Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 06

dispiacere al dolore che proverà quel buon Giulio, e che avrei voluto
risparmiargli. Certo, se non si fosse trattato di lui, sarei stato
io tuo avvocato zelantissimo.... Ma la conclusione, che è ciò che più
ti importa, si è che non hai avuto bisogno d’altri avvocati, e la tua
causa l’hai vinta.
Alfredo sentì un brivido delizioso di gioia scorrergli per tutte le
vene.
— Dunque.... — disse tremando e con voce ansante: — la signorina
Albina?...
— Fu sempre pensiero di tutti noi, di nostra madre la prima, lasciarla
libera nella scelta della sua sorte... beninteso entro certi limiti....
Alcune apparenze ci avevano ingannati.... In breve, ora qui io t’ho
accolto come pretendente: uscendo di casa nostra protrai essere il
fidanzato di mia sorella.
Camporolle tacque un momento per dominare la sua tanta emozione; prese
un aspetto grave, e con voce ferma e improntata d’una certa solennità,
disse poi:
— Ernesto, giuro che farò ogni cosa in mio potere, perchè nè la
contessina, nè alcuno della tua famiglia abbia mai da deplorare di
avermi creduto degno di tanto onore e di tanta felicità, e confido
che riuscirò nel mio intento. Ecco quanto posso far io personalmente;
quanto alle altre materie da trattarsi, tu mi indicherai il notaro
della tua famiglia, e con esso un altro incaricato da me, a cui
comunicherò tutti i documenti e che informerò esattamente delle mie
condizioni, domestiche e finanziarie, aggiusterà tutto quanto riguarda
le cose d’interesse; ma sento il bisogno di dichiarare fin d’ora che
io nella sposa di cui ambisco sì ardentemente la mano, non cerco, non
voglio cercar altro che la fiducia e l’affetto....
Ernesto l’interruppe.
— Di tutte codeste cose che sentono l’abbaco, hai ragione tu, bisogna
lasciar parlare ai nostri notai... Ora, se lo desideri, possiamo andar
di là nel salotto di mia madre.
Se lo desidero! — esclamò Alfredo, lo sguardo sfavillante e
congiungendo le mani quasi in atto di preghiera.
Il conte di Valneve gettò nel caminetto il sigaro e suonò il campanello.
— Domandate alla contessa, — disse al domestico che si presentò
all’uscio, — se può ricevere in questo momento il conte di Camporolle e
me.
Il servo s’inchinò e ripartì.
Successe un momento di silenzio; Alfredo cercava col cervello in
tumulto delle frasi da dire, e non trovava nulla: Ernesto, preso
di sopra la caminiera un paio di guanti, se li calzava, guardando
distrattamente le braci nel focolare.
Il domestico tornò e disse:
— La signora contessa li aspetta.
Ernesto passò il braccio su quello di Alfredo e s’avviarono insieme;
traversate un’antisala, il gran salone, una stanza di mezzo,
penetrarono nel salottino particolare della contessa Adelaide.


XIV.

La contessa era sola, seduta sopra un seggiolone presso alla tavola di
mezzo, su cui stava accesa una grossa lampada di porcellana dipinta,
senza ventola, illuminando molto vivamente il non ampio salotto. Volse
verso i due giovani che entravano il capo già incanutito, ma sempre
eretto con fiera eleganza, il volto pallido e corso da rughe, ma bello
sempre di nobile espressione, gli occhi pieni di benevola cortesia, e
rispose con un grazioso cenno ai saluti degli arrivanti.
Anche in lei si sarebbe potuto notare una qualche preoccupazione, un
leggero turbamento, un’ombra, direi quasi, ma proprio niente più che
un’ombra di malavoglia.
Sul tappeto elegantissimo che copriva il tavolo stava un libro aperto
e voltato al rovescio, colle pagine sotto e in su la copertina
riccamente rilegata in cuoio con dorature. Pareva che la contessa
avesse interrotta allor’allora una lettura che stesse facendo; ma in
realtà era da più di venti minuti che quel libro giaceva abbandonato in
quel modo, e che lo sguardo della signora stava fisso innanzi, sulla
parete, dove pendeva un dipinto chiuso in una cornice ovale di legno
scolpito: un ritratto anche quello del fu conte-presidente. L’amorosa,
inconsolabil vedova aveva volute presenti le sembianze del perduto
marito in ogni stanza dove ella passasse più solitamente le ore della
sua vita: nella camera da letto, nel proprio salotto e nel gran salone.
