Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 10

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ha suscitate, dichiarare insussistenti le mosse accuse, non lasciar
avvenire il duello e far affrettare anzi le nozze....
— Davvero? — esclamò con insolente ironia il marchese.
— Sono venuto a pregarla di tutto ciò.... ed ella mi ubbidirà....
— Ah sì! — interruppe Respetti, nel cui accento cominciava a fremere la
collera.
— Sì, — soggiunse affrettatamente e audacemente l’Arpione, — perchè io
tengo in mia mano quanto può offuscare l’onore di suo padre, l’onore
del suo nome....
Il primo sentimento di Ernesto Respetti-Landeri alle parole di Matteo
fu di stupore; credette aver male inteso: tese un poco il collo verso
quell’uomo e con quell’accento di finezza aristocratica, beffarda
ed elegante, che hanno coloro che appartengono a famiglie nobili e
primeggianti da secoli, disse:
— Voi avete detto?... Non ho capito bene... Abbiate la compiacenza di
ripetere.
Arpione, imperturbabile, risoluto, ripetè esattamente le parole che
aveva pronunziate. Allora una viva collera si accese nell’animo di quel
discendente d’una lunga sequela di nobili gentiluomini.
— Miserabile! — gridò: — tu osi parlare dell’onore del mio nome,
dell’onore di mio padre, e dirmi che hai in mano di che offuscarlo?
La sua collera diede giù tutto a un tratto; guardò il vecchio usuraio
con una specie di compassione derisoria, come si fa ad un folle che
commette qualche stranezza o ad un sciocco che inciampa in una grossa
balordaggine, poi ruppe in una risata di scherno e di disprezzo.
— Ah povero Arpione! — disse crollando il capo, — che infelice
ispirazione avete avuta di venire da me a tentare qualche vostro
scellerato ricatto con mezzi di codesto genere!... Perchè non dubito
punto che si tratti di un ricatto di vostra foggia. Mi conoscete ben
poco, e smentite tutta la vostra accortezza a conoscermi così poco, se
avete pensato un solo momento che minaccie di tal fatta potessero fare
il menomo effetto su di me, che so bene il mio onore, quello di mio
padre, tanto sicuro, tanto in alto da non poterci arrivare a gettarvi
pure uno spruzzo di fango la temeraria tristizie di nessuno, e tanto
meno la vostra.
Matteo non si rifece umile come il Respetti credeva che avvenisse,
rimase fermo a capo levato e insistette con parola risoluta.
— Eppure creda, signor marchese...
Questi lo interruppe con impazienza in cui tornava a fremere fa collera.
— Olà! — gridò, — posso non perdonare, ma dar passata con disprezzo
a simili infamie uscenti dalla vostra bocca che suonino una volta;
ma, seguitando a disprezzarle, pur le punirò severamente se hanno lo
scellerato coraggio d’insistere.
L’usuraio osò alzare anch’egli il tono della voce.
— E s’io, — disse sfacciato, — le mie parole vengo a provarle con
documenti?
— Documenti! — ripetè il marchese, vieppiù irritato da quell’impudente
insistenza. — Che documenti?
— Una dichiarazione dell’illustrissimo signor marchese, suo padre,
proprio di lui medesimo.
Rispetti venne rosso fino a’ capelli.
— Uno scritto di mio padre, che compromette il suo onore, nelle vostre
mani?... Voi mentite!
Queste ultime parole furono dette con tale scoppio di indignazione, con
tale energia di sentimento, che l’Arpione indietrò di due passi, quasi
impaurito.
— No signore, — rispose pur tuttavia, — e quel documento l’ho qui meco
da poterglielo mostrare.
Il marchese ebbe un sussulto di tutta la persona, parve volersi
gettare addosso a quell’uomo dalle cui labbra uscivano parole che gli
erano come colpi di flagello sul viso: si contenne a forza, strinse
le braccia al petto per frenare il pulsar del sangue concitato del
cuore, per acchetare un poco il tumulto nel petto, e guardando il suo
interlocutore con occhi di bragia, disse pacato, a voce sorda e labbra
frementi:
— Ebbene, mostratemelo.
