno stringendosi la mano, e tornaron tutti tranquillamente ai
loro luoghi.
Mentre succedevano questi trattati, gli uomini che avean cura della
piazza ne toglievano il corpo dell'ultimo toro, e spargendo rena e
segatura sul luogo ove era caduto, ne facevano sparire ogni traccia
di sangue. Fanfulla ch'era loro guida ebbe da Consalvo l'ordine di
ammannire per la giostra; in pochi minuti fu innalzato in mezzo
all'arena un tavolato a guisa d'un muro, retto da pali fitti in certi
buchi già prima preparati a quest'uso. Si stendeva per la piazza,
quant'era lunga, come l'asse che traversa, due fuochi d'un'elissi; e
poteva in altezza giungere al petto d'un uomo ordinario. I due estremi
non toccavano la circonferenza lasciando sotto i palchi un'apertura
per tre cavalli di fronte. Secondo questa maniera di giostra volendosi
correr la lancia a ferri spuntati, i due cavalieri si ponevano alle
estremità in modo che lo steccato fosse fra loro, e rimanesse alla
destra d'ognuno: poi urtando il cavallo, correvano, sempre radendolo, e
nel passare si ferivano: un tal modo era meno difficile e pericoloso,
essendo indicata al cavallo la strada, ed al cavaliere il punto ove
troverebbe il suo avversarjo. In fondo alla piazza dalle due parti
furono posate due botti ad un solo fondo, piene di rena, nella quale
si fissero lance d'ogni grossezza, che i combattenti toglievano nel
passare, quando avendo rotta la loro senza che nessuno dei due fosse
abbattuto, voltavano dietro i capi dello steccato, e tornavano ad
incontrarsi, ognuno dal lato ov'era nella corsa antecedente il suo
antagonista.
Quando tutto fu all'ordine, venne Fanfulla al piede del palco, ove
sedeva Donna Elvira, e le disse che stava a lei dare il segno.
La figlia di Consalvo gettò nell'arena un suo fazzoletto: nello
stesso tempo fu dato nelle trombe ed entrarono a cavallo, armati di
lucentissimi arnesi, con tante penne, tanti ricami e tante gale che era
una ricchezza a vedere, i tre Spagnuoli che toglievano a difendere il
campo, offrendo tre colpi di lancia e due d'azza a chiunque si facesse
avanti.
I campioni erano Don Luis de Correa y Xarcio, Don Inigo Lope de Ayala e
Don Ramon Blasco de Azevedo.
Fattosi avanti l'araldo, e proclamati questi nomi, proibì, come era
costume, agli spettatori di parteggiar nè con parole, nè con fatti.
Gli scudi degli Spagnuoli vennero appiccati sotto il palco di Consalvo
co' loro nomi scritti in lettere d'oro, mentre essi dopo aver fatto il
giro della piazza si erano andati a porre in fondo, vicini ad un gran
stendardo ove si vedevano le torri ed i leoni di Castiglia e le sbarre
d'Aragona, e che, tenuto da un araldo riccamente vestito, s'aggirava
sventolando sul suo capo.
Il premio destinato al vincitore era un elmetto riccamente guernito,
con una vittoria d'argento per cimiero, che in una mano teneva una
palma d'oro, e coll'altra reggeva il pennacchio dell'elmo; opera di
cesello di mano di Raffaello del Moro, valente artefice fiorentino.
Stava innalzato sulla punta d'una lancia fitta presso l'entrata onde
erano venuti i tre baroni spagnuoli.
Bajardo, lo specchio e l'onore del mestier dell'armi, fu il primo a
comparire in lizza, cavalcando un bel bajo di Normandia balzano di tre
piedi coi crini neri; le belle fattezze del destriere erano, secondo
l'uso del tempo, nascoste da una grandissima gualdrappa che lo copriva
dalle orecchie alla coda, tinta di un verde chiaro attraversato da
sbarre vermiglie, coll'impresa del cavaliere ricamata sulla spalla
e sul fianco, e finiva da piede in drappelloni che giungevano al
ginocchio del cavallo. Sulla testa e sulla groppa svolazzavano mazzi di
penne de' medesimi colori; che si vedevano pur ripetuti alla banderuola
della lancia, ed al pennacchio dell'elmo. La struttura del cavaliere
non aveva in sè nulla di straordinario, ed anzi, per quanto si poteva
giudicare sotto l'arnese, non annunziava il vigore ordinario agli
armeggiatori di quell'epoca. Venne avanti, atteggiando il cavallo che,
leggermente tentato dallo sprone, e rattenuto dal freno, si raggruppava
e procedeva scalpitando, e volgendo or qua or là il collo e la groppa
formata in arco, e colla coda ondeggiante sferzava e sollevava la rena.
Venne a fermarsi rimpetto a Donna Elvira, e dopo averla salutata
abbassando la lancia, percosse con quella tre colpi sullo scudo di
Inigo. Prendendola poi colla sinistra che già reggeva e briglia e
scudo, pose mano all'azza che gli pendeva dall'arcione e ne percosse
due volte lo scudo a Correa; e ciò volea dire che chiedeva al primo tre
colpi di lancia ed al secondo due d'azza. Fatta la qual cosa, tornò
all'entrata dell'anfiteatro.
Si trovò Inigo nello stesso tempo al suo luogo dirimpetto, entrambi
colla lancia alla coscia e la punta in aria. Bajardo, che sin allora
aveva tenuta alzata la visiera mostrando il volto coperto d'estremo
pallore, pel quale molto si maravigliava ognuno che volesse e potesse
combatter quel giorno, se la fece abbassare e chiudere dal suo
scudiere, dicendogli che malgrado la quartana (ed in fatti da quattro
mesi lo travagliava) aveva fiducia di non vituperare quel giorno l'armi
francesi.
Al terzo squillo di tromba parve che un solo spirito animasse i due
guerrieri ed i loro cavalli. Curvarsi sulla lancia, dar di sprone,
partir di carriera colla rapidità del volo, furono cose simultanee,
ed ambi i cavalieri le eseguirono con pari furia e rovina. Inigo mirò
all'elmo dell'avversarjo; colpo sicuro, ma non facile; poi quando gli
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