Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 18

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— La vedremo!... La vedremo! — esclamò con graziosa bravata la
contessina, appoggiata ancora all’albero, il respiro ancora un po’
concitato, gli occhi sempre più ridenti.
Giulio corse verso di lei, ma quando fu per prenderla a un braccio,
ella spiccò un salto di fianco, e via lesta e leggiera correndo, come
fa una farfalla che fugge volando di sotto alla mano del fanciullo che
stava per afferrarla. Lo sposo le tenne dietro e si sentirono le risate
allegre dei due giovani perdersi giù della china, nel boschetto più
folto.
Alfredo stette un momento immobile ancora a quel posto donde, celato,
aveva visto passarsi innanzi quella scena d’idillio; poi si riscosse,
si coprì colle mani il volto e si premette colle dita le occhiaie, per
ricacciarne indietro le lagrime che volevano spuntare. Sentì in quel
punto nell’eccesso del suo soffrire come una smania di tormento, come
una voluttà di sacrifizio, come una amara soddisfazione di essere tanto
infelice.
— Io sempre solo! — disse, — sempre odiato e sprezzato! Io non mai
amante, mai sposo, mai padre.... Oh possa giungermi presto quella palla
benedetta che mi tolga la vita!
Mandò uno sguardo in quella direzione in cui erano spariti i due sposi
e donde venivano ancora alcuni velati suoni di allegre risa.
— Possa tu esser sempre felice così, Albina adorata! — esclamò; e poi
dopo una brevissima pausa: — ah possiate essere felici ambedue....
E partì di buon passo.
Alla sera, secondo quel che aveva promesso al capitano, egli
raggiungeva la compagnia.


XXXIX.

Poco oltre la metà del mese d’aprile il conte Cavour mandò a chiamare
il marchese Ernesto Respetti-Landeri, il quale fu sollecito ad
accorrere al Ministero degli affari esteri.
Il gran ministro, allora onnipossente, chè in tutti i dicasteri ci
aveva lo zampino e faceva camminare a suo talento ogni parte della
pubblica amministrazione, accolto subito il marchese, gli disse senza
preamboli, con quella un po’ brusca sollecitudine che era nella sua
natura e che allora gli era fatta tanto più necessaria dalla farragine
degli affari che incombevano su di lui, come l’avesse fatto venire
per domandargli un importante piacere. Nella guerra che egli sperava
imminente, era suo proposito dare una rilevante parte d’azione a
quella meravigliosa massa di volontari accorsi da ogni parte d’Italia,
di cui si era fatto un piccolo esercito da capitanarsi dal generale
Garibaldi. In faccia alla diplomazia europea era quello già un gran
successo, che malgrado tutti gli ostacoli frapposti dagli altri
governi e massime dalle forze prepotenti dell’Austria, pure sfidando
ogni sorta di pericoli i giovani italiani in tanto numero fossero
venuti in Piemonte a prender l’armi; egli Cavour, voleva che anche
militarmente i volontari così raccolti acquistassero la loro importanza
e facessero onore a sè, alla causa nostra, alla nazione, di cui
apparivano un’emanazione più diretta, più spontanea ed immediata, per
cui era persuaso che valore a quei giovani non sarebbe mancato; ma era
a temersi che mancassero invece la potenza delle armi, l’abilità nei
capi, la più parte fatti all’improvviso, e quella disciplina senza cui
una truppa non ha forza di resistenza e non può dar buona prova di sè.
Egli aveva pensato quindi far pregare alcuni dei più dotti, risoluti
ufficiali dell’esercito regolare, perchè volessero accettare gradi e
comandi importanti nel Corpo dei Volontari, dando loro assicurazione
formale che sempre avrebbero di poi potuto rientrare con vantaggio
nelle file delle Regie Truppe; e uno di quelli ufficiali a cui aveva
pensato tra’ primi era il Maggiore delle Guardie, conte Ernesto
Sangré di Valneve, del quale gli piaceva eziandio che appartenesse ad
una delle più antiche famiglie dell’aristocrazia piemontese, perchè
pensava pure cosa buona e di molto rilievo che in quella manifestazione
patriotica, popolare, che era l’armarsi e il combattere della gioventù
italiana, avesse parte ed esercitasse alcuna azione l’elemento ordinato
e monarchico della classe più nobile.