Matteo lo guardò un poco sospettoso e pauroso, poi s’allontanò ancora
d’un passo, fece un atto di consentimento senza parlare, depose per
terra il cappello unto e frusto che aveva sin’allora tenuto in mano,
e, covando sempre con occhio diffidente il marchese, come se temesse
ch’egli da un momento all’altro avesse da slanciarsi su di lui a fargli
violenza, prese in tasca il portafogli e da questo trasse fuori un
mezzo foglio di carta ingiallito dal tempo.
— Ecco qui: — disse.
Il Respetti sciolse le braccia, tese avidamente le mani e d’un balzo
fu presso all’usuraio per afferrar quella carta; ma l’altro, in sulle
guardie, la ritrasse e la riparò dietro il suo corpo.
— Un momento! — esclamò. — Ella deve capire che questo è per me un
tesoro preziosissimo, e ch’io non posso privarmene se non dopo avere
ottenuto tutto quel compenso che desidero, che pretendo.
— Lasciatemi vedere; — proruppe il marchese, bollente d’impazienza.
— Comincierò per mostrarle la firma. Ella non potrà a meno di
riconoscerla per genuina ed autentica del fu signor marchese, e
così non avrà più dubbio nessuno sulla importanza e veridicità del
documento.
Piegò la carta in modo che si vedesse dello scritto niente più della
segnatura, e tenendo il foglio bene stretto in mano, lo pose così sotto
gli occhi del marchese.
La firma scritta con mano incerta, in modo stentato, diceva pur
tuttavia chiaramente: _M.ese Leonzio Respetti-Landeri_.
— La riconosce? — domandò Matteo.
— Sì, pare la scrittura di mio padre, — rispose lentamente il marchese
osservando bene, non già inquieto, che in lui non poteva sorgere pure
un dubbio sull’incontaminatezza dell’onore paterno, ma dispiacente
di vedere un foglio colla firma del padre in mano di quell’individuo
spregievole e disprezzato.
— È... è davvero: — disse l’usuraio con una specie di trionfo. —
Qualunque perito la riconoscerebbe, la proclamerebbe per vera; e poi
ci sono, in questa carta medesima, come vedrà, altre ragioni che lo
provano. La mano che ha tracciato questi caratteri era mal ferma e
stentata nel muoversi, ma ella sa che negli ultimi tempi della sua
vita, il marchese Leonzio, ridotto quasi completamente paralitico, non
poteva scrivere altro più che la sua firma e ancora con difficoltà,
e questa carta egli l’ha sottoscritta, come lo dimostra la data che
vedrà, l’ultimo giorno in cui visse; anzi io so, essendo allora appunto
presso di lui, che ebbe appena tempo di finire di scriverla, quando fu
assalito da quell’accesso che gli fu mortale.
Le parole del vecchio, senza scuotere menomamente la fede nel marchese,
lo turbarono assai, ricordandogli la morte paterna a cui egli lontano
non aveva potuto assistere, ricordandogli che appunto negli ultimi
mesi della grave infermità, quando il padre avrebbe avuto maggiormente
bisogno delle cure figliali, egli se ne stava fin laggiù a Pietroburgo,
lieto, tranquillo, a godersela, e quelle cure amorose che erano sacro
dovere di lui figliuolo, erano date all’infermo dall’amico e cugino il
conte-presidente, pietosissimo, amorevolissimo fino all’ultimo di lui
respiro.
Si passò una mano sulla fronte e sugli occhi, poi sommesso, ma con una
certa imponenza di comando:
— Insomma volete lasciarmelo leggere quello scritto?
— Lo leggeremo insieme, se non le dispiace: — rispose Matteo, tornando
a un tratto umile come il suo solito.
Spiegò il foglio, e tenendolo bene colle due mani, per rendere
impossibile che uno strappo glie lo levasse, lo pose innanzi agli occhi
del marchese.
Questi, appena vi ebbe gettato uno sguardo, esclamò:
— Ma quella è la scrittura del conte-presidente!
— Sì signor marchese: — soggiunse tutto dolcereccio l’usuraio. — E
questa è appunto una delle ragioni che io diceva or ora provare sempre
più l’autenticità della firma, perchè l’illustrissimo signor conte
Sangré di Valneve non avrebbe scritto quanto qui si legge, se non per
espressa volontà del marchese, e se non approvato dalla segnatura del
medesimo.
— Ma vediamo... vediamo che cos’è — disse impaziente il Respetti: e
Matteo si mise a leggere piano, ma con voce chiara, mentre lo sguardo
del marchese veniva seguendo la lettura sullo scritto, parola per
parola.


