Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 15

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— Voi avete fatto codesto? — domandò arrossato in volto e cogli occhi
che luciccavano fieramente.
L’Arpione curvò il capo senza rispondere.
Il giovine mandò un’esclamazione che era un grido di nuovo e più fiero
dolore e si nascose tra le mani il volto.
Ernesto, freddamente, brevemente, narrò tutto il fatto con ogni suo
particolare: quando egli ebbe finito, Alfredo sollevò il viso più
pallido e disfatto di prima e disse con una disperazione in cui c’era
qualche cosa di nobile e di dignitoso:
— Ho io conservato ancora il diritto di essere creduto da Lei, se le
giuro che io ignorava affatto codesta... deplorabile azione?
Il conte Sangré stette un momento; guardò bene entro gli occhi il suo
interlocutore, e poi rispose con quella sua voce franca e leale:
— Sì, lo credo.
— La ringrazio; — rispose commosso Alfredo. — Sono innocente... di
questa come di qualunque altra colpa che mi viene apposta... Fui lo
zimbello di uno strano, maledetto destino; ma pure comprendo che di
tutto quel male che venne fatto di me e per me, io debbo portarne la
responsabilità, lo comprendo, e mi vi acconcio, e sono pronto a tutto.
Mi dica Lei, signor conte, quello che mi tocca.
Ernesto esitò un momento.
— Il mio compito dovrebbe essere finito, — disse poi. — Poste in netto
le reciproche nostre condizioni, appurato che nessun rapporto più può
esservi fra Lei e noi, _nessuno, di nessun genere_, — (posò bene sulle
parole così dicendo), — io non avrei altro che da ritirarmi e lasciare
a Lei il pensare se può trovar modo di provare quanto annulla o scema
la sua colpevolezza, di riparare e di espiare; l’antica amicizia, però,
mi fa non essere alieno dal darle qualche consiglio se Lei lo desidera.
Alfredo fece un cenno d’assentimento col capo.
— E le dirò per prima cosa, — continuò Ernesto, — che Lei deve
scacciare ignominiosamente da sè e non lasciarsi più venire tra’ piedi
colui, e accennò Matteo con un gesto di supremo disprezzo, — colui, che
è il più scellerato, il più miserabile, il più vile degli nomini.
Alfredo ebbe un sussulto, come se toccato al petto da una punta di
ferro arroventato.
L’usuraio curvo, strisciante, rattrappito nella sua vergogna, si
diresse verso l’uscio senza parlare.
Ernesto lo perseguitava con queste fiere parole:
— Sì, partite, sottraetevi alla mia vista, incarnazione che siete
della codardia, della calunnia, della rapina e d’ogni turpitudine, chè
quando penso come voi abbiate osato tentare di lanciare uno sprazzo
del fango in cui vi crogiolate sulla sacra memoria di quel giusto che a
me fu padre, a voi benefattore, temo la mia collera sia tanta da farmi
superare la ripugnanza che devo avere di sporcare i miei stivali nella
vostra sozza persona.
Matteo aveva una mano sulla gruccia della serratura e tremava, Alfredo
pure tremava tutto ed era verde nel viso.
— Andate! — conchiuse il conte con una imperiosità insolente.
— Un momento! — gridò Alfredo: e questa parola gli scoppiò dalle labbra
come lo sparo d’un’arma.
Ernesto e Matteo si volsero a lui, il primo con aria di stupore e
curiosità, il secondo con sorpresa piena di timore.
— Ella dimentica, signor conte, — disse Alfredo coi denti stretti,
facendo forza a frenarsi, — che qui è in casa mia, e non ha diritto di
scacciare nessuno.
Il conte prese il suo tono più altezzoso e petulante.
— In casa di qualunque io mi trovi, ho il diritto di fare spazzar fuori
un rettile velenoso.
Matteo fece alcuni passi affrettati verso Alfredo, e giunse le mani,
come per supplicarlo a tacere, a lasciarlo partire; ma il giovane, con
gesto violento, gl’impose di tacere e di stare.