E questo ritratto di fronte a cui sedeva, ella, ora, prima di venire
interrotta dall’arrivo dei due giovani, lo stava guardando con una
specie di insistenza interrogativa, quasi volesse da quello attingere
alcun che da sciogliere certi dubbi, quasi ne aspettasse una parola,
un cenno che le spiegasse cosa che non comprendeva e che si turbava un
poco di non comprendere.
Appena scambiati i saluti, la contessa fece segno ad Alfredo di sedere
sul piccolo sofà, che stava appunto sotto il ritratto del defunto di
lei marito, e si volse verso di lui così da vederne di pieno il volto
nettamente illuminato dai raggi della lampada.
A togliere l’impaccio dell’entrata in argomento e la sgradita
esitazione delle prime parole, Ernesto cominciò subito a dire in questo
modo:
— Madre, ho parlato al conte di Camporolle. Egli, malgrado la
lettera che io gli ho scritto e che ora ho disdetto, ci fa l’onore di
ridomandare la mano di Albina, e io lo conduco qui innanzi a Lei, dopo
avergli lasciato sperare che la risposta della contessa di Valneve
sarebbe stata favorevole.
La signora non rispose subito: i suoi occhi erano di nuovo fissi sul
ritratto. Non fu che un momento, ma pure, ad Alfredo parve di passare
per una lunga angoscia di aspettazione. Ella abbassò lo sguardo
dal dipinto alla figura del giovane e disse a sua volta con un po’
d’emozione:
— Le parole che ha udite da mio figlio primogenito, le ritenga pure
dette da me.
Alfredo si alzò; avvicinatosi alla contessa, ne prese la destra e la
baciò con umile rispetto.
— Contessa, — rispose, — ho innanzi a me tutta la vita d’un giovane
di venticinque anni per ringraziarla; e non sarà abbastanza, in
proporzione alla felicità che Ella mi accorda.
C’era tanta verità di sentimento, tanto simpatica espansione in queste
poche parole, che la madre di Albina fece al giovane innamorato un
sincero sorriso di benevola approvazione.
— Or dunque, — soggiunse con una tinta di allegria nell’accento, —
conviene presentarla alla sua sposa, signor conte di Camporolle.
A quel nome di sposa, Alfredo fu scosso di nuovo da un fremito di
piacere; s’inchinò profondamente senza poter parlare. La contessa si
volse al figliuolo:
— Fa venire Albina: — gli disse.
— Vado io stesso apprenderla: — rispose Ernesto alzandosi sollecito, e
uscì dal salotto.
Donna Adelaide scoccò uno sguardo penetrante su Alfredo e con maggiore
vivacità e confidente domestichezza, interrogò:
— Lei ama davvero e molto la mia Albina?
— Oh con tutta l’anima! — proruppe il giovane, la voce, gli sguardi,
l’aspetto pieni di fuoco: — tanto, veda, che non oserò mai dire neppure
alla contessina, che non sono capace di esprimere neppure ora qui,
a Lei, la cui squisita bontà mi incoraggia così generosamente. Io
non vivrò che per essa: ogni mio atto, ogni volontà, ogni pensiero
dipenderanno da Lei soltanto...
La contessa guardava di nuovo il ritratto.
— Ah possa Ella amare e render felice la figliuola, come colui che ci
guarda da quella tela amò e fece felice la madre!
Camporolle si volse egli pure a quel dipinto.
— Farò ogni mio possibile per ciò, lo giuro per la santa memoria
del genitore della contessina; a quella santa memoria domanderò le
ispirazioni, ed Ella, contessa, che avrò la fortuna di chiamar madre
io pure, Ella vorrà aiutarmi e suggerirmi co’ suoi consigli, co’
suoi ammonimenti. Oh creda che, in ogni cosa e tanto più in quanto
riguarderà la felicità della mia compagna, Ella troverà sempre in me la
zelante sommessione e la sollecita obbedienza d’un figliuolo.
La contessa non ebbe tempo a rispondere che con un sorriso e un cenno
del capo: l’uscio venne aperto ed entrarono Ernesto ed Albina.