XXIV.

Quella carta diceva così:
«Ernesto, figliol mio, tu riparerai la colpa di tuo padre; morirò più
tranquillo, pensando che tu te ne farai un sacro obbligo....»
— La colpa di mio padre! — interruppe a questo punto il marchese tutto
sconvolto. — Ma che colpa, gran Dio?
E Matteo freddo freddo, con un’umiltà e sommessione che avevano ancora
più insolenza del piglio audace di poc’anzi:
— Ecco: la prova scritta qui subito.
E continuò a leggere:
«Tu non solo, appena ne sarai in grado, restituirai a Giulio le
cinquanta mila lire affidatemi da suo padre, mia farai a quel fanciullo
da fratello maggiore, da padre, ti adoprerai in ogni modo perchè la sua
vita sia felice. Ciò ottenendo, forse l’animo di Armando mi perdonerà
del tutto il mio fallo.»
Un tumulto doloroso, terribile invase la mente del marchese. Capiva e
non voleva capire; gli pareva di sognare e sentiva che pur troppo era
una realtà che l’opprimeva. Non poteva credere, e il tono affermativo
e quasi solenne di quelle parole e la mano di scritto del fu
conte-presidente e la firma di suo padre non glie ne lasciavano dubbio.
Si cacciò le mani nei capelli ed esclamò come parlando a sè stesso, con
accento che rivelava la più fiera angoscia:
— Ma che vuol dir ciò?... Come spiegare questo enimma?
E l’usuraio con quella sua crudele freddezza, vestita delle mostre più
umili del rispetto:
— Avrò l’onore di spiegarglielo io, se la S. V. si degna di
permettermelo.
Ernesto Respetti fece una mossa del capo che l’altro s’affrettò ad
interpretare per un atto di consentimento, e subito continuò:
— Il fu illustrissimo signor marchese Leonzio, per varie cagioni che
ora è inutile enumerare, si trovò in un punto gravemente imbarazzato a
far onore ai suoi impegni.
— Lo so pur troppo, — interruppe il marchese, — e voi foste una delle
cause dei suoi dissesti finanziari....
— Mi scusi, io lo aiutai parecchie volte a trarsi fuori dalle peste....
— Ma in che modo!... Via, ora non si tratta di ciò. Continuate.
— In quel momento terribile ch’io dico, se il marchese Leonzio non
trovava cinquanta mila lire, gli piombavano addosso il sequestro,
l’asta pubblica e perfino l’arresto personale.
— Oh! — fece trasalendo Respetti.
— Sissignore.... Per evitare tanto danno e tanta vergogna, il marchese,
che possedeva una somma affidatagli dal cavaliere Armando Sangré,
prima di partire, appunto la somma che a lui occorreva per salvarsi, la
prese....
Il figliuolo del marchese Leonzio saettò uno sguardo incisivo, acuto,
sulla faccia di cartapecora dell’usuraio.
— Ma come sapete voi tutto questo, sor Matteo?
Il colpo era buono e ben tirato; il vecchio, quasi urtato in pieno
petto, ne vacillò, confuso un momento, ma non tardò a riprendere il suo
equilibrio e la sua sicurezza.
— Com’Ella sa, — rispose, — io era informato completamente degli affari
e degl’interessi dell’illustrissimo signor marchese, e sapevo fors’anco
meglio di lui in quali acque si trovava...
— E sapevate pur anco che nostro cugino, il cavaliere Armando, aveva
affidato a lui quella somma?
— No signore, codesto non lo sapevo; ma l’ho indovinato benissimo
quando, avendo visto che il marchese aveva pagato senza che mi
constasse aver egli preso a imprestito denaro da nessuno, finalmente mi
cadde tra mano questa sua dichiarazione.
— Ah quella carta! — esclamò il Respetti, la cui mente cominciava a
tornare in calma e a guardare con più freddezza le cose. — Anzi tutto,
terminiamone la lettura, e poi ne discorreremo alcun poco.
Lo scritto si conchiudeva nel modo seguente:
«Tutto quanto precede, pregato da me, scrisse, sotto mia dettatura,
l’affezionatissimo mio amico e congiunto il conte-presidente Ernesto
Sangré di Valneve, e tu, figlio mio, la riterrai come scritto da me
stesso, di mia propria mano.»
E più sotto la data e la firma.
