Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 08

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— non ho bisogno di raccomandarle riguardo a tutto questo la maggior
prudenza possibile.
— Eccellenza, — rispose il marchese, — di quello che ho appreso, io mi
servirò soltanto per iscongiurare il pericolo d’una disgrazia per la
famiglia Sangré: e ciò farò, glie lo assicuro, colla maggior prudenza
possibile.
E invero se le cose fossero state condotte interamente dal marchese,
egli avrebbe fatto di tutto per evitare ogni scandalo, e ci sarebbe
probabilmente riuscito; ma qui si ebbe da fare coll’impetuosità,
coll’orgoglio, collo sdegno intollerante e superbo del cavaliere
Enrico, a cui ogni consiglio di temperanza pareva debolezza e peggio.


XX.

Dopo il colloquio col Cavour, il marchese Ernesto andò subito subito al
palazzo dei Sangré, dove Enrico, che da lui era stato informato di tal
passo, lo stava attendendo ansiosamente.
— Ebbene? ebbene? — chiese Enrico al cugino con sollecitudine, appena
lo vide. — Che nuove?
— Quelle che presentivamo dover essere, — rispose il Respetti: —
tali che, saputele, la vostra famiglia non può neppur pensare più a
stringere alleanza con colui, e Albina medesima rinuncierà senza fallo
ad ogni simile pensiero.
— Tanto meglio! — esclamò Enrico mandando un respiro di sollievo. — Già
io n’era certo: modesta gente che, nata in basso, si vuole arrampicare
fino a noi e ficcarsi con subdole arti fra le nostre file, è sempre
gente da meno della sua stessa classe inferiore... Andiamo subito da
mia madre.
Si recarono in camera della contessa Adelaide, la quale udì con ingrata
sorpresa le informazioni avute dal Respetti sul conto del Camporolle,
le quali informazioni, sulle labbra di chi ora le ripeteva, non
prendeano certo nessun attenuamento, troppo essendo anche nel marchese
il desiderio di nuocere ad Alfredo.
— Pensare che un individuo simile ha osato domandarci la mano di
Albina! — proruppe iroso Enrico. — Che! pensare solamente che ha
osato penetrare nel nostro _mondo_, nei saloni più eletti della nostra
società, nella nostra casa, farsi intimo della nostra famiglia!....
Già noi siamo troppo leggeri, troppo corrivi in codesto, e chiunque
ci arrivi di fuori con un po’ di spolvero, con impudenza vestita
di buone maniere, noi lo riceviamo come se ci avesse dato prove del
sangue più gentile. Ora a costui bisogna dar subito la buona lezione
che si merita: per prima cosa intanto far sapere ad Albina chi egli
è, che cos’è, da cacciarle di capo quest’imperdonabile follìa che l’ha
presa, e cui io non avrei voluta assecondare nè anche un momento; poi,
quando quel cotale abbia la temerità di presentarsi di nuovo al nostro
portone, farlo metter fuori dal _concierge_, senza lasciargli salire
neppure uno scalino... E di dare quest’ordine m’incarico io...
— Enrico! — interruppe severamente la madre, — qui non si daranno altri
ordini fuor quelli ch’io vorrò: non dimenticarlo!
Il giovanotto arrossì un poco, si morse con bizza repressa i suoi
baffettini nascenti, ma chinò il capo e tacque.
La contessa soggiunse cambiando tono:
— Certo la prima cosa da farsi è di informare di tutto questo la nostra
Albina.
Suonò, e al domestico accorso alla chiamata, ordinò si dicesse alla
contessina di venir subito presso la madre.
— Tu, Enrico, — disse poi la contessa al figliuolo, — lascierai parlare
da me, e se avrai pure qualche cosa da aggiungere, spero lo farai con
quella temperanza che devi.
Il giovane non rispose che inchinandosi, e mordeva sempre con dispetto
i pochi peli delle sue labbra.
Albina comparve. Aveva l’aspetto tranquillo, si sarebbe potuto dire
rassegnato; l’occhio sempre limpido, ma con un raggio di mestizia; il
pallore, che era abituale al suo volto, ma cui prima rallegrava una
leggera tinta rosea, era ora un pallore marmoreo; il suo portamento, le
sue mosse avevano preso qualche cosa di grave.
— Eccomi, madre mia: — diss’ella soavemente, guardando con espressione
interrogatrice e anche un po’ inquieta la madre, il fratello e il
cugino, l’aspetto dei quali pareva annunziarle un discorso serio: — ha
da comandarmi qualche cosa?
La contessa la prese per mano e la trasse a sè con atto amorevole.
— Vieni qui, figlia mia, e dà ben retta alle mie parole.
Albina fece un atto che significava esser pronta a prestar tutta la sua
più viva attenzione, e diffatti stava ansiosa e timorosa ad ascoltare,
e il cuore le batteva penosamente, essendole nato il sospetto che
qualche cosa si fosse subodorato riguardo alla rivelazione fattale da
Matteo.
La madre, sempre tenendola amorevolmente per mano, continuò:
— Quanto e io e tutti della famiglia fossimo disposti ad assecondare
