Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 12

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della scellerata trama; poi, sedato un poco il primo ribollire del
sangue, esaminate più freddamente le cose, riconosciuta incontestabile
in quella carta la mano di scritto del padre, Ernesto non dubitò già,
neppure un momento, dell’innocenza paterna, ma si disse che il mistero
cui proseguiva non era ancora penetrato e che conveniva assolutamente
chiarirlo.
— Nostro padre, Albina, mai non fu colpevole di simil cosa, — disse, —
non potè esserlo; non lo crederei nemmanco s’egli stesso mi comparisse
innanzi ad affermarmelo. Qui c’è qualche inganno, c’è qualche
artifiziata combinazione... e bisogna sventarla. Per ciò occorre
mettere insieme gli ingegni e l’azione di tutta la famiglia, e nostra
madre e nostro fratello devono esserne informati anche loro...
— Nostra madre! — proruppe Albina con un grido: — pensa il colpo
crudele che sarà per essa...
— Nostra madre, — rispose Ernesto con un superbamente fiducioso
sorriso, — non crederà, come non credo io...
— Oh nemmeno io non ho creduto — aggiunse vivamente la fanciulla; — ma
la minaccia della pubblicità...
— Bisogna bene armarsi contro questa minaccia, e potere opporre alle
accusatrici apparenze il vero che assolve.
Tutta la famiglia, dietro preghiera del conte Ernesto, venne raccolta
nel salone, innanzi al gran ritratto del padre defunto.
Ernesto brevemente, sobriamente, con voce ferma, espose la cosa.
Quella del padre pareva davvero una lettera diretta a lui; in essa egli
s’accusava esplicitamente e recava particolari precisi del fatto; ma
pure egli, il figliuolo primogenito, affermava ancora che non credeva
a tal colpa, che era certo si sarebbe scoperto in qualche modo essere
quella non altro che una brutta illusione. Non credettero neppure nè la
contessa Adelaide nè il cavaliere Enrico, dalle cui labbra scoppiarono
indignate proteste. La contessa rinforzò le sue negazioni con parecchie
affermazioni di fatti; prima di tutto, ella era sempre stata nella
piena confidenza d’ogni cosa famigliare, e sapeva che mai non era
avvenuto il caso di cui parlava quello scritto. Il conte-presidente
aveva sempre amministrato il suo patrimonio con prudenza, parsimonia
e previdenza, tanto che, pur non mancando mai a nulla che fosse voluto
dal decoro, aveva trovato maniera di accrescere le sostanze famigliari,
per lasciare ai suoi figli maggiore agiatezza. Era poco probabile che
il padre di Giulio, partendo per l’America, avesse lasciato al conte
quella somma, perchè fra i due fratelli, pur troppo, da un po’ di tempo
esisteva tale screzio che non si vedevano più, appunto per la condotta
che teneva e pel modo pazzo con cui dilapidava le sue sostanze il
cavaliere Armando, al quale il primogenito aveva fatto inutili, severe
rampogne. Anzi la contessa si ricordava che il fratello più giovane
era partito, non solamente senza consultare, ma senza neppur vedere il
primogenito, la qual cosa, a costui, era riuscita di grave dolore.
Gl’imbarazzi finanziarii non avevano dunque mai potuto conturbare
il conte-presidente, sibbene il fratello Armando, ed anche il cugino
e amicissimo marchese Leonzio Respetti-Landeri, intorno al quale la
contessa aveva udito più volte il marito esprimere a questo riguardo
rimpianti e paure.
— Leonzio Respetti! — Appena questo nome fu pronunziato trasalirono
tutti e si guardarono in volto un po’ commossi. Nessuno osò esprimere
chiaro a parole quello che divenne pure di subito il pensiero di tutti,
l’opinione comune. Quel nome era stata la luce che aveva illuminato
quel buio. Ricordarono ciò che la contessa aveva visto coi propri
occhi, che gli altri avevano udito le mille volte: il dissesto in cui
aveva lasciato i suoi affari, la grande intimità che c’era fra lui ed
Armando, la malattia che negli ultimi tempi lo aveva reso inabile anche
a scrivere, e per cui tante volte gli era stato necessario servirsi
della mano del presidente. Ricordarono che il figliuolo del marchese,
tenuto a battesimo dal Sangré, portava il medesimo nome d’Ernesto.