«Torino, 20 ottobre 1843.
«LEONZIO RESPETTI-LANDERI.»
Il marchese, poichè Matteo ebbe finito di leggere, impugnò il braccio
di lui e lo tenne fermo per impedirgli di ripiegare la carta e riporla
nel suo portafogli, com’e’ voleva fare, e scorse di nuovo da capo a
fondo quello scritto con occhi intenti, quasi volendo stamparsi nella
memoria parola per parola quella pagina.
Poi lasciò andare il braccio dell’usuraio, si fregò la mano col
fazzoletto profumato, come per ripulirla da un untume che le
avesse lasciato il contatto del panno di quella manica, e si mise a
passeggiare lentamente a capo chino su e giù dello stanzino, senza
mostrare menomamente di badare alla presenza di Matteo.
Questi ripose accuratamente nel suo portafogli la carta preziosa, si
chinò, riprese per terra il cappello che vi aveva deposto e stette
ritto, immobile, muto, ad aspettare, seguendo collo sguardo il marchese
che andava e veniva.
In quel momento l’uscio si aprì e comparve la faccia bella e sorridente
della marchesa Sofia.
— Vieni a pranzo, Ernesto, — diss’ella, — è già servito in tavola.
Il marchese si fermò sui due piedi; ben fece tosto ogni sforzo
per iscacciare dalla fisonomia ogni traccia di preoccupazione, ma
il turbamento e la pena erano troppi in lui per poterci riuscire
completamente, massime allo sguardo amoroso della sua compagna; abbozzò
un sorriso e rispose coll’indifferenza maggiore che seppe fingere:
— Abbi pazienza, Sofia; anzi, senz’aspettarmi, comincia pure a
pranzare, che poi io ti raggiungerò. Ho un certo affare... piuttosto di
premura, da terminare qui.... con Matteo.
La moglie s’avanzò un po’ inquieta, guardando con occhio scrutatore in
faccia un dopo l’altro i due uomini.
— Qualche contrarietà?.... Qualche dispiacere? — domandò.
— No, no, — s’affrettò a rispondere il marito, riuscendo questa volta a
fare un sorriso affatto rassicurante. — Non è che un piccolo conto...
vecchio, molto vecchio.... un arretrato dell’eredità di mio padre....
che devo aggiustare con costui.... Mi preme uscirne.... e dopo tanti
anni, capirai che ci vuole un po’ più di tempo e di pazienza a venire a
capo di definire a mutua soddisfazione la faccenda.
La marchesa gettò uno sguardo un po’ sospettoso, un po’ di cattivo
umore sull’ignobile figura dell’usuraio, e disse con tono fra di
rimprovero, fra di rincrescimento:
— Se non si può proprio rimandare a più tardi; se d’una cosa che è
in pendenza da tanti anni, ora c’è proprio premura di venirne alla
conclusione senza il menomo indugio, sia pure: aspetterò anch’io, ma
guardate almeno di far presto.
Rivolse ancora uno sguardo a Matteo che s’inchinava fino a terra senza
parlare, al marito che colla solita galanteria l’accompagnava fino
fuor dell’uscio dicendole amorevoli parole, e si ritirò persuasa che
l’oggetto di cui si trattava era più grave di quello che il marchese
volesse farle credere.
Ma intanto questa venuta della moglie aveva suscitato nella mente
di Ernesto Respetti un ricordo, che veniva a porgere nuovo elemento
di congetture, per cui tentare di comprendere, di metter ordine, di
veder lume in quel caos, in quel buio che gli avevan messo dinanzi
la dolorosa rivelazione di quel fallo paterno e il modo con cui tal
rivelazione gli era fatta. Era il ricordo di quelle cinquantamila lire
che Albina s’era procurate da Sofia, e che poi egli aveva le prove aver
essa mandate a Giulio. Evidentemente c’era una connessione fra questi
due fatti. Albina aveva ella saputo di quel danno fatto al cugino e
aveva voluto ripararlo? Ma come? Ma da chi? E perchè? Mille confusi
pensieri s’affollavano in capo al marchese. Aveva davanti Matteo;
bisognava ch’egli non lo lasciasse partire senza averne tratta tutta la
verità. Gettò un’occhiata su quella figura sorniona che lo guardava di
sottecchi e si disse che bisognava usare tutta la maggior prudenza e
accortezza. Andò a sedersi tranquillamente sopra un seggiolone e fece
segno all’usuraio che gli si avvicinasse.