Quest’ultima era un po’ più pallida dell’usato, ma le sue fresche
guancie di diciassette anni non serbavano traccia delle lagrime che
in segreto vi erano scorse sopra; lo sguardo era velato dalle lunghe
ciglia abbassate, ma gli occhi non erano più arrossati dal pianto che
avevano pur versato, non visti, con tanta amarezza. S’avanzò sicura,
con una certa alterezza, e insieme modesta; si fermò presso la madre e
levando un poco le ciglia mandò uno sguardo non ad alcuna delle persone
viventi che lì si trovavano, ma anch’essa al ritratto di quel morto che
era stato suo padre.
— Eccomi: — diss’ella poi con quella sua voce soave come nota di flauto
d’argento, quasi per sollecitare le parole, che stavano per essere
pronunziate, come impaziente d’averle udite, d’aver finito quello per
cui era venuta.
— Albina, — disse la madre prendendole la destra; — questa tua mano
ci viene domandata dal conte di Camporolle; io e tuo fratello maggiore
gliel’abbiamo accordata e gli abbiamo fatto sperare che tu non avresti
contraddetto alla nostra risposta.
Vi fu un momento di silenzio; la fanciulla parve raccogliersi,
esitare, le sue sopracciglia si corrugarono leggermente e le labbra
quasi scolorite si serrarono; Alfredo, oppresso da inesprimibile
emozione, si appoggiò alla spalliera d’una seggiola vicina; il cuore
gli batteva così concitato che parevagli dovessero sentirlo tutti i
presenti. Albina, quasi involontariamente, come attratta da un influsso
magnetico, fece sguizzare uno sguardo verso il giovane; la vista di
quel bel volto pallido, ansioso, supplichevole, che pareva d’uomo
la cui vita dipendesse da un cenno di lei, forse valse eziandio a
rincalzare la risoluzione in lei già ferma e precisa, ma che, a quel
momento fatale di prendere un irrevocabile impegno, non trovava il
coraggio di estrinsecarsi; ella s’inchinò innanzi a sua madre, ne baciò
la mano e rispose:.
— La risposta data da Lei mia madre e da mio fratello, è la mia.
Camporolle mandò un’esclamazione che era un sospiro di sollievo, un
grido soffocato di gioia.
— Ah signorina! — disse con voce rotta e quasi affannosa: — tutto il
mio sangue pel tesoro di queste sue parole.
La contessa che aveva ritenuta con una mano quella di Albina, porse
l’altra ad Alfredo che si affrettò a porre in essa la sua destra.
— Ebbene, — diss’ella commossa guardando il ritratto del defunto
marito: — sieno questi i vostri sponsali, e questo momento per voi
solenne possa essere principio per ambedue di una felicità, quale ho
avuta io col mio povero Ernesto....
La voce le si estinse fra le lagrime; Albina le cinse colle sue braccia
il collo e baciandola, appoggiandole sulla spalla il suo bel capo,
esclamò:
— Mamma! Mamma!... Non pianga.
Alfredo sollevò fino alle sue labbra la mano della contessa Adelaide e
vi pose un lungo bacio.
La madre di Albina unì insieme le destre dei due giovani, e disse con
un sorriso che aveva qualche cosa di mesto, di rassegnato:
— Siete fidanzati.
Alfredo strinse leggermente quella manina sottile, il cui contatto,
pur traverso la pelle del guanto che gli vestiva la mano, gli faceva
tumultuare il sangue; ma nessuna stretta rispose alla sua, quella
destra verginale rimase inerte, passiva, fredda, e appena egli sciolse
un pochino le dita, si ritrasse sollecita.
Ernesto entrò allora a parlare a sua volta:
— E così io posso partirmene domattina, chè quest’affare è terminato.
Tu, Camporolle, combinerai tutto con mia madre, e quando sarà stabilita
ogni cosa del modo, del tempo, eccetera, mi scriverete subito, perchè
io possa prendere il mio permesso.
Sedettero, stettero un poco, chiaccherando più di cose indifferenti
che di quanto era allora avvenuto e che pure doveva essere fatto
importantissimo per tutti; Albina parlò poco, si mostrò nè lieta, nè
triste; vennero visitatori ed essa si ritirò senza mandare alcun saluto
speciale ad Alfredo, il quale di lì a poco se ne partì egli pure; e
non sapeva se doveva essere contento o no, ed aveva una confusione
nell’anima in cui non valeva a discernere egli stesso.
Enrico non si era lasciato vedere; ed era perchè egli aveva dichiarato
assolutamente di non approvare a niun modo quel matrimonio, e non aveva
ceduto che all’autorità del fratello primogenito. Ed ecco a questo
riguardo quello che era avvenuto.


