Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 03

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di essere esattissimo all’ora datagli, il cugino di Giulio ebbe, come
per un’ispirazione, il pensiero che, dopo esauriti i più importanti
argomenti di cui aveva da intrattenerlo il ministro, egli avrebbe
potuto chiedere da questo come un favore, poichè sapeva o era in grado
di sapere tante cose segrete, che volesse aiutarlo a scoprire chi fosse
realmente il conte di Camporolle.
La conferenza che il Respetti ebbe col conte di Cavour nello storico
gabinetto con parato verde del palazzo del ministro medesimo, fu più
lunga d’ogni altra precedente, e di grandissimo rilievo. Si era alla
vigilia oramai di quella lotta contro l’Austria che il Piemonte nei
dieci anni trascorsi, per opera del suo re, de’ suoi uomini di Stato,
della sua stampa, di una immensa maggioranza del suo popolo, aveva
fatto di tutto per riprendere, trascinando seco la forza, l’onore
dell’impero napoleonico e della Francia: la diplomazia tentava
ogni sua maggior possa per impedire il rompersi delle ostilità, che
ogni governo europeo paventava avrebbero facilmente tratto a guerra
generale, e lì, all’imminenza dello scoppio, lo stesso regnante in
Parigi pareva esitare, volersi arrestare, non essere malcontento de’
casi che gli dessero pretesto di sottrarsi all’impegno. Un menomo
errore, un atto inconsulto, un’imprudenza, o del governo piemontese
o delle popolazioni italiane, poteva compromettere la riuscita del
disegno così presso a incarnarsi, poteva perdere tutto. Il Cavour era
in rapporto con tutti i liberali italiani, di qualunque gradazione
e colore, allora tutti meravigliosamente uniti nel solo concetto
dell’indipendenza nazionale, e mercè infiniti, varii mezzi apprestati
dalla buona volontà, dal concorso di tanti, riusciva a comunicare ai
principali le sue idee, i suoi consigli, i suoi ammonimenti, le sue
istruzioni. Ora era essenziale che i liberali di Lombardia sapessero
certe cose, accettassero certe regole di condotta per non recar
danno alle operazioni del governo piemontese, e anzi per aiutarle;
ed era importante del pari che il governo di Torino conoscesse umori,
disposizioni d’animo, tendenze, speranze e propositi di quei popoli e
di chi sopratutto aveva influsso su di loro. Per questo duplice scopo
il marchese Respetti-Landeri poteva essere opportunissimo; e da ciò il
convegno datogli dal ministro. Il quale ebbe ogni ragione di esserne
soddisfatto, perchè il marchese, preparatosi all’uopo e intelligente e
volonterosissimo di appagare i desiderii del Cavour, seppe rispondere
alla aspettazione di lui come non si sarebbe potuto meglio, e il
Cavour, acutissimo nel conoscere ed apprezzare gli uomini, confermò
in quel lungo colloquio e anzi accrebbe la stima che già aveva del
marchese come uomo capace nel pensiero, e nell’azione.
Camillo Cavour era cosiffatto che, trattando con persona cui credesse
degna della sua amicizia, prendeva subito un tono di famigliare,
affabile confidenza che metteva a suo agio l’interlocutore e
gl’ispirava, insieme coll’ammirazione per la vasta mente dell’uomo
di Stato, una viva simpatia pel gentiluomo e per l’uomo gentile. Col
Respetti egli esercitò in tutta la sua efficacia codesto fascino del
suo carattere aperto e piacevole, onde sul finire del colloquio, quando
già stavano in piedi ambedue e il ministro lo veniva cortesemente
accompagnando fino all’uscio, tenendolo in atto amichevole pel braccio,
il marchese gli parlò di quel suo desiderio di conoscere il passato del
Camporolle, con quella libertà con cui ne avrebbe parlato a un compagno
d’anni e di vita, e gli chiese che vedesse di soddisfare a questo suo
desiderio come si chiede un servizio ad un amico che si sa pronto ad
accondiscendere.
— Conte di Camporolle! — esclamò il Cavour grattandosi leggermente la
vasta fronte coll’unghia dell’indice. — Aspetti un po’, marchese, chè
questo nome l’ho allogato in qualche cantuccio della mia memoria.
E siccome, al pari di tutte le intelligenze veramente eccezionali,
Camillo Cavour aveva davvero una memoria straordinaria, non tardò a
trovare, appostato in una cellula del suo largo cervello, quel nome,
con un corredo di fatti che lo riguardavano.