Sentivano che erano presso alla verità, che la toccavano; il marito e
padre loro pareva raggiare su di essi dalla gran tela dipinta il suo
sorriso mesto e severo, lo sguardo serio eppur benigno; ma nessuno
osava parlare... Quando l’uscio si aprì e comparve sulla soglia Ernesto
Respetti-Landeri medesimo.
Pallido, gli occhi affondati, quella notte trascorsa pareva averlo
invecchiato e smagrito. Non salutò, non fu salutato; si avanzò
lentamente, guardando in volto i congiunti, che chinarono gli sguardi
con un imbarazzo cagionato da generosità d’animo. Egli comprese tutto.
— Cari miei, — disse con voce affiochita ma tranquilla, — voi possedete
un grave documento che non è completo; vengo io a recarvi l’altra metà
del foglio, in fondo al quale c’è la firma.
Le spiegazioni furono brevi. Cinque minuti dopo, il marchese baciava la
mano della contessa e diceva con profonda commozione:
— Le sue parole sono per me come un’assoluzione di mio padre, ricevuta,
per le sue labbra, dal padre di Giulio medesimo e da quella rettitudine
incarnata che fu il conte-presidente. La ringrazio, la benedico...
— Ed ora, — interrompeva il primogenito dei Sangré, tornando alla
sua allegra vivacità di maniere e di parola: — ora, a terminare ogni
vertenza a questo riguardo, andrò io da quel signor Alfredo, conte o
non conte, Camporolle o no.


XXVIII.

Secondo l’intesa avuta co’ suoi padrini, Alfredo s’era ritirato a casa
e di là non uscito più, per aspettare che venissero a comunicargli il
risultato delle trattative coi rappresentanti dell’avversario. Fossero
anche stati solleciti a venire da lui colla risposta, il giovane
avrebbe pur trovato lungo il tempo dell’attesa: figuratevi ora che cosa
dovesse provare, quando vide passare il pomeriggio, sopraggiungere
la sera, inoltrarsi la notte e non comparire nessuno. La sua divenne
impazienza dolorosa, irritazione nervosa, un malessere, una rabbia,
un’angoscia. Finalmente, verso mezzanotte i padrini da lui scelti si
presentarono freddi, rigidi, rinchiusi nei più stretti limiti della
cortesia.
Dissero essere stati fino allora al _club_ a discutere sul caso coi
mandatarii del cavaliere Sangré e con parecchi gentiluomini de’ più
esperti e autorevoli in fatto di quistioni d’onore, de’ quali essi
avevano per favore domandato l’intervento e il consiglio, perchè
davvero il quesito che loro veniva a proporsi aveva assunto carattere
di tal gravità, che si erano peritati a scioglierlo da soli.
La freddezza delle parole e del contegno, la serietà formalistica con
cui ora gli parlavano que’ due, i quali prima erano usi a trattarlo
con amichevole domestichezza, fecero penosa impressione in Alfredo;
gli parve di vedere in coloro non più due sostenitori, ma quasi
nemici, o almeno giudici severi, mal disposti verso di lui. Si sentì
agghiacciare; guardò come trasognato l’uno e l’altro e balbettò:
— Dunque?.... Che decisione?.... Lo scontro?....
— Per ora lo scontro non può aver luogo, — rispose il più vecchio dei
due padrini. — così fu deciso, dopo lunga discussione, all’unanimità.
— Come!.... Perchè?.... — susurrò Alfredo impallidendo vieppiù e
guardando sempre più smarrito.
E l’altro con fredda e crudele franchezza:
— La ragione è facile a capirsi. O le accuse fatte dal cavaliere Sangré
sono vere; e allora ogni gentiluomo non può a meno di riconoscere
ch’egli non deve battersi con tale che le ha meritate...
Alfredo ebbe una scossa come preso da un subitaneo brivido, ma non aprì
bocca; il padrino continuava:
— O sono false; e allora prima di acconsentire a battersi con lui, hai
il diritto di esigere ch’egli esprima il suo rincrescimento per averle
accolte.
Camporolle fece uno sforzo per superare uno scoramento, un’amarezza,
una disperazione di cui sentiva invadersi tutto.
— Questo è un andar troppo per le lunghe, — disse, — e io ho premura di
vendicare il mio onore, di avere riparazione all’oltraggio.