— Voi, Matteo, — cominciò egli affatto pacato in vista, — siete dunque
venuto qui da me, armato di quella carta, a propormi un contratto?
È necessario, perch’io possa decidermi, che mi sveliate tutte e
chiaramente le vostre intenzioni e le vostre pretese.
— Le ho già detto tutto quel che desidero: impedisca il fatal duello;
aiuti a compirsi ed affretti il matrimonio del conte di Camporolle
colla contessina Albina, e questo pezzo di carta, la cui esistenza è
ignorata da tutti, io lo consegno nelle sue mani.
— Va benissimo: — disse il marchese, dominando sempre a meraviglia
le molteplici, varie, complesse emozioni che agitavano il suo cuore,
e mostrandosi solamente grave e pensoso come chi riflette sopra un
importante partito da prendersi. — Ma voi ci dovete pure avere un
interesse in tutto questo.
Matteo fece un movimento, e Respetti con vivacità, senza lasciarlo
parlare:
— Oh non vorrete, spero, neppur tentare di persuadermi che facciate
cotanto per alcuno, senza che ci abbiate qualche utile vostro
personale.... Non cercherò quale possa essere codesto utile; ma
vi dirò: se provassimo a ridurlo in cifra, qual somma vi parrebbe
bastevole a rappresentarlo? Non avete che da dirmela, e io ve la farò
avere.
Il vecchio non si dimostrò nè stupito nè offeso della proposta che
contenevano tali parole; rispose tranquillo e serio:
— Mi rincresce; ma non posso proprio davvero accettare transazione
alcuna. Mi offrisse anche i milioni dei Rothschild, io risponderei
sempre: quando Ella abbia impedito quel duello e fatto stringere
quel matrimonio, riceverà questa carta senza dover pagare manco un
centesimo.
Ernesto Respetti guardò un poco fisso fisso l’usuraio senza parlare.
— E sia! — disse poi. — Supponiamo che io accetti il vostro patto.
Capirete che almeno io vorrei essere sicuro che le condizioni delle
cose sono esattamente quali voi dite: per esempio che quella carta
è proprio ignota a tutti e che una volta venuta in mio potere, niuna
traccia più potrà rimanere di un momento di debolezza, quale confessa
di aver avuto il mio povero padre.
— Ah, signor marchese, le giuro...
Respetti interruppe seccamente:
— Non dovreste credere neppure voi che un vostro giuramento mi possa
bastare.
Matteo si curvò sotto quell’insulto senza battere palpebra.
— Quale assicurazione vorrebbe?...
— Quella che mi dessero informazioni positive cui avessi campo di
appurare esatte.
— E come potrei io dargliele?
— Rispondendo sinceramente e con veridicità alle domande che vi faccio.
E per prima: come siete voi venuto in possesso di quel foglio?
L’usuraio stette un momento a pensarci su.
— Ah! badate bene! — soggiunse vivamente e imperioso il marchese, — che
voglio tali risposte che me ne possiate provare la esattezza.
— Signor marchese, — rispose Matteo dopo un altro poco di riflessione,
— potrei dirle recisamente che il modo per cui è venuto nelle mie mani
questo documento non glielo voglio manifestare....
— Ed io, — interruppe asciutto il marchese, — troncherei subito ogni
discorso con voi e vi metterei fuori dell’uscio....
— Anche s’io minacciassi di far pubblica questa confessione del fu
illustrissimo signor marchese Leonzio?
Un lampo d’ira, che però tosto si spense, balenò nelle pupille del
marchese.
— Sì, rispose fermamente, — anche con codesta vostra minaccia.
Rimpiangerò certo amaramente che sia noto l’unico fallo della vita di
mio padre, al quale bisogna pure che creda ancor io, poichè egli stesso
lo confessa; ma nello stesso tempo che questo fallo sarà conosciuto,
verrà a sapersi eziandio che egli ne affidava a me la riparazione,
che io non seppi mai nulla fino ad ora, che quella restituzione al
cavaliere Giulio sarà tosto fatta: e io, per quanto dolente della
debolezza paterna, ma persuaso che il pentimento cancella ogni colpa,
e del suo pentimento mio padre diede prova, porterò alta la fronte lo
stesso e son certo che non perderò un briciolo di affetto e di stima
dai miei congiunti, nè da verun altro al cui concetto io ci tenga. Voi
vedete che se può importarmi fino a un certo punto di tenere segreta
ogni cosa, l’importanza che ci metto non è tale da farmi acconsentire a
cose ch’io non possa accettare.