— Ella dimentica ancora un’altra cosa, — soggiunse il giovane,
dominandosi sempre, ma pure lasciando scorgere che in lui il furore
veniva crescendo e togliendogli la mano.
— Che cosa? — domandò Sangré aggiungendo all’accento di prima una tinta
di beffa.
E Alfredo, sempre più concitato, fremente:
— Che non è azione da gentiluomo l’inveire contro un vecchio, debole,
che non ha difesa...
— Oh! — interruppe il conte con accento di massimo disprezzo: — quella
gente lì senza difesa? Mi burla. Ha una corazza impenetrabile nella sua
infamia, che è superiore ad ogni oltraggio.
Alfredo fu d’un balzo presso Matteo e lo prese per mano.
— Questo vecchio, ora ha un’altra difesa...
E Matteo sottovoce, supplichevole, spaventato:
— Che volete fare?... Lasciatemi... State zitto... Lasciatemi andare.
Ma il giovane continuava con forza, con uno scoppio di voce, quasi con
rabbia:
— Ne ha una in me... che sono suo figlio!


XXXIII.

L’usuraio mandò un gemito.
Il conte si strinse nelle spalle con un moto che aveva insieme del
rincrescimento e dell’ironia.
— Me ne dispiace, — disse, — ma io non ci posso nulla.
Alfredo era affatto dominato dal furore; si postò in faccia al Maggiore
delle Guardie e gli disse:
— Ci può... ci può... perchè non s’insulta impunemente un padre innanzi
a suo figlio... ed io... io figliuolo dell’oltraggiato, ne voglio una
terribile soddisfazione.
Matteo si cacciò trammezzo.
— No, Alfredo; — gridò: — per carità... ti prego... ti scongiuro.
Il giovane lo allontanò con una mano e fece ancora un passo per
accostarsi al conte.
— Avete inteso? — ruggì.
— Ho inteso benissimo: — rispose il Valneve senza scomporsi
menomamente, sempre con quella sua aristocratica freddezza. — E sarei
disposto a dargliene soddisfazione quando le cose che ho detto non
fossero vere; ma siccome pur troppo nè Lei, nè alcuno al mondo può fare
che non sieno tali, Ella vede che a me non resta nulla da aggiungere...
E così, siccome qui capisco naturale la presenza d’un essere con cui
non voglio avere comune neppure l’aria che si respira, non mi resta che
ritirarmi.
S’avviò con passo tranquillo verso l’uscio; Alfredo s’affrettò a
porglisi dinanzi per impedirgli il cammino. Aveva turgide le vene della
fronte, gli occhi lampeggianti, le labbra frementi, ansante il respiro.
— E Lei crede, — disse con voce mozzata dal furore, — aver potuto
coprirci d’obbrobrio, lanciarci sul viso le più sanguinose ingiurie
e poi lasciarci tranquillamente e non averci più nulla da fare e non
pensarci più?... No per Dio!...
— Eppure sarà così: — rispose freddamente il Sangré. — La esorto a
tranquillarsi, a rientrare in sè stesso, e a vedere, se le rimane un
po’ di ragione, che dev’essere così, e che non sarà altrimenti,
Alfredo scuoteva il capo con atto da impazzito: le mani gli tremavano,
— No per Dio! No per Dio! — ripeteva. — Avrò soddisfazione... mi
domanderà perdono....
Il conte interruppe con un moto vivace del capo.
— Io?
— Sì, Lei! — insistette Alfredo, accostandosi ancora all’ufficiale: —
oppure mi darà il suo sangue.
— Nè l’una cosa nè l’altra, — rispose Ernesto freddo, superbo, senza
muoversi, incrociando le braccia al petto. — Quello che ho detto è il
vero e son pronto a ripeterlo: il mio sangue lo devo a qualche cosa di
più degno e di più importante che la collera d’un figliuolo d’usuraio.