Era perciò sua intenzione offrire al conte Sangré il grado di
luogotenente-colonnello e il comando di un reggimento di volontari; ma
non sapendo come una cotale offerta sarebbe stata accolta dal Maggiore,
e non volendo farla col rischio di un rifiuto che avrebbe prodotto
poco buon effetto, il contrario appunto di quello a cui egli mirava,
avea mandato pel marchese affine di pregarlo volesse egli tastare il
terreno presso suo cugino, e dove non vedesse in lui una invincibile
ripugnanza, adoperarsi con tutti quegli argomenti che gli venivano
suggeriti e ch’egli era capacissimo a trovare di proprio, a decidere il
conte ad acconsentire alla proposta.
Il marchese accettò volonteroso l’incarico, fu sollecito a Genova, dove
il conte Ernesto trovavasi, e tanto seppe fare e dire che vinse le non
poche ripugnanze del cugino e tornò a Torino colla promessa di lui che
avrebbe compiaciuto di ciò il conte Cavour.
Ora un mese e più dopo, alla battaglia di San Fermo, dove i volontari
italiani comandati da Garibaldi vinsero i soldati austriaci dell’Urban,
il conte Ernesto, in sul bel principio della mischia, ebbe a vedere
un atto di valore di un semplice gregario de’ nostri che molto lo
meravigliò. Una sottile schiera degli italiani appartenente a un
altro reggimento era stata assalita dai nemici e il Sangré, che si
avanzava col suo Corpo a prender posizione, veniva facendo tutti i
segnali che poteva per farla ritirare, mentre prendeva le opportune
disposizioni per resistere poi a sua volta all’assalto del nemico che
avrebbe sicuramente incalzato, e mandava sollecitamente ad avvisare il
generale. I Garibaldini cedettero e vennero chi resistendo chi fuggendo
a dirotta, a riannodarsi dietro la linea del reggimento di Sangré;
ma uno, uno solo, non volle fuggire, non volle ritirarsi, non volle
abbandonare il terreno. Addossatosi al tronco di un grosso albero,
usando come una clava il suo schioppo, e percotendo col calcio chiunque
si accostava, ei teneva indietro una buona dozzina di nemici che gli
si serravano intorno, de’ quali a ogni colpo mandava uno a gambe levate
innanzi a sè.
— Per Dio! — esclamò il conte di Valneve meravigliato: — quello è un
eroe... Ah: non bisogna che lo lasciamo ammazzare così sotto i nostri
occhi... Capitano! — aggiunse gridando al comandante della prima
compagnia: — di corsa coi suoi uomini alla baionetta a salvare quel
bravo soldato!
E si slanciò egli primo col suo cavallo contro ai nemici gridando a
tutta gola:
— Savoia!... Coraggio che siamo qui noi!...
I Garibaldini dietro il colonnello arrivarono come un turbine addosso
agli austriaci, che sciabolati, infilati dalle baionette, in un attimo
furono atterrati. Il conte Ernesto tese la mano al garibaldino che
avevano così salvato.
— Bravo! — gli disse. — Lei combatteva come un Orazio Coclite.
Il volontario, che aveva il volto tutto macchiato di sangue per una
ferita alla testa, trasalì a quella voce, mandò un’esclamazione, e
volgendo uno sguardo di supremo rimprovero al suo salvatore, disse:
— Ah! perchè non lasciarmi morire?
E poi cadde lungo e disteso per terra svenuto.
Sangré riconobbe Alfredo.
Gli austriaci tornavano in numero, non c’era un minuto da perdere;
il colonnello si fece porre il caduto sulla sella, e via tutti,
perseguitati dal tiro dei moschetti nemici.