— Qui ora non si tratta di far le cose presto, ma di farle bene, che se
n’esca dalle due parti senza equivoci, colle cose nette e chiare come
la luce del sole. La riparazione che ne otterrai sarà tanto più bella
e solenne. Appuriamo dunque ben bene ogni vicenda, e noi che abbiamo
accettato di assisterti, siamo disposti a metterci tutta la nostra
buona volontà e saremo lietissimi di giungere a quella conclusione che
tu più desideri. Ma per questo bisogna che tu ci aiuti e ci dia tutti
quegli schiarimenti e informazioni che ci possono occorrere.
La confusione, lo smarrimento e la scoraggiata amarezza crescevano
nell’anima d’Alfredo; quel vedere posto in discussione e circondato di
dubbi il suo essere medesimo, il suo nome, il suo onore, lui che nella
vita breve, ma avvicendata fino allora trascorsa, credeva pure aver
dato prove innegabili di valore, di generosità, di nobiltà d’animo,
lo affliggeva e umiliava; si sentiva come preso da una rete sottile
che lo venisse via via avvolgendo e le assaliva la voglia di dare un
grande strappo, rompere quelle maglie che si affittivano sempre più di
convenienze, di formalità, di quistioni quasi leguleie, e vendicarsi e
farsi ragione da sè colla violenza.
— Che schiarimenti? Che informazioni? — diss’egli, quasi non sapendo
che cosa veramente si dicesse.
— Ecco, — risposero gli altri: — scorriamo una ad una tutte le accuse
lanciate da Sangré che i padrini di lui posatamente confermarono. Noi
t’interrogheremo, e tu farai a distruggerle colle tue risposte, cui
certo sosterrai con valide prove.
Sedettero, assunsero l’aria di inquisitori e cominciarono senz’altro.
Alfredo credeva di stupidire.
— Per prima cosa ci si presentava il fatto della falsificazione che ci
sarebbe nel tuo atto di battesimo. La donna che in esso è scritta come
tua madre, sarebbe morta fin da un anno prima. Sai tu dirci qualche
cosa in proposito?
— Io non so nulla... e credo quella una delle più sciocche e più inique
menzogne del mondo.
— Speriamo che sia; ma siccome questa allegazione è appoggiata
dall’affermazione di un fatto positivo, cioè dall’esistenza dell’atto
mortuario di quella donna in Macerata, così scriveremo colà per averne
esatte notizie.
Alfredo curvò il capo e non parlò.
— Poi viene l’origine della tua fortuna...
Il giovane ebbe un fiero lampo di sdegno nello sguardo.
— Perdonaci, — s’affrettò ad aggiungere quell’altro. — È nostro
dovere, ed è anche tuo massimo interesse, dal momento che sono venuti
a galla simili sospetti, il farli dileguare completamente. Senza questa
condizione noi non potremmo continuare a rappresentare le tue parti. Si
afferma adunque che i signori Corina di Lugo, tua nonno e tuo padre,
non avrebbero lasciate ricchezze di sorta, ma invece dei debiti. Col
tuo nome furono ricomprati tutti gli antichi possessi della famiglia
e ancora aumentato di molto il patrimonio. Come avvenne ciò? D’onde ti
giunsero quei capitali?
— Che so io? — rispose Alfredo quasi sbalordito e potendo oramai
frenare a stento l’impazienza. — Codeste sono domande da farsi al mio
intendente...
— Che sarebbe?...
— Chi ha sempre amministrate le mie sostanze, mentr’io ero bambino e in
età minore, fu Matteo Arpione.
I due gentiluomini si guardarono.
— Ah! — fece quel primo, — è strano che di queste tue attinenze
piuttosto intime con colui non se ne sia mai saputo nulla.
Alfredo arrossì.
— O che l’avevo da pubblicare su per i muricciuoli? — proruppe con
vivacità irritata.
— Tu conoscevi qual uomo si fosse colui?
— Fu servo e obbligato di mio padre; quando questi morì, lasciò a
lui l’incarico di vegliare su me e sui miei interessi. Che cosa avevo
da sapere io? Quando conobbi chi egli si fosse lo allontanai da me e
cessai affatto di valermi de’ suoi servigi.
L’interrogatore tacque un momento: il suo volto prese una ancor
maggiore serietà; si vedeva che stava per toccare di cose che gli
parevano anche più gravi.
— Però, — riprese poi, — quando tu fosti a Parma nel 1854, tu non ti
eri tuttavia liberato di lui....
A queste parole che gli destavano il ricordo ingratissimo delle vicende
avvenutegli in quella città e a quel tempo, Alfredo si turbò.
