Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 04

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potenza, e molti del nostro ceto hanno dimostrato, e nei matrimoni e in
altro, di non resistere neppur essi al suo influsso....
— Ma noi non siamo di quelli: — interruppe più acceso il secondogenito:
— e appunto perchè taluni della nostra classe falliscono pur
troppo, ci conviene, a noi, affermare solennemente che non si è di
quelli e mostrare in modo vivace e che non lasci equivoci il nostro
risentimento. Io gli scriverei con acre severità, come si merita... e
già, se lo incontro, non mi terrò dal dirgli fuor de’ denti quello che
penso.
— A rispondere a questa lettera tocca a me, — disse Ernesto con calma,
non senza qualche autorità; — e risponderò con quella dignità e quella
gentilezza che si conviene ad un Valneve, tanto più quando parla a
nome di tutta la famiglia; e tu poi, Enrico, quando incontrerai quel
giovane, che ieri ancora chiamavi tuo amico e trattavi colla più
amichevole domestichezza, tu non dimenticherai neppure, te ne prego,
e credo mio dovere ricordartelo, che un figliuolo di nostro padre non
deve essere nè oltraggioso, nè incivile, nè ingiusto....
— Ma il mio sdegno verso colui è giustissimo; e se io per l’addietro
l’ho trattato come un uguale, come un amico, è perchè l’ho creduto
per davvero degno di ciò. Egli, introducendosi in mezzo a noi, ci ha
ingannati tutti....
— No: — interruppe vivamente Ernesto. — Dove, come e quando vi fu
caso che gli si domandasse le prove della sua nobiltà e i titoli de’
suoi quarti? Egli si presentò col titolo di conte, e può giustamente
portarlo. Avresti voluto che a ciascuno di coloro con cui stringeva
conoscenza e’ si mettesse a raccontare la storia della sua famiglia
e di suo padre? Ora è nata la prima volta verso di noi l’occasione di
chiarire le cose, ed ecco ch’egli si affretta a dichiarare lealmente la
verità....
— Sfido io a far diversamente!
— Il caso l’ha posto in rapporto meco, facendomelo incontrare in un
ambiente sociale che è il nostro; egli fu meco gentile, generoso, si
fece amare e stimare; di te, che l’hai trattato liberamente nelle
pareti domestiche, e l’hai visto nelle più eleganti adunanze, ha
conquistato l’animo eziandio colla nobiltà, il garbo e la squisitezza
delle maniere, e si è dunque dimostrato pari e degno di stare a pari
con qualunque del più aristocratico sangue....
— Cioè, cioè: — interruppe con un po’ di bizzarria Enrico: — qualche
cosa c’è pure in lui che rivela una estrazione inferiore, qualche cosa
di volgare....
— Eh via! — esclamò subito il primogenito con quel suo fine sorriso:
— gli è adesso solamente che te ne accorgi; prima d’ora non lo avevi
scoperto mai. Ad ogni modo bada bene; te lo ripeto, Enrico, e come
preghiera e come ammonimento, qual capo della famiglia e anche in
nome di nostra madre; tu incontrando Camporolle guardati assolutamente
dall’essere provocatore. Sarebbe un brutto fatto che mi dorrebbe assai,
sarebbe una disgrazia per me una contesa fra mio fratello e colui che,
anche scoprendosi non nobile, non cessa d’essere mio amico.
Enrico chinò il capo come ossequente all’autorità famigliare
rappresentata dal fratello primogenito, ma con aria poco persuasa e
poco soddisfatta.
Alfredo, in attesa della risposta di Ernesto, aveva passate delle ore
d’ansia dolorosissima, confortato poco e a rari intervalli da lieve
speranza, affannato da crudele paura quasi sempre. Anzi quanto più
il tempo passava e più cresceva la paura e più rari e meno efficaci
si facevano i momenti di speranza: finchè giunto il biglietto dalla
calligrafia del cui indirizzo egli vide essere del fratello di Albina
e avutolo fra mano, l’emozione fu tanta che ogni vigore gli venne meno
ed egli dovette abbandonarsi sopra una seggiola senza avere nemmeno la
forza di rompere il suggello stemmato della bustina e leggere il foglio
contenutovi che recavagli la sentenza del proprio destino.