— Sì, ecco che me ne ricordo: — disse quasi subito. — Costui desiderò
prendere parte alla spedizione di Crimea.
— Appunto.
— E non ci volle poco a ottenergli un tal favore. La Marmora non voleva
coscritti, desiderava avere tutti soldati fatti senza eccezione.
Fu la contessa vedova di Valneve che mi pregò di ottenere da La
Marmora che si permettesse a costui di arruolarsi e partire col
corpo di spedizione. Io pregai il generale che, dopo avere, secondo
il suo solito, resistito ben bene, finì per cedere, non tanto per me
quanto per far cosa grata ai Valneve. Laggiù deve essersi condotto
benissimo; credo che abbia avuta una medaglia, e se avesse continuato
nell’esercito, a quest’ora sarebbe dicerto ufficiale.
— Sì, conte, — disse il Respetti: — tutto ciò è esatto; ma gli è la sua
esistenza prima di questo glorioso episodio ch’io bramerei conoscere.
— Va bene; vedrò di soddisfarla. Ho certi segugi che per iscovare e
seguitare una traccia fino alla prima origine sono eccellentissimi. Li
metterò in caccia: e appena mi venga riferito qualche cosa di positivo,
mi farò premura di comunicargliela.
Quello stesso giorno, Alfredo di Camporolle presentavasi al palazzo
Sangré, domandando di parlare al conte Ernesto e al cavalier Enrico.
Venne introdotto nel salottino del primogenito de’ due fratelli, dove
Ernesto lo accolse colla solita espansiva amicizia, e dove Enrico,
mandato ad avvertire, non tardò a sopraggiungere.
Il visitatore era un po’ commosso; aveva alquanto meno vivace il
colore delle guancie, meno sicuro lo sguardo, men ferma la voce. Dopo
la cordiale stretta di mano datagli da Enrico, sedutosi all’invito di
Ernesto, cominciò senz’altro a parlare:
— È per me, grave, importante, essenziale al mio destino il colloquio
che sto per avere con voi; e da ciò quell’agitazione che voi certo
scorgete in me e che è l’effetto d’una lotta fra la speranza che
m’ispira la cara, generosa, provata amicizia dell’uno e dell’altro di
voi, e il timore che troppo audaci sieno il desiderio che mi muove, il
voto che formo, la felicità che ho sognata.
Si fermò per respirare con un certo affanno, come chi sente mancarsi
il fiato. Enrico, il quale dicerto capì subito dove l’amico voleva
riuscire, sorrise in modo affatto incoraggiante, Ernesto si fece serio,
quasi mesto, ma mosse con atto cortese la mano ad invitare chi parlava
a spiegarsi con libera franchezza.
Alfredo, peritandosi ad assalire di fronte l’argomento che gli stava
pur tanto a cuore, riprese girando, per così dire, la posizione:
— Io non ho ancora ringraziato abbastanza, come devo, come pur vorrei,
voi miei amici e la nobil donna, la signora contessa Adelaide, per
l’onore, per la fortuna di cui m’avete favorito associandomi ieri
alla funebre solennità commemorativa del padre vostro. Consultando
me stesso, il mio cuore, i miei sentimenti, ve lo dico, o amici,
con altera franchezza, non mi sono trovato affatto indegno di tal
distinzione, e provo un felice orgoglio ad essere stato, non fosse
che un momento, congiunto a voi nelle vostre intime affezioni, come un
membro della vostra famiglia.
Fece di nuovo una pausa. Enrico, più impetuoso come più giovane,
proruppe vivacemente:
— Abbiamo in te un amico tanto reale e sincero, che per noi eziandio da
te ad un congiunto per sangue poco ci corre.
Negli occhi di Alfredo balenò una viva gioia a queste parole, e la
speranza e la fiducia rianimarono subito il colore del suo volto. Ma
Ernesto soggiunse più posatamente, più gravemente:
— Sono cinque anni che ho imparato a conoscerti, e mi gode l’animo di
dirti che la tua altera franchezza ha ragione.
Camporolle prese per le destre i due fratelli Sangré e con voce
tremante dall’emozione, disse loro:
— Ebbene, amici miei... posso io sperare, posso io pregarvi che mi
vogliate per vostro fratello? Mi consentite voi, mi incoraggiate di
recarmi dalla signora contessa di Valneve a domandarle di accordarmi la
felicità di tutta la mia vita colla mano di vostra sorella Albina?