Alfredo ruggì un’imprecazione; Matteo spaventato gli si pose davanti;
Ernesto non si mosse.
— Per carità! per carità! — supplicava il vecchio.
— Ah dunque perchè Lei è gentiluomo e io sono plebeo — gridava il
giovane facendo a liberarsi dalle braccia di Matteo che lo tenevano,
— a Lei sarà lecito calpestarmi e io dovrò tacere?.... Sì, plebeo!....
Sono plebeo.... e userò anche modi e vendetta da plebeo... e poichè Lei
mi rifiuta ogni riparazione, le strapperò di dosso quelle spalline...
Con un moto da furibondo, ratto come un fulmine, allontanò da sè il
vecchio, si precipitò sul conte e la sua mano diede uno strappo alla
spallina sinistra. Il maggiore impallidì, una fiamma terribile balenò
nei suoi occhi, in un attimo balzò indietro, e gli lampeggiò tra mano
la sciabola nuda.
— Disgraziato! — gridò fuori di sè anch’egli, menando un colpo alla
cieca.
La sciabola non colpì Alfredo; una mano, un capo si frapposero, e
la lama intagliò quella mano e scivolò a disegnare una lunga riga
rossa dal fronte alla guancia di quella testa; la mano e la testa
dell’usuraio Arpione. Alfredo mandò un grido, fece un atto come per
islanciarsi in soccorso del vecchio, ma parve che le forze glie ne
mancassero, divenne pallido, pallido, quasi stesse per isvenire, e
disse con voce appena intelligibile:
— Voi siete ferito... padre mio?
Un lampo di gioia a queste parole corse negli occhi di Matteo.
— Non è nulla, non è nulla: — rispose avviluppandosi nel suo povero
sporco fazzoletto la mano lacerata, sanguinante; e intanto non badava
che dal volto gli colava fin sul collo una filza di perline rosse che
erano goccie di sangue.
Alfredo riacquistò la freddezza della sua ragione e le forze dell’animo
e del corpo; corse a un cassettone, vi prese pannilini e s’adoperò
frettolosamente a rasciugare il sangue, a fasciare le ferite del
vecchio, poi si slanciò verso il cordone del campanello per suonare.
Vide il conte Ernesto Sangré di Valneve, la cui presenza pareva aver
affatto dimenticata. Il Maggiore, pallido ancora per l’ira suprema
che lo aveva invaso, le sopracciglia corrugate, le labbra fortemente
strette e le guancie contratte, una spallina mezzo strappata, pendente
sul petto, aveva chinato verso terra la sciabola sulla cui punta
tremolava una stilla di sangue e guardava fieramente innanzi a sè,
pronto alla difesa, voglioso all’offendere.
— Signore! — gli disse Alfredo fremendo, — che cosa aspetta ancora Ella
qui? Che cosa pretende?
L’ufficiale rimise tranquillamente la sciabola nel fodero e rispose
pacato ma fiero:
— Attendo che la sua emozione... la sua giusta emozione sia un po’
data giù, per dirle queste ultime mie parole. Mi rincresce di quanto
ora è avvenuto; ma se la mia sciabola si è macchiata di quel sangue,
non è mia la colpa e ne respingo ogni risponsabilità. Assalito in quel
modo indegno, tale che un militare deve a ogni costo istantaneamente,
non solo ripulsare, ma vendicare e punire, l’ira mi ha fatto usare
quell’arma che, se ci fu data per difendere il re e la patria, portiamo
a fianco eziandio per far rispettare la nostra divisa e il nostro
onore. Il mio abbandono alla collera, però, parmi abbia modificato
alquanto i nostri reciproci rapporti e quindi muta eziandio le mie
risoluzioni. La mia sciabola macchiata di tal sangue, credo non debba
più rifiutarsi a incrociare la sua...
— Ah sì?... — interruppe Alfredo, con un’esclamazione di gioia
selvaggia — Finalmente!... Quando, come, dove?