Calmato finalmente un poco il tumulto del suo animo egli potè leggere
la lettera d’Ernesto che era del tenore seguente:
«Caro Alfredo. Tutto il mio desiderio di contentarti, di stringer
teco, oltre quelli dell’amicizia, vincoli più potenti ancora e più
cari, si rompe innanzi ad un fatto, di cui avevo già subodorata
l’esistenza, e ora ho acquistato la certezza, ed è la reciproca
affezione, nata fin dalla puerizia, che passa fra mia sorella e nostro
cugino Giulio, la quale affezione capirai anche tu come non ci sia
ragione di contrastare. Fu anzi l’idea di questo fatto che mi rese così
riserbato quando tu mi apristi il tuo animo; e tu quindi mi perdonerai
e quel riserbo e la presente risposta che sarei stato lietissimo di
poterti dare invece nei termini che più ti appagassero. Spero che ciò
non riuscirà ad alterare per nulla fra noi quel sentimento di vera
amicizia, col quale, mi dico sempre tuo affezionatissimo Ernesto Sangré
di Valneve.»
Alfredo lesse d’un fiato, e non capì bene alla prima quello che aveva
letto.
Una ripulsa pur troppo e’ se l’aspettava; negli ultimi momenti della
sua angosciosa aspettazione la riteneva anzi per sicura, gli pareva
impossibile che avvenisse diversamente. Eppure, ora che la temuta
disgrazia s’era avverata, ora che ogni possibilità di speranza gli
era tolta davvero, si rifiutava ad ammetterlo, si sforzava a farsi
ancora un’illusione. Rilesse adagio adagio, pesando parola per parola;
e un grande schianto avvenne nell’anima sua. La condanna era intera,
assoluta, irreparabile; non conteneva solamente la negazione della
felicità di lui, ma ancora, più crudele dolore, l’affermazione della
felicità d’un altro.
Era proprio vero? Un altro avrebbe posseduto quel fiore di bellezza,
quel miracolo di grazia, quel tesoro di gentilezza, di bontà, d’ogni
dote superiore della donna! E chi era quest’altro? Il cugino Giulio!
Era tanto modesto, era tanto meschino, Alfredo l’aveva visto sempre
tanto nell’ombra, che non ne aveva bene e precisa nella mente
l’immagine. E da colui, da quell’ombra, da quel nulla egli aveva
da lasciarsi rapire ogni bene? e sopportarlo in santa pace? e non
muovere neppure un dito per lottare, per contendere la conquista di
tanto tesoro? Ch’egli amasse supremamente Albina lo sapeva pure da
tanto tempo; aveva paragonato questo suo amore con quel sentimento
inebbriante cui prima gli aveva infuso nel sangue la Zoe, e ne aveva
notato la differenza: quest’ultimo, per quanto acceso, tumultuoso
dominatore nella sua concitata natura di giovane, non era che ardore di
sensi, non era un abbandono completo, un trasporto, un omaggio dello
spirito, dell’animo, del cuore, di tutto l’essere; l’amore per Albina
invece erasi fatto il suo culto, la sua religione, la sintesi di ogni
sublimità, di ogni grandezza che egli fosse capace di apprendere. Lo
sapeva, lo sentiva, si compiaceva di ripeterselo da tempo: eppure ora,
al colpo di quel dolore, gli parve di non aver saputo mai, di non aver
mai capito interamente quanto egli amasse quella fanciulla. Colui che
pretendeva rapirgliela, egli l’odiò subitamente, d’un odio maggiore
di quello che aveva sentito pel duca di Parma che gli contendeva la
Zoe. Oh, poterlo avere fronte a fronte e atterrarlo e stritolarlo! Si
sentiva forte, si sentiva capace di vincere qualunque. Non potè stare
alle mosse; turbato, abbuiato in viso, pallido e colle sopracciglia
aggrottate, lo stampo del dolore e della disperazione sul volto, uscì
impetuoso, decise di cercare e trovare ad ogni modo quel Giulio. Dove
incontrarlo se non fosse nel palazzo dei Sangré? Si diresse con passo
concitato a quella volta.
Matteo Arpione, che vegliava con tanto maggior cura su di lui, lo vide
anche in questo momento, e col cuore sospeso dall’ansia e dalla paura,
lo seguitò da lontano.


IX.