Enrico si alzò vivamente e stringendo forte la mano di Alfredo rispose
sollecito ed animato:
— Ma sì, ma sì, Alfredo; il mio suffragio l’hai tutto e di gran
cuore....
S’interruppe, comprendendo che a lui, l’ultimo di autorità nella
famiglia, non conveniva parlare il primo: e si volse al fratello
maggiore, come per interrogarlo; anche Camporolle stava guardando
Ernesto con ansietà, la quale si fece timore quando vide l’espressione
severa, quasi di mesto rincrescimento, che aveva la schietta e nobile
fisonomia del primogenito dei Sangré.
— Tu non approvi?... — cominciò Alfredo con accento di vero dolore;
ma Ernesto non lo lasciò continuare, e alzandosi egli pure disse con
serietà affettuosa:
— Io non ti amo di meno e diversamente da Enrico, e il mio suffragio
non ti mancherebbe neppure se esso non fosse subordinato, e tu capirai
facilmente che sia così, a quello di due altre persone: mia madre e mia
sorella.
— Oh certo! — proruppe Enrico. — Anch’io la intendo in questa guisa.
— Nè io ho mai pensato che dovesse essere diversamente — disse con
qualche vivacità Alfredo. — Solamente ho creduto, in nome della nostra
amicizia, aprir prima il mio cuore a voi e domandarvi il vostro aiuto.
Ora, se me lo permettete, io avrò più coraggio a parlarne alla contessa
e, con licenza di Donna Adelaide, anche alla contessina.
— No, — soggiunse Ernesto mantenendosi in quel grave riserbo: — se dài
retta a me, se non ti dispiace regolarti a mio senno....
— Oh no! — esclamò Camporolle: — io farò tutto quello che mi dirai.
— Ebbene, lascierai parlare da me a mia madre e ad Albina. Io scruterò
le intenzioni della prima e il cuore della seconda: e saprò dirti poi
la strada che devi prendere e il successo che puoi ottenere.
Alfredo rimase un momentino sopra pensiero; mentre la lieta espansione
di Enrico eragli stata di tanto e sì caro conforto, la serietà, la
freddezza d’Ernesto gli stringevano il cuore.
— Ernesto, — diss’egli poi, — tu, come sempre, hai ragione.... È meglio
che parli tu per me.... Forse dove io potessi esprimere alla contessa
Albina la forza, la santità, la grandezza del mio amore, d’un amore
che mi nacque fin da quando ho veduto per la prima volta il ritratto
di lei ancora bambina, d’un amore che mi ha accompagnato d’allora in
poi per tutte le vicende vissute, che fu il mio faro, la mia stella, il
mio paradiso, che.... lo giuro sull’onore.... sarà eterno in me; forse
riuscirei a commuoverne il cuore....
— Glielo commuoverai, — disse Ernesto col suo fine sorriso, — quando ne
sarà il caso.
— Ma non dimenticare frattanto, — soggiunse Alfredo calorosamente, —
che ora essendomi alla fine deciso a parlare, io starò in un’ansietà
dolorosa ad aspettare la sentenza della mia sorte....
— Eh! sai bene che io ho solamente tre giorni da fermarmi, e
quindi, come non ne ho la volontà, non avrei neppure la possibilità
d’indugiare. Domani o al più tardi dopo domani avrai la risposta.
— Grazie! — esclamò il Camporolle. — Quanto allo stato della mia
fortuna, se tu credi che fin d’ora io debba darti ragguagli e prove....
Ernesto lo interruppe con un gesto pieno di nobiltà.
— Adesso, no, non occorre.... Non dico che queste sieno cose di cui non
s’abbia a tener conto nessuno. Certo mia madre, noi, fratelli d’Albina,
vorremo trovare in chi la sposa, le migliori condizioni possibili
d’ogni fatta da guarentirle un’esistenza degna di lei; ma, anche sotto
questo rispetto, la ricchezza non è la prima delle condizioni che si
riguarda. Te poi conosco uomo d’onore e di sentimenti delicati, e non
posso neppure supporre che ti avventuri a tal passo in cui non sia in
grado di sostenere la tua parte con ogni valido argomento....
Enrico saltò su colla sua impetuosità giovanile:
— Il più importante è che la nobiltà del tuo sangue sia uguale o poco
meno a quella dei Sangré. Nobile tu lo sei; dunque?...