— Tutto come piacerà a Lei... Io da questo momento sono pronto ad
assecondare in ciò qualunque suo desiderio; e per facilitargliene
l’effettuazione, la quale altrimenti incontrerebbe forse gravi
ostacoli, come può esserne persuaso da quanto è avvenuto dopo la sfida
scambiata con mio fratello, io, invocandolo come prova d’amicizia,
otterrò da due ufficiali della guarnigione che, senza investigar nulla,
senza cercar altro, consentano ad assisterla come testimoni. Fra un’ora
al più tardi Ella avrà qui la visita di quei signori.
— Va bene: — rispose Alfredo, il quale avea riacquistato anche lui
tutta la garbata freddezza del gentiluomo.
Il Maggiore s’inchinò leggermente ed uscì come sarebbe uscito dal
salotto di una signora dopo un ben composto complimento di congedo.
— Ah finalmente!. — esclamò di nuovo il giovine quand’ebbe visto il
battente dell’uscio rinchiuso dietro le spalle dell’avversario.
Era da tante ore che egli soffriva maledettamente; a lui pareva
oramai da un tempo infinito. Da ogni parte erano venute al suo cuore,
come un bersaglio ai colpi di tutti, offese tremende, orribili,
insopportabili, delle quali una sola bastava a mandare in furore e in
disperazione un uomo: e contro nessuno gli era concesso fino allora
sfogare la sua rabbia, il suo crudele tormento. Ora ecco che tutti
quelli oltraggi, tutte quelle ferite pigliavano corpo, in una persona,
venivano a stargli innanzi in un individuo, su cui tutto poteva
riversare quel tumulto di fiera passione, di odio, che ribolliva nel
suo seno. Dimenticò ogni benigno affetto, ogni generoso sentimento,
ogni precedente mitezza dell’animo. Potesse uccidere! potesse sbranare!
potesse far piangere! tutti, chiunque! Che importava se colui sul quale
sarebbe disceso il suo furore fosse un uomo ch’egli aveva amato e che
lo aveva amato, che avesse stimato di più, del sangue del quale fosse
il suo più santo, il suo unico amore? Afferrava ora la sua vendetta,
l’avrebbe fatta compiuta; la voleva, si sentiva la forza e la fortuna
di ottenerla.
— Ah finalmente! — gridava con enfasi di voluttà feroce.
Ma sentì due braccia tremanti che gli cingevano pianamente il collo,
una guancia umida che veniva a toccare lieve lieve la sua, e una
voce soffocata, lagrimosa, piena di terrore e di dolore, sussurrargli
all’orecchio:
— No, no, Alfredo, per pietà! Tu non ti batterai, tu non mi vorrai far
morire di spavento, di angoscia e di dolore... Io sono pur tuo padre...
indegno, indegnissimo, ma ti ho data la vita... me la devi... è roba
mia... ma non puoi, sacrificando la tua, distruggere anche la mia vita.
Il giovane di subito provò una viva ripugnanza a quel contatto, a
quell’amplesso, e fece un brusco movimento per liberarsene, ma poi si
contenne tosto; staccò lentamente da sè le braccia del vecchio e se lo
allontanò con tranquilla fermezza.
— Lasciatemi... — disse con accento di risoluzione irremovibile: — non
domandatemi l’impossibile. Ch’io rinunzi a vendicarmi su qualcuno di
tutto quello che ho sofferto e che soffro, ch’io perdoni, dimentichi
e m’umilii per evitare uno scontro che desidero ardentemente, (poichè
voi mi domandate tutto codesto)... è cosa impossibile, assurda,
richiederebbe una virtù di cristiano, di santo, che io non mi sento
d’avere, che non posso, che non voglio avere... Questa tremenda
condizione in cui mi trovo, da cui non posso uscire, che solamente
posso temperare uccidendo o facendomi uccidere...
Il vecchio vacillò e colla mano fasciata di pannilini sanguinosi si
appoggiò ad un mobile per non cadere.