Quanto più si veniva accostando al palazzo Sangré, Alfredo sentiva
venire scemando il tumulto dell’animo, temperandosi quel primo impeto
che lo aveva mosso. Che cosa avrebbe egli fatto quando si fosse trovato
di fronte al rivale? Si mostrerebbe ancora più indegno di Albina,
abbandonandosi a violenze? Che diritto aveva egli di frammettersi
fra i due cugini? La buona educazione, il dovere di gentiluomo, la
sua dignità non gli comandavano invece di tacere, di rassegnarsi, di
allontanarsi dal cammino di quell’adorata fanciulla, di non comparirle
più innanzi agli occhi, tanto più di non farsene odiare e maledire;
e ciò sarebbe avvenuto se egli alcun male avesse arrecato al giovane
ch’essa amava. Ma pure, no; tacere, rassegnarsi non poteva; qualche
cosa gli sembrava che gli restasse pur da fare per cessare da sè tanto
dolore, per temperarlo almeno. Fantasticava d’essere nel medio evo,
quando un cavaliero poteva con lancia e spada conquistarsi la dama del
suo cuore; sentiva che il suo amore gli avrebbe dato tanto ardimento,
tanta forza da vincere qualunque competitore. Sognava di andarsi a
gettare ai piedi della fanciulla e supplicarla disperatamente, non gli
togliesse così ogni bene, non lo facesse a un tratto il più infelice
degli uomini, non gli togliesse così spietatamente ogni sorriso alla
sua gioventù ricca, baldanzosa, fiorente. Sarebbe riuscito a giungere
fino a lei, qualunque ostacolo gli si volesse frapporre; avrebbe saputo
intenerirla; e s’esaltava, sperava, ma poi di colpo vedeva l’assurdità
de’ suoi sogni, ricadeva nella sua disperazione, si sentiva perduto.
Matteo Arpione lo seguiva sempre cautamente; quando lo vide arrivare
con un passo quasi uguale a quello di chi cammina alla morte sino
al palazzo Sangré, là fermarsi incerto, a capo chino, poco meno che
tremante, esitare, scostarsene, riavvicinarsi, gettare uno sguardo
lungo, doloroso, profondo sulle finestre di esso, là dove l’antico
_factotum_ del conte-presidente sapeva che erano le stanze della
contessina, scuotere il capo, riallontanarsi, ristare, come animato
da nuova risoluzione prendere l’aire per penetrare sotto il portone,
e arrestarsi di colpo quasi trattenuto da un’invisibile barriera,
stare ancora un momento esitante, come in lotta fra i due impulsi
opposti, e poi correre via all’impazzata; l’usuraio che, vegliando
continuamente sul giovane, conosceva la premurosa di lui frequentazione
della famiglia di Valneve, non ebbe difficoltà a capire che il gran
turbamento di Alfredo aveva la sua origine e la sua cagione lì in quel
palazzo, e probabilmente in quelle stanze dove s’affissava con tanta
passione lo sguardo di lui.
Che il giovane amasse la figliuola dell’antico padrone di Matteo,
questi lo aveva già pensato più volte; ora vedeva chiaro che qualche
guaio era nato, che qualche seria difficoltà era sorta a contrastare,
se non a distrurre del tutto le speranze e i voti del giovane, ed a
lui premeva di sapere sollecitamente ogni particolare della cosa,
per giudicare se fosse in poter suo recare qualche aiuto, qualche
rimedio. Interrogate le persone di servizio d’Alfredo, colle quali
egli s’era sempre tenuto in relazione, non apprese altro fuorchè le
maggiori dimostrazioni di dolore e di abbattimento che il giovane
dava nel segreto della sua casa, rifiutando ogni cibo, respingendo
ogni compagnia, ogni conforto, ogni parola, per rimaner solo nella
sua camera, dove lo avean sorpreso a un punto ad esaminare la coppia
migliore delle sue pistole. Un terribile sospetto spaventò Matteo,
il quale era deciso di non indietreggiare innanzi a nessun mezzo per
salvare quel giovane, per farlo felice. Cominciò per iscrivergli,
falsando la calligrafia, queste poche parole: «Non disperate; quello
che è massimo vostro desiderio potrete ancora ottenerlo; calma,
pazienza e forza d’animo...» e gli fece trovare tal biglietto sul
tavolino; poi si pose in traccia di Tommaso, il vecchio servo dei
Valneve, ed ebbe la fortuna d’incontrarlo quella medesima sera.