XV.

Albina, dopo il colloquio con Matteo, stata a meditare seco stessa
quasi un’ora, aveva poi, per mezzo della signora Giustina, fatto
pregare suo fratello Ernesto di venirle a parlare; e a lui, subito,
aveva detto dovergli domandare un gran favore da cui dipendeva la sua
sorte, supplicarlo volesse proteggerla, aiutarla, sostenerla in una
contingenza gravissima, in cosa che bisognava assolutamente compiere
e per cui sentiva mancarsi essa stessa il coraggio, e troppo sapeva
che avrebbe trovato contrari tutti i suoi. Era quasi impossibile
per chiunque il risponder no ad una preghiera fatta da quella gentil
persona, con quella voce così soave, colla malìa celeste di quegli
occhi azzurri, così dolci: era impossibilissimo poi ad Ernesto,
il quale, per sua sorella, di cui conosceva per bene la elevatezza
dell’animo, l’eccellenza dell’ingegno, la generosità del cuore, aveva
una predilezione, in cui, oltre al più vivo amor di fratello, c’entrava
un poco di quello paterno e direi perfino della tenerezza d’una madre.
Egli dunque sollecitamente e con calore rispose ad Albina, parlasse
pure, e di qualunque cosa si trattasse, fosse certa del più caloroso e
zelante concorso di lui; ma ben ebbe da pentirsi di questa sua promessa
e grandissimo e spiacevole fu il suo stupore, quando la sorella gli
ebbe detto che quell’importante, difficile, dolorosa bisogna era di
rompere gl’intesi di lei sponsali con Giulio e stringerne altri invece
col respinto conte di Camporolle. Non istarò a riferire tutto il
dialogo che ebbe luogo fra i due giovani, Ernesto tentando con ogni
argomento rimuovere Albina da simile decisione, ed essa insistendo con
una tenacia e risolutezza irremovibili a qualunque ragione, perfino
alle preghiere; dirò solo che ella tanto fece, da giungere perfino a
persuadere il fratello essere vere le sue affermazioni; che, cioè,
consultato meglio il suo cuore, erasi accorta di non amare Giulio,
di amare invece quell’altro, di avere a tutta prima acconsentito alle
preghiere del cugino, perchè esso le destava compassione, e volendogli
bene davvero come a un fratello, erale doluto assai dargli una risposta
che lo facesse soffrire; ma poi, pensandoci meglio, s’era accorta che
il suo sacrificio le sarebbe stato troppo doloroso e aveva sentito
mancarle la forza di compierlo. Finì per dire che se suo fratello le
fosse mancato, avrebbe scritto direttamente essa medesima al conte di
Camporolle.
— Conte.... conte: — proruppe Ernesto. — Non sai che egli è stato fatto
tale da poco per un brevetto comprato dalla Corte pontificia, e che suo
padre era un borghese, sua madre una popolana?
Albina ebbe un piccolo movimento di spiacevole impressione, ma si
ricompose tosto.
— Ho sentito molte volte da te stesso a vantare la nobiltà del suo
carattere e il suo valore personale.
— Oh questo sì: — rispose Ernesto che non sapeva mentire.
— E dunque non ti pare che con queste doti possa ritenersi degno di
appartenere alla nostra classe?
Ernesto tacque un momento.
— Egli appartiene a un altro paese: — disse poi: — tosto o tardi vi si
restituirà ad abitarlo definitivamente, e tu dovrai separarti da tutti
quelli che ti amano.... da tua madre....
— Lo pregherò di rimanere: — rispose Albina, le cui ciglia tremolarono:
— e spero che si arrenderà alle mie preghiere; che se fosse anche
irremovibile, pazienza, sarà per me un gran dolore, ma mi rassegnerò.
La conclusione fu che Ernesto accettò lo sgradito incarico di rivelare
tutto questo alla madre e di adoperarsi a farla accondiscendere ai
nuovi propositi della fanciulla. La qual cosa non si ottenne senza
gran difficoltà; Albina fu sottoposta al più insistente e rigoroso
interrogatorio, si usarono anche dalla contessa preghiere e perfino
minaccie; ma qui pure finì per vincere il fascino irresistibile di
quella creatura così pura e leggiadra, la quale, gettatasi in ginocchio
presso sua madre, pregando invocò anche la protezione dello spirito
paterno.