— In questa sciagurata condizione, chi mi ci ha posto?... È ben giusto
che colui al quale spetta la prima, la maggiore, l’unica colpa, ne
soffra le conseguenze.
Per Matteo le dolorose emozioni avevano raggiunto il colmo di quella
misura ch’egli poteva sopportare. Lo spavento fors’anco della ferita,
da cui si sentiva scorrere ancora caldo il sangue sulla faccia, la
debolezza da ciò cagionatagli, concorsero eziandio ad abbatterne ogni
vigore anche dell’animo; si mise a tremare a tremare, le gambe gli si
piegarono sotto, gli occhi gli girarono nell’orbita, le terree guancie
gli diventarono gialle, e benchè si tenesse al mobile abbrancato,
diede giù, fu per cadere in terra. Ma non cadde; Alfredo, che aveva lo
sguardo rivolto in lui, lo vide: fu sollecito a corrergli presso, ad
afferrarlo, a sostenerlo; lo tenne su stretto al suo seno.
— Che cos’avete? — gli disse: — padre!... Padre mio!...
Benchè mezzo fuor de’ sensi, quella dolce e soave parola di padre
che per la seconda volta usciva dalle labbra del giovane, il
vecchio maledetto e disprezzato tuttavia l’udì, la bevve direi quasi
avidamente, ringraziò con uno sguardo di tenerezza ineffabile, di
riconoscenza che colla voce più non poteva, e svenne sul seno del
figlio adoratissimo e gli parve così dolcissimamente morire. Ah! ma
sarebbe stata troppo felice sorte per lui; avrebbe sofferto troppo
poco, e ben maggiore espiazione lo attendeva in quello scorcio di vita
che ancor gli restava.
Alfredo in due passi trasportò sul proprio letto il vecchio svenuto,
poi saltò al cordone del campanello e diede una grande strappata.
— Presto! — comandò al domestico accorso, — un medico, il primo che si
possa avere... ma sollecito... ma subito!... correte.


XXXIV.

Alfredo sta seduto al capezzale di Matteo Arpione, il padre suo,
che giace assopito. Il medico è venuto, e ha detto le ferite essere
leggerissime, lo svenimento cagionato da patèma d’animo e non da
nessuna grave infermità fisica, non occorrere altro che riposo, quiete
dello spirito e qualche cordiale per ottenere un compiuto ritorno alla
perfetta salute.
Alfredo siede colà, presso al letto, in quella camera semibuia, e
contempla fisso il volto dell’uomo che dorme innanzi a’ suoi occhi. La
quiete del sonno ha disteso le fattezze di lui, sembra che gli abbia
tolta via la maschera che usa tenerci sempre di nullità, di apatia, di
umiltà sottomessa; la gioia provata dall’udirsi detta quella parola cui
aveva fatto il sacrificio di non udir mai sulle labbra di suo figlio,
ha lasciato anch’essa sui lineamenti dell’addormentato una espressione
nuova, di intimo orgoglio, di qualche cosa insieme, che potrebbe quasi
dirsi bontà; si direbbe che essa ha rievocato su quel volto alcuno
dei tratti della sua giovinezza, gli ha ritornato alle sembianze alcun
che di generoso che s’era ritirato in fondo alla sua anima e vi si era
tenuto accuratamente nascosto.
Quell’uomo era suo padre! pensava Alfredo; quell’uomo aveva lavorato
e sofferto per lui, per fare a lui, suo figlio, una sorte invidiata.
S’era per ciò gravato le spalle e aveva portato pazientemente, quasi
lieto, il pesante fardello del pubblico disprezzo, quello più pesante
ancora della propria disistima, s’era fatto volontariamente vile e
cattivo. Quale disgraziata e maledetta illusione era stata la sua!
Avrebbe bisognato che riducesse eziandio cattivo e vile suo figlio
perchè potesse approfittare quietamente dei frutti sciagurati di
quell’opera deplorevole; invece no; egli, suo figlio, l’aveva voluto
buono e generoso e aveva fatto di tutto per ciò. Vile e cattivo!