Il ferito fu trasportato alle ambulanze. Il conte Ernesto, con suo gran
dispiacere, non potè occuparsene altrimenti, perchè la battaglia che
allora prendeva vigore, richiedeva tutta la sua attenzione.
Alla sera, dopo la vittoria, Sangré si affrettò ad informarsi del
volontario salvato alla mattina; gli dissero che era stato mandato
all’ospedale, che la ferita era guaribile e ch’egli si chiamava Alfredo
Arpione. Lo sventurato avea dunque voluto prendere il suo vero nome. Fu
l’ultima volta che il conte di Valneve vedesse quel giovane. Prima che
la ferita di costui fosse risanata era successa la pace di Villafranca,
e il Sangré aveva abbandonato il Corpo dei volontari per rientrare
colonnello effettivo nell’esercito regolare a comandare uno dei
reggimenti di nuova formazione.
Quando ebbe termine la campagna nell’Italia meridionale e venne
disciolto il Corpo d’esercito formato e comandato dal generale
Garibaldi, Alfredo, che aveva seguito dappertutto l’avventuroso
capitano, depose la camicia rossa e venne a Torino. Nell’uomo
ormai maturo d’aspetto, dalla gran barba, dalla faccia severamente
melanconica, dal vestire più modesto, nessuno avrebbe riconosciuto il
giovane bello, elegante, dai modi e dalle abitudini aristocratiche di
due anni prima. Ed egli non si fece riconoscere da nessuno. Fece una
sola visita, e fu al Campo Santo. Data una buona mancia ad un becchino,
gli domandò:
— Sapreste voi indicarmi in qual punto del cimitero comune furono
seppelliti i morti che furono qui portati dal 18 al 20 febbraio di
quest’anno?
Il becchino stette un poco, e poi, o volesse contentare un uomo che gli
si era mostrata così generoso con una pietosa bugia, o veramente se ne
ricordasse, rispose:
— Signor sì.
— Ebbene, menatemici.
Il seppellitore lo guidò a un punto e disse:
— Gli è qui: sono queste fosse.
— Va bene, grazie, lasciatemi.
Alfredo solo, dritto in mezzo all’erbe selvatiche cresciute
tutt’intorno, il capo nudo, le braccia incrociate, stette guardando
una mezza dozzina di tumuletti di terra nascosti quasi del tutto ormai
dalla vegetazione.
Sotto uno di essi, forse, si consumava la salma di colui che era stato
suo padre.
— Dove sei tu? — disse a mezza voce Alfredo. — Ignoto qui io saluto la
tomba ignota di te caduto ignorato. Dove si consumano le tue ossa? E
dove vive l’anima tua? Sei tu perdonato? Sei ricongiunto a colei che
amasti? Mi vedi? Mi senti? Mi ami sempre? Mi proteggi? Vegliate voi su
di me, padre mio, madre mia? Otterrete da Dio che poichè non mi volle
nel regno della morte, mi conceda qui nella vita terrena un po’ di pace
e d’oblìo?
Pregò — stette a lungo pensoso, — partì lento, mesto, pallido, con
apparenza egli stesso di spettro.
Il domani era in ugual modo nel piccolo cimitero del villaggio presso
Parma. Raccomandò a Tino la conservazione del modesto monumento, dormì
una notte nella camera dov’era morta sua madre, lasciò tutto il denaro
che poteva nelle mani del vecchio seppellitore, e partì, — partì per
sempre.
È andato in America a raggiungere il cugino Pietro Carra, come aveva
detto di voler fare, come aveva scritto al Carra medesimo che farebbe?
Chi lo sa? Di laggiù non venne nessuna notizia intorno a lui, nè alcuno
lo cercò, nè alcuno pure si ricordò più che egli esistesse. Avvenne
quello ch’egli aveva più desiderato: il suo nome e l’esser suo si
perdettero, nell’oblìo.

FINE.
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