Chi non cedette, chi non si lasciò vincere in nessun modo, fu Enrico.
Per lui una _mésalliance_, come la chiamava, era qualche cosa di
orribile, d’inaccettabile, e non ci volle poco, da parte del fratello
e poi della madre, i quali dovettero mettere in campo tutta la loro
autorità, per impedire che egli cercasse rendere impossibile quel
maritaggio con qualche atto di sfregio o di violenza contro Alfredo.
Rimaneva il povero Giulio, a cui s’aveva da comunicare una sì brutta
notizia; Albina domandò vivamente che a lei si lasciasse quel penoso
còmpito; ella conosceva per bene l’animo e l’amore del cugino, ella
sperava che avrebbe saputo trovare parole da rendergli meno dolorosa
il colpo e più valido il coraggio; e la contessa acconsentì a questo
desiderio della figliuola. La quale mandò subito al giovane due righe
di suo scritto.
«Caro Giulio, non venire stassera; vieni invece domani mattina più
presto che puoi. Ho da parlarti lungamente, gravemente: da fare appello
alla tua generosità, al tuo affetto, alla tua fiducia in me. — ALBINA.»
Questo biglietto pose in tumulto l’anima del giovane, che naturalmente
passò tutta la notte fantasticando, inquieto, ansioso, tormentato da
mille dubbi e paure.
Il mattino seguente egli fu alla stazione della via ferrata all’ora
della partenza del primo treno per Genova, col qual treno egli
sapeva che il cugino Ernesto doveva lasciar Torino per restituirsi al
reggimento. Il maggiore delle guardie era solo, neppure Enrico non lo
aveva accompagnato. A Giulio parve che la sua vista facesse al cugino
un’impressione quasi di rincrescimento; notò nel modo di parlargli,
nell’espressione dello sguardo e della fisonomia d’Ernesto qualche cosa
di addolorato, di compassionante, e i suoi timori se ne accrebbero. Non
potè resistere all’ansietà e chiese al fratello d’Albina tremando:
— C’è qualche cosa di nuovo?... Ho il presentimento che qualche
disgrazia mi minaccia.
Ernesto che non era capace mai di dissimulare, abbracciò strettamente
il cugino.
— Albina t’ha scritto? — domandò.
— Sì.
— La devi vedere?
— Questa mattina.
— Ebbene essa ti dirà tutto.... abbi coraggio, mio caro; ricordati
che sei uomo, ricordati che sei un Sangré; e se da solo non ti
parrà possibile avere tanta forza da resistere al colpo, salta in un
treno, corri a Genova da me, e vedrai che io ti saprò trovare qualche
conforto.
Giulio rimase così stordito che glie ne mancarono le parole: Ernesto
l’abbracciò e baciò ancora una volta, gli disse ancora all’orecchio
la parola: «coraggio!» e si slanciò sul marciapiedi per allogarsi nel
treno a cui il capo-stazione dava già il cenno della partenza.
Il fischio della locomotiva riscosse il povero giovane per cui già
era certa la maggiore delle disgrazie che gli potessero capitare:
la perdita d’Albina. Si avviò lentamente verso il palazzo della zia,
sentendo ad ogni passo accrescersi lo sgomento ed il dolore, e quando
giunse alla meta gli restava appena tanto di forza da domandare al
domestico se avrebbe potuto parlare alla contessina.
— Sì, signor cavaliere, — rispose il servo — si compiaccia di passare
nel salone.
Quel salone vasto, elegante, solenne, parve a Giulio una paurosa
solitudine: ci si fermò in mezzo dubbioso ed esitante; i suoi occhi
corsero e si fermarono sul gran quadro alla parete principale:
da quella cornice dorata pareva guardarlo la dignitosa figura del
conte-presidente. Ma in quel momento il giovane credette scorgere,
anche in quel volto dipinto, un’espressione di pietà, di rimpianto
verso di lui, quale aveva visto poc’anzi sulla faccia d’Ernesto. Andò
a metterglisi innanzi a due passi, e giungendo le mani in atto di
preghiera, esclamò forte:
— O zio, Lei mi voleva pur tanto bene! Lei mi disse pur tante volte che
avrebbe voluto farmi felice!... A Lei mi raccomando. Oh non voglia che
mi colpisca la maggior disgrazia! oh faccia ch’io non abbia da perdere
Albina!