Avrebbe forse potuto diventar tale, egli, Alfredo? Faceva a sè stesso
questa domanda e raccapricciava dal terrore; gli pareva di sì. Non
era figliuolo di colui? Non aveva sangue di lui nelle vene? L’ira, il
desiderio della vendetta non gli avevano forse posto o per dir meglio
suscitato nell’anima istinti feroci, crudeli, gli pareva anche bassi e
scellerati. Non aveva egli pensato persino un giorno a farsi assassino?
Suo padre pure un giorno era stato buono, valente: se sua madre l’aveva
amato, bisognava bene che fosse tale.
Sua madre! Questo pensiero s’impadronì di subito nella mente di lui, la
padroneggiò, la volse ad un altro ordine di idee. Essa era un angelo di
donna: il padre glie l’aveva detto; egli lo aveva sentito sin dal primo
svolgersi della ragione, per istinto, per intuito indovinatore; lo
credeva fermamente. Gli sembrò vederla: una figura sottile, delicata,
dal mesto sorriso, degli occhi pieni di bontà e di luce. Gli sembrò che
s’accostasse a quel letto e guardasse con amorosa compassione lui e il
giacente e quest’ultimo gli raccomandasse.
— Non farlo morire, — pareva udirsi dire nel fondo dell’anima, — abbine
pietà, perdonalo, perdona!
Questa parola di perdono se la sentiva ripetere nel capo, nel petto,
come di eco in eco, come pronunziata da tutte le parti, ma sempre con
una voce dolcissima, una voce femminea, la voce che credeva di sua
madre.
Perdonare! Sì, a quell’uomo che aveva grandemente errato, è vero, ma
per troppo amore di lui: a quell’uomo che involontariamente gli aveva
cagionato tanto male, mentre il suo scopo era pur quello di dargli
ogni bene; a lui sì, ma agli altri? Agli altri che gli avevano fatto
provare tante angoscie, che gli avevano fatto sibilare, prorompere,
fremere intorno la condanna, la maledizione, il disprezzo del mondo:
agli altri, perchè avrebbe perdonato? Oh li odiava, li odiava troppo,
gli pareva di odiare tutto il genere umano; avrebbe voluto averlo
tutto dinanzi rappresentato in un individuo per poterlo assalire,
ferire, distruggere. E questo individuo contro cui rivalersi, in cui
vendicarsi, nel cui sangue sfogare la sua rabbia, egli lo avrebbe pure
avuto a fronte tra poco, e sarebbe stato Ernesto Sangré di Valneve. Lo
avrebbe dunque assalito colui, lo avrebbe trafitto, lo avrebbe ucciso.
Nella scherma egli non temeva rivali: lo sdegno e la giusta smania di
vendetta gli avrebbero accresciuto ancora l’abilità e le forze. Sì,
l’avrebbe ucciso! Chi? Ernesto di Valneve? Colui che gli era comparso,
che gli compariva ancora come l’incarnazione della vera gentilezza,
del vero sentimento di correttezza morale e sociale dell’aristocrazia;
colui che gli aveva dimostrato stima ed affetto, che egli aveva davvero
ammirato ed amato, che aveva desiderato di poter chiamare fratello,
e aveva creduto un momento di avere tal fortuna, che era fratello di
Albina! Ah! il suo amore per costei non era spento, nè manco scemato.
Lo sdegno, il riagire contro l’onta che lo aveva assalito, il ribollire
del sangue sotto il moltiplicare degli oltraggi l’avevano attutito
un istante, ma ora, a un tratto, si rimetteva a parlare più forte
che mai, e ridivampava colla solita energia, pareva anzi accresciuto
dall’eccesso della disperazione. Ed egli le avrebbe ucciso il fratello?