— No... cioè sì: — rispose. — Fu appunto allora che avendo appreso da
Ernesto Sangré chi egli si fosse, lo scacciai.
Vi fu un’altra breve pausa.
— A Parma, — ricominciò quell’altro, il quale, a seconda che progrediva
nel suo interrogatorio, diventava sempre più freddo e severo, — tu
diventasti uno degli intimi del duchino.
Il turbamento d’Alfredo cresceva.
— Intimo no, — disse con evidente confusione, — andavo a Corte qualche
volta, di rado....
— E una sera il duca sdegnatosi teco, non so perchè, t’impose di
chiedergli perdono in ginocchio, e tu obbedisti.
Alfredo arrossì sino alla radice dei capelli e poi subito divenne
bianco più d’un cencio.
— Ero giovanetto... vent’anni appena, — balbettò, — sì, fu un momento
di debolezza; ma chi non l’avrebbe avuto? L’autorità del grado, la
presenza di tutti i cortigiani... un’emozione inevitabile.... Una
mano villana mi spinse... Cercai dopo in ogni modo di vendicarmene,
di averne soddisfazione... Chiedetene a Ernesto Sangré, mi sono
consigliato con lui, egli può dirvi...
— Per vendicarti tu sei entrato in una congiura contro la vita del duca?
Alfredo abbassò il capo e rispose con un soffio di voce:
— Sì.
— E quando questa congiura doveva avere il suo effetto fu rivelata alla
polizia... da Matteo Arpione.
Camporolle diede addietro d’un passo.
— Possibile! — esclamò. — Chi lo disse?
— Lo raccontò, in presenza del marchese Respetti, quel poliziotto
medesimo che ne aveva ricevuta la denuncia, la quale era stata fatta ad
una condizione: quella di salvare uno fra i congiurati... te!...
Alfredo mandò un’esclamazione soffocata e si coprì colle mani la faccia.
Per un momento si tacquero tutti: fu un silenzio grave, impacciato,
pieno di malessere.
— Ah, quell’Arpione! — gemette poi Alfredo, — col suo malaugurato
interessamento per me, egli mi ha fatto più male che non avrebbe saputo
e potuto il più accanito e il più perfido dei nemici.
I due gentiluomini s’alzarono in piedi, freddi, severi, con una dignità
quasi ostile.
— L’Arpione — disse lentamente, spiccatamente il principale de’ due —
non pare possa essere altro che uno stromento.
Alfredo sentì insieme una fiamma e un brivido corrergli per tutta
la persona; capì a un tratto, ma non volle capire, ma si rifiutò ad
ammetter possibile l’iniquo, incomportabile, scellerato oltraggio che
si conteneva in quelle parole.
— Come! — esclamò. — Stromento!... Di chi?
E l’altro sempre colla medesima voluta e misurata gravità:
— Quell’uomo, straniero al paese, non facendo parte egli stesso della
congiura la quale naturalmente tutti coloro che ne facevan parte si
erano impegnati con sacra promessa a tener segreta; quell’uomo, dico,
non poteva altrimenti sapere l’esistenza, e gl’intendimenti e i modi
della congiura medesima, e il nome dei cospiratori, se non apprendendo
tutto ciò da uno di essi; e consta che fra questi egli non conosceva
altri che voi.
Rifiutarsi a capire ora era impossibile. Quel voi finale nella parlata
del gentiluomo, quel voi, in cui aveva cambiato a un tratto il tu di
prima, era suonato ad Alfredo come il fischio d’uno staffile che lo
colpisse sul viso. Egli sentì di nuovo, come aveva già sentito altra
volta, qualche cosa di violento, di rozzo, di terribile agitarsi nel
fondo della sua natura e slanciarsi a galla. L’irritazione venuta
crescendo e pur sempre frenata per tante ore, il rodimento fin allora
provato e represso, proruppero in una scoppio di furore.
— Io! Io! — gridò egli colla voce, collo sguardo, colla mossa d’un
pazzo. — E voi osate venire a dirmi simili infamie!... Ve le ricaccierò
in gola, sciagurati!... Vi schiaccierò, giuro al cielo, come si
schiaccia col tallone una biscia.
E fuor di sè afferrò una seggiola e la sollevò come una clava.
I due padrini si misero in difesa.