Alfredo impallidì un pochino e una leggiera nebbia di confusione gli
passò sulla fronte e sugli occhi: volle parlare, ma non n’ebbe subito
il coraggio, glie ne mancarono le parole, e d’altronde non glie ne
lasciò neanche il tempo Ernesto, il quale disse come a conclusione:
— Dunque, caro Camporolle, abbi pazienza tutt’al più per una trentina
d’ore, e poi avrai da me stesso una risposta.
Alfredo ringraziò e partì oppresso da un presentimento di male che
lo rattristò fino nel fondo dell’anima. Aveva sperato moltissimo
nella calda amicizia d’Ernesto e in costui aveva trovato invece una
inaspettata freddezza: le ultime parole d’Enrico, poi, gli avevano
fatto scorgere un pericolo a cui prima non aveva mai pensato. Che cosa
avrebbe detto la famiglia Sangré quando avesse appreso che la nobiltà
di lui era affatto recente, che quel titolo di conte da lui portato
eragli stato concesso da pochi anni soltanto per denaro pagato al
governo papale? Ed egli poteva ancora onestamente dissimulare questo
fatto ai parenti d’Albina? Gli pareva di sentirsi suonare tuttavia
all’orecchio le parole di Ernesto che, conoscendolo per uomo d’onore
e di delicatezza, supponeva in lui tutte le condizioni volute per
aspirare alla mano di Albina, dal momento che osava manifestare tale
sua aspirazione. Tacere ancora non era un rendersi reo d’inganno, un
mancare almeno a quella delicatezza di cui lo si stimava fornito? Andò
a casa sua mulinando questi pensieri, così, nell’aspetto, preoccupato,
chiuso, turbato, che chiunque lo osservasse poteva indovinarne
l’agitazione dell’animo.
E la vide e la indovinò tale che più d’ogni altro sapeva e desiderava e
voleva leggere in quella fisonomia e per essa scendere sino al cuore:
tale che, di celato, non lasciandosi mai scorgere, non facendo mai
arrivare al giovane alcun cenno di sè, vegliava continuamente su lui,
gli si aggirava intorno, spendeva delle ore e delle ore per le strade
ad aspettare ch’egli passasse, solamente per avere la gioia di vederlo
da lontano. I lettori hanno capito che voglio dire Matteo Arpione.
— Che cosa avrà egli? — si domandò con affanno il vecchio usuraio: e
si assegnò subito l’ufficio di scoprire la causa del turbamento del
giovane e di recarvi con ogni suo possibil modo rimedio.
Fra i due fratelli Sangré, frattanto, appena partito Alfredo, era
successo il dialogo seguente:
— Il tuo contegno così riserbato alla domanda di Camporolle, —
interrogò Enrico, — dinota che quella domanda non ti piace?
— Davvero che avrei preferito non venisse fatta: — rispose mestamente
Ernesto.
— E perchè? proruppe vivace il fratello più giovane. — Forse che in
Camporolle c’è qualche macchia?...
— Oibò! — esclamò sollecito Ernesto; — nemmeno per ombra! E io
accetterei volentieri Alfredo per cognato se la felicità di lui non
fosse la sventura di un altro, che, per quanto mi sia caro Alfredo,
pure mi sta ancora assai più a cuore.
— Chi? —
— Tu dunque non ti sei accorto di nulla? Giulio ama Albina e proprio
con tutta la forza della sua anima.
— Giulio! — esclamò Enrico, assai meravigliato a tutta prima; e poi
tosto abbracciando e prediligendo subito la nuova idea con quell’impeto
che era naturale alla sua giovinezza: — Ma sì, ma sicuro!... Giulio del
nostro medesimo sangue: mai più certamente per Albina uno sposo di così
pari condizione.
Ernesto scosse il capo sorridendo.
— Troppo pari perfino! — disse: — ad ogni modo andiamo a parlare di
tutto questo alla mamma.


VII.

Quando i due fratelli entrarono nel gabinetto della madre, insieme
con lei era il marchese Respetti, il quale, appena ebbe inteso come i
figliuoli volessero parlare di cose famigliari alla contessa Adelaide,
si alzò a toglier congedo; ma Ernesto ed Enrico vivamente e poi
la contessa medesima, affermando che alla trattazione di interessi
domestici che avrebbe avuto luogo era anzi opportuna la presenza d’un
parente così affezionato e di un amico tanto amorevole e di buon
consiglio qual’era il marchese, lo pregarono di rimanere, ed egli
acconsentì.