Avrebbe fatto piangere quegli occhi entro i quali egli aveva traveduta
tanta parte di cielo! Essa lo avrebbe odiato, maledetto!... Essa! Ma
questo sarebbe stata nuova e ancora peggiore sventura per lui! Ma
non avrebbe egli dato qualunque cosa solamente per avere di lei un
compianto, un sentimento di stima, un briciolo di lode? Forse anche lei
ora lo credeva colpevole del tentativo di ricatto messo in pratica da
Matteo Arpione, forse lo odiava di già, lo disprezzava del pari e anche
di più. Con ciò, uccidendogli il fratello, immergendo nel lutto tutta
la famiglia di lei, rimediava egli a qualche cosa, riacquistava qualche
merito agli occhi della nobile fanciulla, la faceva ricredersi del
tristissimo giudizio che aveva dovuto recare di lui?
No certo; no certo. Una nobile azione avrebbe più facilmente potuto
ottenere codesto da lei. Il fratello, il conte Ernesto le avrebbe
detto allora com’egli fosse persuaso dell’innocenza di lui nel
tentativo dell’Arpione, ed essa gli avrebbe creduto. Ma quale nobile
azione? Che cosa poteva egli compiere che meritasse tal titolo nelle
condizioni in cui si trovava? Il pensiero della madre, forse l’anima
di lei gli ridestava nell’intimo l’idea, la parola di perdono!... Era
quella una nobile azione? Curvarsi sotto all’onda d’infamia che lo
sovraccoglieva, non renderne alcuno responsabile, rassegnarsi come a
dire «l’ho meritato!» Ma il _mondo_ l’avrebbe invece chiamata viltà
questa e fattone per lui un nuovo argomento di condanna e di disprezzo.
E fors’anche lei avrebbe partecipato ai giudizi del mondo!... No,
sapeva che Ernesto medesimo l’avrebbe difeso: era certo che il fratello
d’Albina avrebbe saputo apprezzare al giusto la magnanimità dell’atto,
che egli, il quale lo aveva visto al fuoco delle battaglie, non
avrebbe accagionato il procedere di lui a codardia. Ed ella pure, ella
l’incarnazione d’ogni bellezza morale come fisica, d’ogni sublimità
dell’anima come dell’intelligenza, ella lo avrebbe capito.
Perdonare! Perdonare! Rassegnarsi, soffrire ed espiare colpe non
sue!... Oh dolorosa, crudele sorte e immeritata! Ben poteva forse
subire l’ignominia, ma viverci, ma portarla pel mondo?... Chi, qual
dovere, qual cosa glie lo poteva imporre? Nulla e nessuno. Che cosa
avrebbe fatto della vita, di sè? Perchè avrebbe trascinato un’esistenza
disonorata per acconciarvisi forse un tempo e fare il callo
all’infamia?... Meglio morire: così tutto sarebbe finito.
Era egli certo che sarebbe finito? Aveva creduto sempre fino allora
a un’altra vita, da cui aveva sognato che gli sorridesse lo spirito
di sua madre. Gli era sembrato sentire la realtà di quel mondo
sovraterreno, gli sembrava sentirla ancora. Sua madre lo avrebbe
incontrato in quel mondo; che gli avrebbe detto? Invece di abbracciarlo
e baciarlo, non l’avrebbe forse condannato essa pure? La testa gli
ardeva: i polsi gli battevano come martelli. Gli parve scorgere il
fantasma della madre guardarlo con corruccio e dirgli «non morire, non
bisogna morire!» Poi questo fantasma cambiare di fattezze, prendere uno
splendore ben noto di cerulee pupille, la serietà d’un sorriso pensoso
e dignitoso, le sembianze di Albina, per ripetergli ancora: «non
morire, non bisogna morire.»
Sorse in piedi con impeto, come un uomo che risponde a una chiamata.
Un domestico entrò in quel punto e gli annunziò sottovoce che due
ufficiali chiedevano di parlargli: erano i testimoni procuratigli dal
conte Sangré medesimo.