Matteo si sentì invadere da una gran paura. Capì che la sua
sollecitudine, il suo sgomento per Alfredo lo avevano deciso un po’
imprudentemente a un passo assai pericoloso. Imporne al marchese era
ben altra cosa che non il dettare il suo volere colla minaccia alla
contessina Albina; era venuto a svelare il suo segreto, e correva
rischio di vedere con ciò fatta inutile la sua audace menzogna e rotta
nelle sue mani l’arma terribile con cui aveva ottenuto la sommessione
della nobile ragazza. Pure conservò fermo il contegno, e disse
tranquillamente:
— Ho creduto che Vossignoria, pur così delicato in punto d’onore,
appartenente a famiglie tanto scrupolose a questo riguardo, avrebbe
accettato qualunque condizione... onorevole s’intende, per ottenere
che una macchia, mettiamo pur anco leggiera, del nome paterno, non
comparisse mai agli occhi del pubblico.
Il marchese ebbe di nuovo un guizzo negli occhi, e parve sul punto di
interrompere; ma si contenne, si morse il labbro, ed a Matteo, il quale
si era taciuto, fe’ cenno di continuare.
— E mi pare, — seguitò l’altro, — che quanto io son venuto a chiedere
alla S. V. sia pur tale da accettarsi volonterosamente.
— Ne giudicherò meglio quando io sappia quello che desidero: — disse
allora con accento risoluto il marchese. — Come avete voi quella carta?
L’usuraio si sentiva dominato; volle pure ancora tentare di resistere,
ma quella paura, che gli era entrata nell’animo, veniva crescendo e
levandogli della sua sicurezza, dell’impudenza.
— Signor marchese, — rispose volendo nascondere la sua esitazione, ma
non riuscendoci bene: — ciò alla S. V. non deve importare...
Respetti si alzò e con tono imponente interruppe:
— M’importa cotanto che senza questa spiegazione da voi, non consento
più ad ascoltarvi altrimenti. Avete capito?... O parlate, o partite dal
mio cospetto.
Subito subito, Matteo pensò partirsene davvero; ma non era un
respingere così ogni mezzo di salute? Chi sa se una completa sincerità
non avesse più effetto delle minaccie sull’animo del marchese; poteva
anche presentare le cose in modo da acquistarsi un po’ di merito verso
chi l’ascoltava.
— Ebbene? — domandò il marchese, incalzante, imperioso,
avvicinandoglisi d’un passo.
Il vecchio usuraio era vinto.
— Le dirò tutto, — rispose inchinandosi più basso che mai, facendosi
più umile, più strisciante di prima.
— Meno male: vi ascolto.
Il marchese si buttò di nuovo a sedere, si nascose il volto,
appoggiando la fronte alla palma della mano, il gomito sul bracciuolo
del seggiolone e stette, in apparenza, impassibile ad ascoltare.


XXV.

Matteo fece la seguente narrazione:
— Era dunque la sera del 20 ottobre 1843... quella appunto, come Lei
sa, in cui morì il suo signor padre.
Ernesto Respetti fece silenziosamente un cenno grave e melanconico del
capo.
Da più mesi il marchese Leonzio era ridotto immobile sopra una
poltrona, e lo si trasportava a braccia qua e colà, specialmente dalla
sua camera da letto allo studiolo, dove il pover’uomo si rompeva la
testa e si amareggiava l’animo: a cercar modo di mettere ordine a’ suoi
affari. Io l’aiutava in codesta difficile impresa...
Il marchese fece una mossa quasi sdegnosa, quasi impaziente, che
esprimeva la stima, poco lusinghiera per Matteo, ch’egli faceva di
quell’aiuto; ma non disse una parola.