— Signore: — disse quegli che aveva sempre parlato, — è altra azione
indegna d’un gentiluomo quella che voi state per fare. L’aver accettato
l’incarico che voi ci deste ne impose lo spiacevole obbligo di venirvi
a dire tutta la verità. Con questo il nostro mandato resta esaurito,
e noi, a vostro riguardo, rientriamo nella condizione comune in cui si
trova qualunque cittadino. Provate la falsità delle accuse che abbiamo
dovuto specificarvi; e allora anche noi, se vi parrà che abbiamo
mancato verso di voi, saremo pronti a darvene soddisfazione, per ora,
pronti a respingere colla violenza la violenza da qualunque parte ci
venga, noi non vediamo più in voi che un uomo, il quale non appartiene
alla nostra società.
Alfredo già era riuscito a frenare quell’impeto; lasciò andare a terra
la seggiola che brandiva, chinò il capo e il petto, abbandonò lungo la
persona le braccia, stette accasciato; come schiacciato, lui, sotto le
fredde, crudeli parole del gentiluomo.
Quando questi ebbe finito, i due rimasero ancora lì mezzo minuto, come
ad aspettare risposta; poi vedendolo immobile, muto, non avendo più
nulla ad aggiungere, se ne partirono senza un saluto, senza più una
parola, senza un cenno.
Il giovane si riscosse, si guardò intorno, si vide solo ed ebbe
quasi paura; volle correre presso que’ due, volle chiamarli; aveva da
difendersi, gli pareva d’aver mille cose da dir loro, mille argomenti
lampanti da dimostrar loro la sua innocenza. Difendersi da simile
accusa, lui! Non era una bassezza, una viltà questa stessa? Ma pure....
Sì, sì; non poteva lasciarli partire così quei due: rappresentavano
tutta l’aristocrazia torinese che lo aveva accolto come uno de’ suoi, e
che ora l’avrebbe respinto con disprezzo; aveva fatto male a lasciarsi
vincere dall’ira; doveva rispondere con calma; doveva persuaderli;
oh li avrebbe persuasi.... Corse all’uscio, l’aprì e si slanciò verso
l’anticamera; udì in quella il rumore della porta dell’alloggio che si
chiudeva alle spalle dei due partiti e vide il domestico che li aveva
accompagnati tornare indietro col lume in mano.
— Già partiti? — domandò egli, quasi smarrito.
— Sì, signor conte: — rispose il domestico; e poi vedendolo così
turbato soggiunse: — Vuole che li richiami?
— No, no.... Lasciate stare.
E si volse indietro per andare nella sua camera.
— Non comanda più nulla, signor conte?
— No.
— Riposi bene.
— Grazie!
Alfredo si slanciò nella sua camera e vi si chiuse dentro.


XXIX.

«Riposi bene,» aveva detto il domestico ad Alfredo: e come riposare
colla febbre nel sangue, colla pazzia nel cervello, coll’inferno
nell’anima? Fu una notte orribile, tremenda, uno spasimo senza tregua.
Era dunque vero? Egli sentiva come una voce crudele nel cuore a dirgli
di sì. Egli era nessuno, non aveva nome, non aveva famiglia; quello
era falso, questa glie l’avevano supposta. E le sue ricchezze donde
venivano? Da quale impura sorgente? Lui un trovatello, certo! Un
bastardo!... E s’era imbrancato coi nobili e aveva guardato dall’alto
al basso gli umili e i poveri! Ora capiva quei moti istintivi del suo
animo, violenti, grossolani; se li esagerava; diceva che erano effetto
del sangue ereditato.... chi sa da chi! Era un turbinìo, un tumulto,
una lotta confusa d’idee, d’immagini, di ipotesi, di risoluzioni nel
suo cervello concitato in cui batteva la febbre. Le memorie del suo
passato, in una specie di rincorsa, si affollavano, si perseguivano,
si accavallavano, si confondevano, quelle dell’infanzia con quelli dei
giorni addietro, la figura voluttuosa e scellerata della cortigiana Zoe
con quella purissima e nobile della vergine Albina.
A un punto, nel caos che gli mulinava in capo, vide delinearsi, venir
fuori, occupare tutto il campo una scena. Si era in un palchetto
di teatro: dall’apertura scorgevasi l’ambiente infocato della sala
piena di fiammelle, piena di sguardi, di susurri, di moto; nella
penombra della loggia parecchi uomini in montura militare e in abiti
cittadineschi, tutti dal sembiante orgoglioso, beffardo, insolente; al
parapetto, disegnandosi nettamente sul chiaro dello sfondo, la figura
esile, lunga, antipatica del fu duca di Parma, Carlo III Borbone.