Un singhiozzo l’interruppe: egli si volse di scatto: dietro a lui a
due passi stava Albina che nascondeva il suo dolore e le sue lagrime
coprendosi colle manine il volto.


XVI.

Giulio corse sollecito dalla cugina, le abbassò le mani e vedendone le
lagrime, esclamò disperato:
— Tu piangi!... O Dio! che cosa posso io fare per asciugare il tuo
pianto?... Oh dimmelo, se pure io ci posso qualche cosa.
Albina ricacciò indietro le lagrime, diede alla profonda mestizia del
suo volto un’espressione tranquilla e risoluta, e tenendo strette fra
le sue le mani del giovane, rispose:
— Sì, tu puoi cessare il mio pianto, tu puoi confortarmi nel mio
dolore, ed è mostrandoti tu stesso coraggioso, fermo, sereno innanzi
alla disgrazia che ci colpisce.
— Ma qual è questa disgrazia? C’è qualche cosa che ci separa?
E il giovane fissava ansiosamente lo sguardo sul volto di lei. Albina
tolse via le mani da quelle di lui, si ritrasse un poco, e rispose
abbassando le ciglia mestamente:
— Sì.
— Che cosa? che cosa?
Albina scosse il capo senza rispondere; non poteva parlare.
— Dimmelo, dimmelo: — insisteva con calore Giulio: — ci sarà pure
qualche cosa da potersi fare... io mi sento forza e coraggio per
qualunque prova... Vuoi che mi lasci rapire ogni bene, vuoi che mi
lasci assassinare così, senza difendermi, senza lottare, senza neppure
levare un dito?
— Ah, caro Giulio!... Il colpo della sorte è proprio così crudele che
non si può evitare, che non c’è schermo che valga, che non c’è nulla da
fare fuor di sopportarlo con forza e rassegnazione...
Giulio si strinse forte il capo, come se volesse tenervi la ragione che
gli pareva scapparne.
— Si tratta di dividerci! Si tratta di perderti! — esclamò con accento
pieno d’angoscia: — e tu mi parli di forza e di rassegnazione!...
Ma no che per codesto io non ne ho, non ne posso avere... Perderti!
Dopo avere creduto di possedere la felicità, vedersela tôrre!... E
perchè?... Senza che me lo si dica questo perchè... O Dio! la testa mi
si smarrisce... Dà retta, Albina, io voglio pure parlare con calma...
Ragioniamo: vedrai che ciò è impossibile. Io non aveva più di dieci
anni che già il tuo pensiero riempiva tutto il mio piccolo cervello,
l’affetto per te occupava tutto il mio cuore. Io, mia madre, non la
conobbi; mio padre, appena se me lo ricordo; amai dimolto il buon zio,
la zia, i tuoi fratelli, ma più di tutti, di tutto, sempre amai te;
l’amore che avrei avuto per mia madre lo posi in te, quello che avrei
sentito per padre e fratelli, concentrai tutto in te; adulto sentii
che t’amavo con una passione che assorbiva ogni mia facoltà, ogni mio
pensiero, ogni mia ambizione... Non te ne ho mai detto nulla, anzi
lo nascondevo accuratamente a ogni altro e a te stessa... Avevo tanto
timore!... Ho pensato perfino un momento di fuggir lontano... Ma ecco
invece che una fata benigna viene a darmi d’improvviso la maggior
felicità ch’io avessi mai osato sognare... E poi, subito, quando appena
io sono riuscito a persuadermi che quella felicità non è un sogno,
ecco piombare qualche cosa di misterioso, che io debbo ignorare, che
mi si afferma irrevocabile e per cui quella mia felicità svanisce e
a me viene tolta ogni speranza... No, no, questo non può essere, non
deve essere... Se un nemico è sorto fra me e te, io lo combatterò; se
un ostacolo s’è incontrato, io lo distrurrò... credilo... me ne sento
la forza. L’amore che ho per te e l’acutezza del dolore che provo mi
fanno capace di qualunque maggior prova, te lo giuro... Dimmi tutto: ho
ragione, ho diritto di saperlo!
La fanciulla rispose con accento di doloroso rimprovero:
— Credi tu dunque di esser solo a soffrire?... Senti Giulio! Son
passati due soli giorni ch’io sono venuta da te e ho posto liberamente
la mia nella tua mano e t’ho detto che io pure avevo sempre associata
la tua immagine ai sogni del mio avvenire... Credi tu ch’io abbia
allora potuto ingannarti?