L’altro continuava:
— Quel giorno adunque, il 20 d’ottobre, l’illustrissimo signor marchese
Leonzio mi mandò a chiamare e mi disse: «Matteo, ecco qui tutti i miei
titoli di possesso, di rendita e di crediti e tutti i miei obblighi e
debiti,» — e mi additava un vero monte di carte che aveva davanti sul
piano della scrivania a cui era seduto. — Bisogna che da tutto questo
voi cerchiate di tirar fuori una somma netta e liquida di cinquanta
mila lire di attivo, da potersi aver subito in numerario... Bisogna,
avete capito!» insistette con forza: «io è da tempo che mi ci provo e
riprovo, ma ahimè non ci riesco». Mi sedetti accanto a lui, esaminai un
per uno tutti i documenti, e con suo gran dispiacere ed anche mio, gli
dovetti far vedere che il conteggio di tutte quelle partite, non solo
non lasciava avanzo attivo di sorta, ma chiudevasi con una non lieve
eccedenza di passività.... Del resto, Vossignoria che esaminò poi a sua
volta tutte le carte della successione, lo sa meglio di me...
Ernesto Respetti, senza muoversi altrimenti, fece un cenno colla mano a
significare che ciò era vero e che il parlatore continuasse.
E Matteo continuò.
— Non le so dire quanto codesto risultato affliggesse il signor
marchese; stette un poco accasciato, senza parlare, e un tremito gli
agitava il capo chinato dolorosamente sul petto....
— Povero padre mio! — esclamò il Respetti, quasi involontariamente,
spinto dalla soverchia emozione; e la mano che gli sosteneva la fronte,
discese sugli occhi a coprire e rasciugare le due lagrime che ne
velavano le pupille.
Matteo fece una piccola pausa come per rispetto a quella commozione, e
poi riprese:
— Verso le otto di sera sopraggiunse il conte-presidente Sangré di
Valneve. «Tu m’hai mandato a chiamare, Leonzio,» disse al marchese
«ed eccomi qua per tutto quel tempo che vorrai.» Io sorsi in piedi
e presi congedo; ma il signor marchese mi ordinò di non partire, di
fermarmi nella stanza vicina. «Avrò ancora bisogno di voi», soggiunse,
«per aiutarmi, non fosse che col consiglio, a procurarmi quel che voi
sapete.» Capii che voleva dire la somma di cui mi aveva mostrato aver
tanto a cuore di poter disporre; m’inchinai, rispondendo che sarei
sempre stato pronto a servire il signor marchese e che avrei aspettato
fin che a lui fosse piaciuto i suoi ordini. I due cugini si chiusero
nello studiòlo e stettero lungo tempo, certo più di due ore, quando
a un tratto fu suonato con violenza e ripetutamente il campanello
per chiamare la servitù e da quel gabinetto io stesso udii la voce
del conte-presidente che chiamava disperatamente aiuto. Accorsero il
domestico e il cuoco e io pure con essi. Trovammo il marchese il capo
abbandonato, un braccio penzoloni, l’altro sul piano della scrivania,
tenendo ancora fra le dita contratte una penna con cui vedevasi avere
allor’allora scritta la propria firma sopra un foglio che gli stava
dinanzi, color di cera nel volto, la bocca storta da una convulsione,
privo affatto di sensi. Il povero conte Sangré per l’affanno, per
lo sgomento, pareva aver perduta la testa. «Presto,» gridava tutto
in lagrime, tutto tremante, «il marchese a un tratto è svenuto....
portiamolo sul suo letto..... correte pel medico.... c’è bene qualche
cordiale.... qualche farmaco.... tentiamo di fargliene bere... fate
scaldare dei panni.... dell’acqua da spruzzargli la fronte!» E si
agitava a sciogliergli i vestiti, a sollevargli il capo che ricadeva,
chiamandolo per nome, baciandolo sulla fronte....
— Buon cugino! — esclamò di nuovo il marchese mosso dall’affetto.
— Io dissi al conte, — continuava l’Arpione, — che il più pressante era
davvero trasportare sul letto il marchese e correre pel medico: e così
fu fatto. I due servitori presero, come solevano fare, la poltrona per
trasportare l’infermo, e il conte-presidente li accompagnò, sorreggendo
amorosamente il capo cascante dello svenuto. Io rimasi solo un momento
in quello studiòlo, innanzi a quella scrivania coperta di carte,
sopra le quali eravi il foglio che un solo colpo d’occhio mi aveva
fatto vedere scritto di recente dal conte e firmato dal marchese. Una
gran curiosità mi pungeva; senza rifletterci, senza proprio pensarci
davvero, davvero, presi in mano quel foglio e lo scorsi cogli occhi....
— Ah! — fece il marchese con un gesto di disgusto.
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