Vide sè stesso là in mezzo, umile, fremente in segreto, avvilito,
tener basso il capo sotto gl’insulti ducali, barcollare, piegarsi,
toccare col ginocchio la terra, sotto la pressione d’una mano, fra un
grugnito di scherno dei testimoni insolentemente superbi. Cacciò un
grido, si strappò con una convulsione di furore i capelli. Era stato
vile! Un vero nobile non avrebbe tollerato tanta ignominia: farsi
ammazzare piuttosto. Era un’onta cui nulla aveva potuto cancellare,
cui nulla cancellerebbe più: era quella che rendeva possibile, che
rendeva credibile l’altra più scellerata accusa di aver rivelata la
congiura!...
E quest’accusa correva per Torino, si susurrava negli eleganti salotti
della società più elevata, era giunta certamente anche agli orecchi di
lei, di Albina!...
Gli altri l’avevano creduta: e lei? Perchè non crederebbe? Le avevan
detto di certo che in lui tutto era finto, ch’egli era un avventuriero
temerario e spregevole.... Oh sì, prima avrebbe voluto esser morto. E
che tremendo mistero era per lui la vita! Che significato aveva? Quali
ragioni, quale scopo? Perchè a lui una sorte così strana e crudele?
Egli non aveva colpa nessuna da espiare, e si riversavano sul suo
capo tutti i più fieri dolori. Era il fallo di altri ch’egli doveva
scontare? Di chi? E perchè? Dov’era la giustizia? Come veder chiaro
nel suo destino? Come provare almanco al mondo che in lui non c’era
l’infamia d’un delatore?
Ah Matteo Arpione! Lui solo poteva qualche cosa: a lui non doveva egli
domandar ragione dell’esser suo, delle sue ricchezze, del suo nome, di
tutto?
Un’alba grigia di giornata piovosa del mese di marzo cominciava a
rendere più gialla la luce della lampada; alcuni rumori che salivano
di strada annunziavano che la città cominciava a destarsi. Alfredo,
colle guancie pallide e scarne, gli occhi infossati, un solco nella
fronte incavato dalla dolorosissima insonnia, suonò pel suo cameriere,
e appena questi si affacciò, gli disse:
— Correte a cercare di Matteo Arpione, e a qualunque costo
conducetemelo qui subito.
Matteo aveva passata una notte uguale a quella d’Alfredo. S’era
affaticato a cercar modo di riparare alla rovina di tutta l’opera
sua; ma invano; in tutto l’arsenale delle sue arti, delle sue malizie,
delle sue perfidie, non aveva trovato nulla che potesse giovare. Era
disperato. L’unico scopo che gli pareva dover proseguire oramai e che
forse non era ancora impossibile d’ottenersi, era quello di allontanare
Alfredo, di farlo partire prima che a lui pure si rivelasse tutta la
verità. Ma come? Con quale autorità o quale lusinga? E il duello che
doveva aver luogo?
Il marchese Respetti gli aveva pur detto che un Sangré non si sarebbe
battuto con tale su cui pesavano tali accuse. Potevasi approfittare
di questa dilazione e spingerlo a recarsi, per esempio, a Genova dal
nobile e generoso suo amico il conte Ernesto a domandargli patrocinio
e difesa; egli frattanto sarebbe corso eziandio colà di nascosto da
Alfredo, avrebbe visto segretamente il maggiore, lo avrebbe pregato
e supplicato, e ne conosceva abbastanza la generosa bontà da poter
sperare che l’avrebbe aiutato nell’opera pietosa di nascondere ad
Alfredo una verità ch’egli troppo temeva l’avrebbe ucciso. L’uomo che
s’annega, dice il proverbio, s’afferra ai rasoi; e questo, che era
pure un mezzo di poco probabile riuscita, parve al misero vecchio una
trovata felice e aveva un’ansiosa impazienza di metterla in atto e il
tempo gli pareva troppo lungo a passare, e appena venuto il giorno,
spinto eziandio dal vivo, pungente desiderio di aver notizie dello
stato in cui trovavasi quel giovane, che era l’unico, potentissimo amor
suo, mosse sollecito verso l’abitazione d’Alfredo.