Tommaso, come abbiamo già visto, aveva avuto grande amicizia fin
da ragazzo con Matteo. Dopo che la casa dei Valneve s’era chiusa
all’usuraio, i rapporti fra i due antichi amici erano diventati più
freddi e infrequenti, ma non erano cessati del tutto; e di belle
volte, già per l’addietro, Matteo, che conosceva il debole di Tommaso,
era riuscito a trarselo seco in qualche bettola, dove, col rincalzo
di parecchie bottiglie aiutando la naturale smania di chiaccherare
del vecchio, aveva appreso tutto quanto avveniva nella famiglia
Sangré. Quella sera, l’Arpione mise in opera tutta la sua abilità,
tutta l’accortezza e dissimulazione di cui era capace, e seppe non
solo indurre il vecchio domestico, riluttante dapprima, a seguirlo
all’osteria, ma colà, pian piano, a poco a poco, una bottiglia dopo
l’altra, cominciando dalle cose le più indifferenti e lontane, fu così
bravo da scavar fuori da Tommaso tutto quanto egli sapesse di ciò che
poteva interessare la sua curiosità; e Tommaso sapeva di molto, perchè,
tenuto oramai dappiù che un servitore, quasi come uno della famiglia,
a lui si dicevano assai cose, e assai più gli si permetteva che
indovinasse.
Dopo quel lungo colloquio, Tommaso uscì brillo dall’osteria, e Matteo
dai varii frammenti d’informazioni strappate al suo compagno, potè
ricomporsi in capo la trama degli avvenimenti, che non dubitava di
conoscere oramai in quasi tutta la verità. Alfredo aveva avuto un
colloquio coi due fratelli di Albina, dal qual colloquio era uscito
commosso profondamente; e subito dopo i due fratelli avevano parlato
colla mamma, presente il marchese Respetti-Landeri, che era una specie
di tutore e di protettore di Giulio; erano state udite alcune parole
del Respetti al cugino, da cui si poteva argomentare ch’egli aveva
fatto qualche cosa per soddisfare un rilevante di lui desiderio.
Tommaso finalmente aveva visto egli stesso il maggiore delle guardie
Ernesto di Valneve condurre Giulio ed Albina dalla contessa Adelaide,
che li aveva stretti al seno e chiamati figli suoi, e la notizia erasi
diffusa subito, anche fra la servitù, del prossimo matrimonio fra i due
cugini. Era dunque da ritenersi che Alfredo avesse manifestato il suo
amore ai fratelli della ragazza, che questi ne avessero discorso colla
madre, e che allora, per intervenzione sopratutto del marchese, il
quale doveva aver patrocinato la causa del suo protetto, s’era deciso
di respingere la domanda del Camporolle e celebrare invece gli sponsali
di Albina con Giulio.
L’Arpione provò una collera intensa, contro tutti e specialmente contro
il marchese, senza il cui inframmettersi forse, egli pensava, la causa
d’Alfredo non sarebbe stata perduta.
— Ma io posso fargliela pagare! — esclamò a un punto, quando si fu
liberato della compagnia di Tommaso ubbriaco e camminava lentamente,
pensoso, verso l’abitazione del conte di Camporolle. — Io posso
vendicare Alfredo... Vendicarlo?... Oh sarebbe pur meglio farlo
felice.... E chi sa?.... Con quell’arma ch’io posseggo....
Parve che un’ispirazione glie ne venisse all’improvviso: affrettò il
passo con piglio risoluto, fu in un momento all’abitazione d’Alfredo,
s’informò di lui, raccomandò vivamente ai servi che vegliassero sul
giovane, e poi corse a casa sua. Dove rinchiusosi ben bene, accesa con
mano che quasi gli tremava per l’emozione una meschina lucernetta che
mandava una scarsa luce rossigna da una piccola fiammella, si guardò
intorno con aria sospettosa, come se avesse paura che alcuno potesse
pur tuttavia scorgerlo, benchè serrato l’uscio a doppia mandata e col
catenaccio e chiuse le imposte di legno delle finestre, e poi tratta
dal seno una chiavetta appesa al collo per un cordone, andò ad aprire
uno stipo fasciato di ferro con grossi chiovi nelle lastre, che stava
nascosto in un angolo fra il letto e la parete.


X.