— Oh no! — esclamò con forza il giovane.
— E se io rinuncio a quei sogni, credi tu ch’io lo faccia senza esservi
costretta e senza soffrire? E puoi supporre ch’io t’inganni quando
t’affermo che una ragione potente che tu non puoi sapere mi obbliga a
questo sacrifizio?
— Ma il sacrifizio per me è ora insopportabile... Ah! tu non m’ami come
t’amo io...
— E che ne sai tu? — proruppe con forza la giovane cui l’emozione fece
arrossire fino la fronte.
Quel grido dell’anima d’Albina giunse fino al fondo del cuore di Giulio.
— Oh perdono! — esclamò egli, prendendo la mano di lei e baciandola
commosso: — ti credo Albina... credo al tuo amore... credo al tuo
sacrificio, ma io no, non ho la forza che hai tu...
— L’avrai... Bisogna che tu l’abbia!... Ho voluto parlarti io stessa
apposta per chiedertela, per supplicartene, per infondertela... Noi ci
amiamo Giulio e bisogna che siamo separati... per sempre!
— Sempre! — ripetè con un grido di dolore il giovane.
— Tu m’ami, e bisogna che tu t’allontani da me, e non mi veda più...
almeno per lungo, lungo, tempo...
— O Albina!
— Io t’amo... sì t’amo... e bisogna ch’io prenda il nome d’un altro...
Giulio soffocò fra i denti una parola che pareva quasi una bestemmia.
— Un altro! — gridò: — tu sarai d’un altro! E quest’altro, lo indovino,
sarà il conte di Camporolle?...
Albina curvò mestamente il capo.
— E non l’ami colui?... Tu puoi giurarmi che non l’ami?
Ella sollevò vivamente la testa e fissò franca e sicura i suoi occhi in
quelli di lui.
— No, — rispose, — non l’amo: ama te, te solo Giulio.
— E lo sposi?
— E lo sposo: — soggiunse la fanciulla con un’amarezza angosciosa: —
e ho detto alla madre e ai fratelli che lo voglio sposare perchè lo
amo... E sono qui con te per dirti: non è vero, non l’amo, ma devo
farlo credere, ma voglio che lo si creda da tutti... fuori che da
te... E tu hai da tacere, hai da fingere di crederlo tu pure... hai da
allontanarti... portando teco il mio cuore, la mia felicità, tutto il
bene della mia vita...
— Ma perchè? ma perchè? — esclamò di nuovo Giulio tormentandosi i
capelli: — ma io ci perdo la testa... Quello sciagurato ti si è dunque
imposto?... Ma come? Che cosa ha fatto?... Ma giuro al cielo, qualunque
sia la sua arma, io gliela spezzerò nelle mani... spezzerò lui
medesimo, o egli mi ucciderà...
— Ah no! — interruppe Albina con un vero grido di spavento.
— Non vedrò in nessun modo la felicità di colui...
— No, Giulio, — riprese la fanciulla afferrandogli una mano, — non
accrescere le mie pene... Ti dico che la cosa è irrimediabile...
Guarda! Colui ti deve esser sacro... per amor mio... La sua morte non
salverebbe nulla... anzi precipiterebbe forse la disgrazia ch’io voglio
risparmiare... La tua poi?... O Giulio, la tua!...
Non potè continuare: si abbandonò al seno dell’amato giovane, vinta
dalla soverchia emozione e pianse di nuovo. I cuori dei due giovani
palpitavano forte l’uno sopra l’altro. Giulio chinò il volto su quella
bella testolina che gli appoggiava la fronte sulla spalla e ne baciò
lievemente i capelli dorati.
— O Albina! — susurrò dolcemente: — la mia vita è tutta tua, fanne
quello che vuoi... La condanni ad essere sempre infelice... accetto la
condanna anche a costo di morirne... T’amo tanto, tanto!
Essa sollevò quella sua candida fronte da cui raggiavano la purezza e
la nobiltà dell’anima più eletta; fissò le sue pupille in cui c’era un
vero riflesso di cielo in quelle di lui e disse fermamente, soavemente:
— Amami, Giulio!... Non ho il coraggio di dirti: dimenticami. Amami,
e vivi... ma allontanati da me... Una Sangré di Valneve non inganna,
non tradisce... e il vederti sarebbe per me troppo dolore... Tu mi
comprendi, non è vero?... Tu non vorrai turbare la tranquillità della
mia coscienza.