Ernesto espose succintamente il colloquio avuto con Alfredo di
Camporolle; la contessa Adelaide non mostrò molto entusiasmo per quella
proposta di matrimonio; il marchese, prima ancora d’aprir bocca,
manifestò coll’espressione del suo volto che tal proposta non gli
piaceva affatto, e interrogato poi direttamente dalla madre di Albina,
rispose che egli per allora, non aveva certo alcun grave appunto a fare
a quel giovane, ma che, da quanto ne aveva appreso, trovava che c’era
intorno alla sua origine un po’ di buio, cui sperava poter fra poco
penetrare; consigliava quindi a volere almeno indugiare la risposta
finchè egli avesse avute quelle ulteriori informazioni. Soggiungeva
che, inoltre, egli aveva pure un altro partito dà proporre per Albina,
il quale credeva che non avrebbe dovuto riuscire discaro a nessuno,
e senza farsi troppo pregare a dire chi fosse questo partito, svelò
essere quello di Giulio.
Fu un’esclamazione ed un riso da parte dei due fratelli Sangré che
dissero come da loro eziandio stava per venire proposto quel medesimo;
e sorrise anche compiacentemente la madre, a cui era pure talvolta
balenata l’idea di codesta unione. La causa di Giulio pareva vinta ed
assicurata.
— Non ci sarà da far altro che consultare Albina: — disse la contessa.
— Oh questo sì: — appoggiò Ernesto. — La mamma ha ragione, e il giudice
ultimo in questa faccenda deve esser lei. Ma non credo che abbia ad
essere di parere diverso dal nostro.
— Pensare che quel povero Giulio non aveva che da aprir bocca, —
esclamò Respetti, — e lui taceva, soffriva, dimagrava...
— E scriveva a me niente meno che di voler partire per l’America.
— Oggi stesso parlerò ad Albina, — conchiuse la madre, — e il destino
di Giulio sarà deciso.
E la sorte volle che prima ancora dell’intromissione materna, i due
giovani riuscissero finalmente ad intendersela fra di loro.
Il marchese Respetti, nell’anticamera, uscendo dall’appartamento
della contessa, s’incontrava con Giulio, lo prendeva pel braccio e lo
conduceva seco nella sala per potergli subito dire le buone nuove.
— Dunque allegro, mio caro Giulio, tutto va bene.
Il giovane tremava dall’emozione.
— Ah! parla! parla!...
— Il conte di Camporolle ha domandato la mano di Albina...
Giulio si lasciò cadere seduto, bianco come un cencio.
— È questo che va bene? — balbettò smarrito.
— Lasciami terminare, e vedrai: — continuò Respetti sorridendo. — Ciò
ha dato a me occasione di parlare del tuo amore alla contessa e ai due
figliuoli, e ho trovato che ciascuno de’ miei ascoltatori era disposto
in tuo favore per lo meno altrettanto quanto lo sono io.
— Proprio? Davvero? — esclamò Giulio, sempre più tremante. — E dunque?
— E dunque la decisione sta nelle mani di Albina, la cui scelta sarà
rispettata...
— Ah povero me! — interruppe Giulio spaventato.
— Come? Hai forse ragione da temere delle inclinazioni della cugina?
— Sì... sì certo...
— Ha dimostrato della freddezza per te, delle preferenze per altri?
— No... non mi pare...
— Dunque?
— Ma io sono così da meno di lei...
— Eh folle! Tu sei un Sangré al pari di essa, e sei pure il miglior
giovane che sia sotto alle stelle. Animo: metti buon coraggio e fa di
parlare tu stesso ad Albina.
— È quel che m’ha detto anche Ernesto...
— Vedi bene, allora, che il consiglio è buono...
— Ma non oserò mai... Piuttosto le scriverò...
Scrivere è qualche cosa; ma il parlare in queste faccende è sempre
meglio. Chi vi ascolta vede il vostro pallore, la vostra emozione,
sente il tremito della vostra voce, e riceve dalle parole che sgorgano
vive dal labbro più sicura e più profonda impressione.
— Sì, sì, forse hai ragione; ma...
Il resto dell’obbiezione non potè venir fuori, perchè il buon Giulio
rimase lì a bocca aperta, alla vista di Albina che, col suo passo
leggero e il portamento leggiadro, entrava nel salone.