Quello di Matteo Arpione era un vero quartiere da usuraio. Ad un alto
quarto piano di una casaccia squallida e nera, in una delle strade
più strette e meno pulite della vecchia Torino, posto al fondo d’un
ballatoio interno, consisteva in due sole camerette che non avevano
vista se non nel cortile angusto, profondo, buio, eternamente umido,
che pareva un pozzo. Il sole non le visitava mai; ogni oggetto che vi
si conteneva, rivelava o la più assoluta miseria, o la più sprezzante
incuria. Nella prima stanza un fornello in cui l’inquilino faceva
cuocere egli stesso i suoi parchissimi cibi, una tavola sporca, due
seggiole col piano di legno e nient’altro; nella seconda un lettuccio
di ferro dalla vernice staccata, semplice e vecchio, con sopra un
saccone di foglie trapuntato, una materassa alta quattro dita che
non era più stata rifatta da secoli, lenzuola di color bigio e una
coperta tutta strappi e rappezzi, un canterano, quattro sedie, un
baule e in quell’angolo riposto lo stipo che abbiamo detto. Non tende
nè tendine alle finestre nè agli usci, non quadri nè altro appesi alle
pareti, neppure un segno qualunque di fede religiosa a capo del letto;
l’ammattonato sporco che rivelava la lunga assenza d’ogni contatto
colla granata; in tutto, uno squallore, una nudità, un freddo che
avrebbe gelata l’anima di chiunque fosse colà penetrato.
Matteo andò adunque a quello stipo di cui teneva gelosamente nascosta
appo sè la chiave e l’aprì con mano così delicata, grazie anche
all’inoliamento della serratura, che le stanghette furono rimosse
e l’imposta spalancata, senza che se ne sentisse il menomo rumore.
L’interno presentava tanti cassettini chiusi pur essi, ma di cui la
medesima chiave apriva la serratura; l’usuraio aprì il primo in alto
e traendolo fuori a metà, facendosi lume colla lucernetta, frugò in
mezzo a varie carte che vi si contenevano, finchè non n’ebbe trovata
una che dalla tinta un po’ ingiallita e dal colore dell’inchiostro con
cui era scritta, appariva essere conservata da un certo numero d’anni.
Matteo, lasciando lo stipo aperto a quel modo, si recò quella carta
sul canterano, dove posatala, colla lucerna accanto che l’illuminasse,
appoggiati i due gomiti al piano del mobile, sostenendo colle mani la
sua testaccia scarmigliata rilesse attentamente e rilesse lo scritto
di quel foglio e stette assorto in profondissima meditazione a pensarci
su.
Era un foglio di carta da lettera di forma ordinaria, lo scritto
occupava tre facciate e terminava a metà della terza con una data e una
firma; non aveva che una ripiegatura per lungo, quindi si vedeva che
non era mai stato messo in una busta.
Dopo più di mezz’ora di quella sua meditazione, Matteo si riscosse
e col capo chino, le mani intrecciate dietro la schiena si pose a
passeggiare adagio adagio per la camera.
— Su chi agire? — pensava. — Il Respetti non avrebbe ora tanta
influenza da fare annullare la decisione presa; i fratelli Sangré non
vorrebbero forse cedere a niun patto, non si lascierebbero intimorire;
le donne sono più impressionabili, e delle due è più facile riuscire
presso la giovane che presso la madre. Questa ha pur tanta fierezza!
D’altronde si tratta della sorte della contessina, ed essa può e deve
far trionfare la sua volontà. La conosco abbastanza per essere certo
ch’ella si sacrificherebbe ad ogni modo pur di risparmiare un dolore
alla madre e la menoma ombra di macchia al nome della famiglia; e
qui il sacrifizio è molto facile e leggero. Alfredo è pur così degno
d’essere amato e saprà farsi amare! Parlerò alla signorina.
La sua decisione era presa; il disegno che gli era balenato in confuso
alla mente dapprima, ora si era venuto esplicando, determinando,
facendosi concreto in ogni suo particolare; non si trattava più che
di metterlo in pratica ed egli era abbastanza certo di sè per contare
sopra una irremovibile fermezza e un’audace abilità nell’esecuzione.
Tornò presso il canterano; rilesse ancora una volta quel documento,
che, se gli era stato prezioso per l’addietro, ora gli era diventato
preziosissimo, poi divise in due il foglio, così che la pagina scritta
soltanto a mezzo e in cui era la firma, stesse separata dall’altro
mezzo foglio, dove al fondo della seconda pagina lo scritto terminava
con un pianto fermo e col senso completo che pareva del tutto
conchiuso.