Ma vieppiù si accostava a quella meta e più sentiva sminuirsi il
coraggio, la speranza, la confidenza. A un punto ebbe una vera paura a
comparire innanzi al giovane. L’impudente audacia armata di menzogna
e rincalzata di mala fede senza scrupoli, che aveva sempre pronta
per qualunque più rischiosa attinenza con ogni altro, ora lo aveva
abbandonato del tutto e lo lasciava debole, incapace e tremante,
mezzo stupidito. Aveva rallentato man mano il passo: ora si fermò; i
piedi gli parevano essersi piantati in terra; lottava fiacco contro
lo sgomento e la vergogna; sarebbe fuggito, se in quella il domestico,
mandato da Alfredo in cerca appunto di lui, non lo avesse visto e con
sollecitudine accostato.
— Giusto Lei, — gli disse; — andavo appunto a casa sua. Il conte la
vuole subito subito, e l’aspetta con grande impazienza.
— Ah si? — fece il vecchio senza muoversi. — Anch’io era avviato da lui.
— Benissimo! Dunque andiamo.
Matteo non si mosse ancora.
— E il conte, — disse, come cercando le parole, — sta bene?
— Poco bene, — rispose il domestico; — anzi direi addirittura che sta
male.
Il vecchio si riscosse tutto; guardò bene in faccia il domestico e
ripetè come un’eco, ma un’eco che ci mettesse di suo l’espressione del
dolore:
— Male!
— Eccome! Se avesse visto ieri con che faccia è rientrato! Pareva un
morto disseppellito: e peggio! Io già non ho mai veduta una faccia
sconvolta a quel modo. Si rinchiuse in camera e si pose a dar le volte
del leone su e giù, senza parlare, senza domandar nulla, senza nemmeno
soffrire che gli si andasse a chiedere se aveva bisogno di qualche
cosa. Di mangiare non se n’è discorso nemmanco. Verso mezzanotte
vennero due signori che stettero con lui un bel pezzo, e quando se ne
andarono, il conte era ancora più sconvolto di prima. Tutta la notte
non ha fatto altro che agitarsi come lungo il giorno, e questa mattina
io dico che l’uomo che menano a morire ha una faccia più allegra e più
prospera di lui.
Matteo ebbe un tremito per tutto il corpo.
— Oh poveretto! — esclamò. — Andiamo, andiamo subito.... Non avete
pensato a chiamare un medico? Sarà bene che ne facciate venire uno
ad esaminarlo il più presto possibile.... Ma guarderò io.... ora lo
vedrò.... gli parlerò.... Andrò io stesso a prendere un dottore....
E riprese il cammino, di passo affrettato, seguito dal domestico.
E frattanto pensava con quella confusione di mente, con quell’illogico
tumulto che dànno una paura disperata, l’imminenza di una sventura
irrimediabile.
— Chi sa?... Forse sarebbe una vicenda opportuna l’assalto di una
buona malattia.... che non ne mettesse in pericolo la vita.... oh
no!.... ma che lo isolasse per qualche tempo dalla società, dal resto
del mondo.... Veglierei io perchè questo isolamento fosse come si
conviene... Parlerei al medico.... so già chi andare a cercare....
con vistosi regali gli farei dire quello che mi piacerebbe.... Sì,
sì: e poi nella convalescenza, quando la volontà resta più debole,
il carattere più cedevole, lo indurrei a partire.... E frattanto nel
tempo della malattia potrei preparare.... aggiustare le cose....
Ricorrerò certo al conte Ernesto: me gli getterò ai piedi: egli è
tanto generoso!... Avrà compassione.... mi assisterà!... E durante la
malattia, Alfredo mi vedrà così devoto, così amorevole che.... forse...
s’intenerirà.... Se potesse nascergli in cuore un po’ d’affezione
per me!... Chi sa!... Potremo forse farlo decidere a partire per la
Francia, per l’Inghilterra, per dove vuole.... co’ suoi denari potrà
sempre vivere bene dappertutto.... E se mi concedesse di seguitarlo,
come suo intendente, come suo servo.... e poterlo veder sempre!...
Mentre agitava turbinosamente nel suo cervello questi sconclusionati
pensieri che dall’eccesso della disperazione lo facevano passare
all’audacia d’una speranza poco meno che assurda, giunsero alla casa
del conte.
— Presto, presto, — disse il servo che venne ad aprire alla loro
scampanellata, — vada avanti presto, sor Arpione, che il conte non fa
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