— Buono! — disse piano Respetti al giovane. — Vedi che anche la fortuna
ti vuol bene. Su, coraggio, e non lasciarla scappare: parla subito.
Giulio balbettò qualche parola che nessuno comprese.
Albina s’era avvicinata ai due cugini serena, sorridente, colla sua
graziosa semplicità, colla sua ingenua eleganza.
— Vi disturbo forse chè eravate qui a parlare così animatamente con
aria da congiurati? Non temete: sono venuta a prendermi solamente
questo telaino da ricamo e vi lascio subito...
— No, no: — disse vivamente il marchese: — tu non ci disturbi niente
affatto, e anzi sei arrivata opportunissimamente, perchè Giulio ha
appunto qualche cosa a dirti.
Albina volse verso il giovane il suo sguardo limpido e il volto suffuso
di rosea tinta, con uno stupore forse non del tutto naturale.
— A me? — domandò.
Giulio, pallido pallido, mosse le labbra, ma non fu capace di mandar
fuori una parola.
— Sicuro! — rispose il Respetti. — È una confidenza che egli ti vuol
fare... E siccome a me l’ha già fatta, ed è superfluo ch’io l’ascolti
due volte, così vado pe’ fatti miei e vi saluto.
Salutò effettivamente, strinse la mano alla fanciulla e poi a Giulio, e
sparì dietro la portiera, lasciando in presenza i due giovani commossi,
cogli occhi bassi, col seno agitato.
Fu Albina che ruppe prima il silenzio.
— Vuoi farmi una confidenza?... Ebbene parla, Giulio, t’ascolto.
Il giovane chiamò a sè tutto il suo coraggio e trovò tanta voce
da poter dire in modo intelligibile delle parole che a lui parvero
audacissime.
— Ecco!... La confidenza è questa... Da un po’ di tempo io sono assai
infelice... e questa mattina ho udito tal cosa che se si avverasse ogni
bene sarebbe finito per me.
La fanciulla rispose con voce affettuosa:
— Che tu Giulio soffra me ne sono accorta anch’io; e quasi te ne ho
voluto che non ne dicessi a me la cagione...
— Dirtene la cagione... a te!... o mio Dio!
— Che non cercassi almeno uno sfogo, un sollievo nella nostra buona
amicizia... Ora, tu vuoi finalmente confidarti meco?... Meno male;
e comincia dunque per dirmi qual’è quella cosa che avverandosi ti
rapirebbe ogni bene.
Giulio esitò un momento, si fece ancora più pallido, e poi scarlatto,
chiuse gli occhi come chi sta per precipitarsi in un abisso e disse in
fretta:
— Quella cosa... è il tuo matrimonio.
Albina divenne leggermente rossa — come una rosa di maggio — fin sulla
fronte.
— Ah!... E dove hai sognato di simil cosa?
— Non sai nulla?... Il conte di Camporolle ha domandato la tua mano.
— Davvero?
— E se tu l’accetti... E pur troppo prevedo che tu l’accerterai...
Egli è così fornito di meriti!... Li riconoscerai certo anche tu i suoi
meriti... Non è vero che li riconosci?
— Sì...
— E dunque vedi che per me non c’è più speranza nessuna... che ogni
bene per me è perduto...
Il poveretto aveva delle lagrime nella voce.
— Ma permetti un po’, — disse la fanciulla con graziosa malizietta. —
Tu che cosa c’entri in codesto? Come il mio matrimonio può fare tali
effetti per te?
— Io.... — balbettò il giovane, confuso: — ah tu non sai...
— Non so, non so: — rispose Albina, con quella cara scherzevolezza: —
forse so più di quel che Lei crede, mio bel signorino; e conosco certi
fatti di cui la mi deve pure dare stretto conto.
— Io?... stretto conto?... Che fatti?
— Chi è che tutte le sere sta là piantato innanzi alla finestra della
mia camera anche fino a mezzanotte?
— O cielo! Tu mi hai visto?
— Non è un’assurdità, dopo essere stati insieme fino alle dieci,
andarsi a impostare là sotto per prendere il fresco notturno e far dir
chi sa che cosa alla gente?
— Ma io non ti ho mai veduta abbastanza; ma in presenza degli altri
non oso guardarti come vorrei! — Il coraggio gli era venuto; prosegui
con più calore: — Quella luce che esce dalle tue finestre è per me
uno splendido astro, e io a contemplarla finchè sparisce provo una
emozione, una tenerezza che mal ti saprei dire.