Il mezzo foglio scritto da tuttedue le parti, egli lo ripose
accuratamente in un suo portafogli che teneva sempre nella tasca del
petto disotto al soprabito abbottonato; e l’altro mezzo foglio andò
a rimetterlo nel cassettino dello stipo, onde l’aveva levato e ve lo
richiuse mormorando:
— Chi sa che non m’abbia a servire poi anche questo!
Fece per chiudere l’imposta dello stipo, ma se ne trattenne; un lieve
sorriso dì compiacenza venne sulle sue labbra sottili, tirate, quasi
livide, e fece muovere le minutissime rughe che gli correvano alle
tempia e sulle guancie peggio che vizze; un lampo di gioia brillò
ne’ suoi occhietti affondati, d’ordinario senza espressione. Aprì ad
uno ad uno tutti gli altri cassetti e più o meno lungamente stette a
contemplare avidamente, a brancicare con mano fremebonda il contenuto
di essi. Nei più questo contenuto era denaro, pilette bene ordinate
di marenghi; in altri di scudi; tre avevano delle carte, cedole del
Debito pubblico, titoli di credito di vario genere, perchè egli non si
piaceva di tenere presso di sè giacenti inoperose le sue ricchezze, ma
le occupava, le faceva lavorare, com’egli si esprimeva, impiegandole
in imprese fruttuose e traendone sempre più lauti beneficii; in uno di
quei cassetti v’erano le polizze e le obbligazioni dei miseri a cui con
tasso indiscretamente esagerato egli prestava denaro. Matteo esaminò
tutto con quel sorriso, con quel luciore nelle pupille di gioia e di
compiacenza.
— Oh, coll’arsenale d’armi che ho qui, — si disse superbamente, — si
devono vincere tutte le battaglie. Vincerò anche questa volta.
Richiuse con attenzione, appese di nuovo la chiave al collo e, spenta
la lucernetta, si buttò sul suo giaciglio, dove dormì poco, agitato da’
suoi pensieri, ripassando seco stesso tutti i particolari del disegno
che aveva formato per giungere al conseguimento di quello scopo che gli
stava a cuore più d’ogni altra cosa al mondo.
Il domattina, appena un po’ di luce si cacciò in quelle squallide
stanze, l’usuraio fu in piedi, sedette al tavolo della prima camera,
e, scelto fra parecchi foglietti di carta il più presentabile, vi
scrisse sopra una pagina che aveva seco stesso meditata tutta la notte,
e poi ripiegatolo in quattro lo serrò in una busta su cui scrisse
l’indirizzo: «Alla signora contessina Albina Sangré di Valneve;» quindi
uscì sollecito e andò alla chiesa di San.... che era la parrocchia
nel cui ambito si trovava il palazzo della nobile famiglia. Colà
egli sapeva che tutte le mattine di buon’ora andava a sentir messa la
signora Giustina, la governante della contessina. Ve la trovò difatti e
accostatala quando ella usciva, le disse che gli permettesse di dirle
quattro parole anche così camminando per istrada, trattandosi di cosa
gravissima, importantissima e urgentissima. La Giustina, che conosceva
quell’uomo e le passate di lui attinenze colla famiglia Sangré,
acconsentì, e Matteo allora la pregò colle più calde istanze di voler
consegnare nelle proprie mani della signorina il biglietto che egli le
porgeva, e ciò senza che nessun altro della casa, anzi nessuno al mondo
ne sapesse nulla. Dapprima la donna rifiutò, poi esitò, poi finì per
cedere alle tanto insistenti preghiere del vecchio, alle così solenni
di lui affermazioni che trattavasi di cosa riguardante la famiglia
medesima dei padroni, e cui la contessina a cui egli si rivolgeva, se
informata, avrebbe potuto risparmiare chi sa quanti guai.
Così avvenne che mezz’ora dopo Albina ricevesse il biglietto di Matteo
Arpione. La governante nel consegnarglielo ripetè alla fanciulla tutto
quanto il vecchio le aveva detto per decidervela, e finì conchiudendo
che se aveva sbagliato volesse perdonarla e non esporla al risentimento
della contessa.
La fanciulla assai stupita prese il biglietto e lo lesse; vi era
scritto:
«Ill.ma signora contessina,
«Per la venerata memoria dell’illustrissimo signor
conte-presidente, padre della S. V. e fu mio colendissimo padrone;
pel bene e la tranquillità dell’illustrissima signora contessa
Adelaide, a cui si tratta di risparmiare un gravissimo dolore;
per la gloria del nome illustre che portano così degnamente gli
illustrissimi conte Ernesto e cavaliere Enrico, fratelli della S.