Alfredo gettò uno sguardo su Matteo che dormiva sempre tranquillo e
poi in punta di piedi uscì per andare a raggiungere i due ufficiali nel
salotto.
Ai due ufficiali, i quali lo accolsero con una fredda cortesia, Alfredo
disse subito, freddamente cortese anche lui:
— Mi duole, signori, che si sieno presi il disturbo di venire sin
qui. E me ne duole tanto più, in quanto che nuove considerazioni da me
fatte, nuove vicende appurate, mi hanno fatto compiutamente rinunciare
al mio primo proposito, per cui avrei avuto bisogno del generoso loro
aiuto, del quale ciò nulla meno li ringrazio vivamente e di gran cuore.
I due ufficiali si guardarono l’un l’altro, poi guardarono il giovane
che, pallido com’era, rimase freddo e senza commuoversi sotto al loro
sguardo, poi fecero spallucce e dissero con piglio di indifferenza poco
lusinghiera:
— Vuol dire che la nostra opera è affatto inutile?
— Sissignori.
— Tanto meglio! E ai padrini del conte Sangré, coi quali dobbiamo ora
accontarci, che cosa diremo?
— Che io spiegherò la mia condotta al conte di Valneve medesimo, in una
lettera che non tarderò a mandargli.
— Nient’altro?
— Nient’altro.
— Va bene.
Fecero un legger saluto del capo con freddezza ancora maggiore e
partirono.
Alfredo tornò presso Matteo Arpione, che dormiva sempre di quel
medesimo sonno placido e riparatore. Lo guardò di nuovo a lungo,
immobile, pensoso. Il giorno cadeva: la camera era diventata quasi buia
del tutto; quella poca luce che era colà, in quel vespro di primavera,
colle imposte delle finestre socchiuse, dava all’ambiente una tinta
d’ineffabile tristezza, da illanguidire qualunque anima, anche la meno
accessibile alla melanconia. Il nostro giovane così disgraziato sentì
intenerirsi; l’asprezza dell’ira, la ferocia dell’odio lasciarono
luogo a una commozione pietosa; gli occhi infuocati furono inumiditi
da lagrime che ne temperarono l’ardore. Quell’uomo ch’egli aveva lì
dinanzi — suo padre — era ora il solo vincolo che lo legasse alla
terra, il solo che lo potesse amare oramai, il solo cui egli dovesse
amare. E amarlo egli non poteva. Sentiva anche in questo momento, in
cui una maggior mitezza di sentimenti lo possedeva, come perdonarlo,
compatirlo, sì, gli sarebbe stato fattibile, già quasi lo faceva,
ma amarlo non mai. Anzi sentiva che affine di perseverare in quei
sentimenti verso quell’uomo, gli sarebbe stato necessario di viverne
lontano, di non averne presenti la figura, i modi, di non udirne la
voce, che troppo gli ricordavano le ragioni per cui egli avrebbe pure
il diritto di odiarlo e maledirlo. Quali dunque sarebbero stati in
avvenire i rapporti suoi con colui.... con suo padre? Che avrebbe fatto
di sè stesso, dove, come vissuto?
Matteo in quella s’agitò, le sue labbra mormorarono alcune parole,
fra cui il giovane afferrò il suo nome, e gli occhi del giacente si
aprirono lenti e quasi con fatica.
Alfredo per primo impulso si trasse vivamente indietro come per
sottrarsi alla vista di quelle pupille che s’aprivano nelle occhiaie
affondate; ma poi tosto si accorse che questo moto di ripugnanza era
avvertito dall’infermo e un’espressione di pena grandissima gli si
dipingeva nel volto; si fece forza e si riaccostò con aspetto se non
affettuoso, se non benigno, di grave interessamento.
— Come state?...
L’accento era tale da fare accorgere che una parola doveva ancora
venire a chiudere la interrogazione; ma come se un ostacolo fosse
venuto ad impedirla, quella parola non potè essere pronunziata dalle
labbra.
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