— Questo non è ancor tutto: c’è di più.
— O Dio! Che cosa?
— Saranno quindici giorni, io aveva appuntata qui al petto una rosa.
Giulio arrossì e si confuse.
— Il gambo si è rotto, e il fiore è caduto senza che io me ne
accorgessi.... — e vi fu chi lo raccolse subito.
— Hai visto anche questo?
— Ed altro! — soggiunse vivamente Albina arrossendo anch’essa.
— L’ho baciata con trasporto quella rosa.... Ah credevo che nessuno
mi vedesse.... e poi l’ho riposta qui sul mio cuore.... qui dove c’è
ancora come un tesoro, come un talismano.... dove ci starà sempre
finchè avrò vita.
— Ah Giulio!
— Oh perdonami.... Ma se tu sapessi quello che io sento per te! Se
sapessi che gli è fin da bambino che io ti.... che io per te....
che sono il medesimo. Se sapessi le disperazioni che ho provato,
conoscendomi tanto al di sotto di te, dicendomi che io non avrei mai
osato neppure di palesarti il mio amore....
— Giulio!
— Perdono! perdono! Questa parola mi è sfuggita. Ma questo sentimento è
in me accompagnato da tanto rispetto, da tanta adorazione....
Albina lo interruppe con una serietà piena di commozione.
— Giulio, anch’io ti conosco fin da bambina. Che cosa ho sempre trovato
in te? Un giovane modesto.... fin troppo modesto.... che ha tutte le
bontà dell’anima e la generosità del cuore....
— Oh Albina!
— Che non ha che un difetto: quello d’una soverchia timidezza, d’una
soverchia sfiducia di sè.
— Ah se tu mi darai coraggio....
La fanciulla gli porse la mano.
— Ebbene, abbilo, coraggio... Nei sogni del mio avvenire ho sempre
travisto te per mio compagno.
Giulio prese la destra di Albina e la baciò con passione. In questo
momento entrava Ernesto.
— Bene! — esclamò egli allegramente. — Vedo che siete d’accordo.
Andiamo subito tutti tre dalla mamma....


VIII.

La lettera con cui Alfredo rivelava al conte Ernesto Sangré di
Valneve la poca antichità del suo titolo nobiliare, presso a colui
al quale era scritta non isminuì la stima che gli portava, ma assai
gli nocque invece presso il superbo Enrico, a cui parve poco meno
che una temeraria impertinenza l’osare far domanda della mano d’una
Sangré chi non era nobile per una discendenza almeno di quattrocento
anni. Ma v’era di peggio. Lo scrivente soggiungeva che, quantunque non
insignita di titolo aristocratico, la sua famiglia era delle antiche e
preminenti di Lugo, e fornita anch’essa di orgoglio così che il nonno
suo aveva scacciato da sè quel figlio a cui Alfredo era debitore della
vita, perchè aveva sposato una figliuola del popolo; e si raccomandava
e supplicava alla famiglia d’Ernesto, alla bontà di Dio che a lui non
fosse negata la felicità per la ragione precisamente contraria a quella
che dal nonno aveva fatto amareggiare la vita a colui che gli era
pure unico figliuolo. Egli non aveva osato scrivere aperto che le sue
ricchezze avrebbero dovuto ritenersi in certo qual modo compenso a quel
tanto di nobiltà che gli mancava; ma pure, introducendo destramente un
cenno delle fortune vistose che possedeva, le quali avrebbero permesso,
al suo tanto sconfinato, ardentissimo amore, di circondare la sua
compagna d’ogni vantaggio sociale, d’ogni distinzione e supremazia,
lasciava scorgere il desiderio, la speranza che considerazioni di simil
fatta s’affacciassero alle menti dei congiunti della ragazza.
— Come! Come! — gridò Enrico addirittura indignato: — suo padre era
un borghese, sua madre una plebea, e lui si crede nostro uguale o poco
meno! E ha l’insolenza di farci lucicchiare davanti, come si fa degli
specchietti alle allodole, i suoi denari? O che ci crede capaci di
vendere nostra sorella?
— Via, via, — disse Ernesto sorridendo pacatamente: — tu esageri
Enrico. Pur troppo nell’epoca che si vive la ricchezza ha una gran
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