V., io la prego quanto so e posso, di concedermi un quarto d’ora
d’udienza da soli senza che nessuno lo sappia. Ella vedrà che se
mi sono deciso di rivolgermi a Lei piuttosto che a qualunque altro
della sua illustre famiglia, ci ho avuto buona, potente ragione, e
sono sicuro che mi approverà e anzi me ne avrà qualche gratitudine.
Fra Lei e me, suo devoto fedele servitore, potremo risparmiare un
gran dispiacere e peggio alle persone che le sono più care. Voglia
comunicarmi col mezzo della signora Giustina quando e come Ella
vorrà farmi l’onore di ricevermi; e non dimentichi che la cosa è
di premura assai, tanto che più presto potrò parlare sarà meglio. E
creda intanto alla devozione di chi si professa
«_Suo umil. servo_
«MATTEO ARPIONE»
Primo pensiero d’Albina fu di recar subito questo biglietto a sua
madre, ma poi pensò che, se c’era qualche cosa di vero in esso, se
trattavasi proprio di risparmiare alla diletta mamma un dolore, era
meglio tacere con lei e udire anzi tutto dal vecchio servitore di suo
padre la comunicazione di quelle cose che annunziava tanto importanti
e tanto urgenti; avrebbe sempre avuto tempo di poi, quando vedesse
necessario il confidare quel fatto alla madre, di narrarle tutto. Diede
ordine a Giustina, che quel giorno stesso, verso le due, quando appunto
ella soleva passare un’ora e più ritirata nel suo quartierino, facesse
d’introdurre presso di lei, a insaputa della madre e dei fratelli,
l’uomo che le aveva scritto.


XI.

Matteo Arpione, fatto entrare di celato dalla Giustina nel salottino
della contessina, trovò la nobile giovinetta dritta presso al suo
pianoforte, un gomito appoggiato allo stromento, l’altro braccio
abbandonato lungo la persona, in mossa un po’ superba, la fronte
leggermente corrugata, i limpidi occhi azzurri fissi sull’uomo
che entrava, con un’espressione di stupore curioso e d’un’altiera
aspettazione. Quantunque cinque anni prima ella non fosse ancora che
una bambina, pure erale stata profondamente impressa quella sera fatale
in cui suo fratello Ernesto, di ritorno dal duello coll’ufficiale
austriaco, aveva creduto suo obbligo confessare intieri i suoi
traviamenti e la parte che in essi aveva avuta Matteo Arpione. Troppo
giovane per apprezzar bene di qual sorta fossero i torti del fratello
e le colpe di quel servo infedele, non essendo più tornata di poi su
tal penoso argomento col pensiero, ma sapendo che la famiglia aveva, e
certo giustamente, pronunciato un bando assoluto di quell’uomo dalle
soglie del palazzo; avendo così in confuso l’idea che nel malore il
quale aveva colpito e precipitato nella tomba il padre, colui ci aveva
avuto un influsso funesto, Albina erasi venuta formando dell’Arpione il
concetto pauroso d’un essere malefico che si meritava odio e disprezzo,
ma che bisognava temere; e questa considerazione non aveva influito
di poco a farla acconsentire a quel colloquio. Innanzi ad un male che
minacciava i suoi cari, ella aveva superato ogni sua ripugnanza, e da
coraggiosa figliuola dei Sangré, aveva voluto vedere faccia a faccia il
pericolo.
L’usuraio s’avanzò di pochi passi nella stanza, più umile, più curvo,
più strisciante che mai, gli occhi bassi, quasi non osasse levarli
su fino a quella bellezza di volto, a quello splendore di sguardo, a
quella nobile fierezza di fronte. Ella stette un momento a guardarlo
muta ed immobile a quel modo, mentr’egli, con molti inchini, affoltava
umili parole di saluti riverenti.
— Or bene, — disse poi la contessina dando alla dolcezza della sua
voce tutta l’asprezza e la severità di cui era capace: — eccovi al mio
cospetto; non perdete tempo e ditemi subito quanto scriveste d’avermi
da comunicare.
Matteo fece ancora un passo innanzi, tornò ad inchinarsi profondamente
e disse con voce sommessa, umile, peritosa, ma che pure giunse chiara e
fece spiccare ogni parola alle orecchie della giovane:
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