i tuoi desiderii, anche contro le nostre più fondate opinioni, te
l’abbiamo provato, credo, in buona misura; ma quando si scoprono nuove
condizioni, si presentano nuove vicende a dimostrare inaccettabile il
partito preso, sarai tanto ragionevole tu stessa da comprendere che
si ritorni indietro, che si ritiri il dato consenso, che si consideri
tutto come non avvenuto.
La fanciulla tolse la sua mano da quella materna e facendosi in là d’un
passo, disse scrutando collo sguardo i volti dei tre presenti:
— È riguardo al già stabilito mio matrimonio che dice codesto mia madre?
— Appunto; — rispose quest’ultima. E la figliuola con una certa vivezza
in cui pure sotto il maggior rispetto spuntava un po’ d’impazienza:
— Ma pare a me che a tal riguardo non è più possibile nè il ritornare
indietro, nè ritirare la data parola, cose che i Sangré d’altronde non
sono soliti a fare...
— Sì, — interruppe a suo modo Enrico, — i Sangré avrebbero fatto meglio
ad andar più guardinghi anche questa volta nell’impegnare la loro
parola, ma...
La madre, gli troncò le parole in bocca con uno sguardo pieno di
severità.
— La parola fu impegnata, — disse ella, — dietro un’erronea conoscenza
della persona e delle cose: quello che ora si è scoperto rende affatto
nullo ogni precedente impegno.
Albina ribattè con una fermezza che voleva parere tranquilla: ma un
certo balenìo dello sguardo, e un lieve tremolar della voce rivelavano
l’interno di lei turbamento.
— Che quel giovane non fosse nobile di nascita lo sapevamo già:
ce l’ha confessato con lodevole franchezza egli stesso. Io ritengo
assolutamente che il nostro medesimo decoro non ci permette più di
cambiare...
— Ascolta almeno quello che io ho saputo: — saltò su allora il
marchese, mentre la contessa Adelaide gettava uno sguardo di stupore
e di rampogna sulla figliuola cui non aveva mai vista così ostinata, —
e dopo sarai in grado di giudicare quel che si deve e quel che non si
deve.
La giovane serrò le braccia al seno e stette lì dritta, immobile,
in apparenza fredda ad ascoltare il discorso del cugino Ernesto, il
quale ripetè tutte le cose già dette poco prima; ella non diede altro
segno delle impressioni che le destassero le parole udite, fuorchè uno
stringere di labbra, un lieve incresparsi di una ruga in mezzo alle
sopracciglia; abbassò il capo, e quando il marchese ebbe finito, non
parlò, non mosse, non sollevò nemmeno lo sguardo.
— E così? — proruppe Enrico più impaziente: — capisci ora che tu non
puoi sposare un simile individuo?
Albina non rispose subito: la madre, il fratello e il cugino la
guardavano curiosamente, aspettandone le parole: ed essa, tenendo
sempre basso il capo, con voce sommessa, quasi stentata, disse dopo un
poco:
— Ho giurato:.. E credo che quando si giura si deve ad ogni modo
mantenere...
— Hai giurato!... A chi?... — domandò con autorevole accento la madre.
La fanciulla si riscosse spaventata delle parole che si era lasciata
sfuggire.
— A me stessa, — rispose vivamente, — a lui... a Dio!
— Ma non hai dunque sentito? — proruppe Enrico; — ma non hai dato retta
a quel che ha detto Ernesto? Quell’uomo non si sa di chi sia figlio....
— Sono supposizioni.... forse malevole.... di qualche nemico.... Egli
intanto possiede e presenta documenti....
— La sua ricchezza non si conosce onde abbia origine.
— È sempre la malevolenza che parla.... e non prova.
— E le sue attinenze con Matteo Arpione, così intime e tenute così
segrete che nessuno le ha mai sospettate?
Albina si riscosse: Enrico che se ne avvide e credette aver questa
volta colpito nel vivo, rincalzò:
— Con quell’Arpione che è odiato e disprezzato da tutti, che fece tanto
male alla nostra famiglia?
La fanciulla stette un momento prima di rispondere; poi voltando la
faccia dall’altra parte, disse con voce appena intelligibile:
— Colui lo avrà servito, come ha servito noi pure: il non essere
apparsa finora nessuna relazione fra di essi, vuol dire che il conte
di Camporolle, conosciuto qual fosse, lo ha allontanato da sè, lo ha
scacciato dal suo servizio.
— Ma e la viltà e la infamia di quel sedicente conte? Lui che s’umilia
a inginocchiarsi e domandare perdono in mezzo allo scherno, lui che
comunica o fa comunicare alla Polizia...
Qui Albina interruppe con forza:
— Ah quest’accusa dev’essere più menzognera ancora di tutte le
altre.... L’uomo che nostro fratello Ernesto ha giudicato degno di
stringere la sua mano, di essere chiamato da lui amico, di venire
ammesso nella sua famiglia, l’uomo con cui visse famigliarmente, come
fratello sotto la tenda, del quale vide atti di valore, e non udì mai
parola, non iscoprì mai traccia di bassezza; quest’uomo non è capace di
atti vili ed infami.
In lei parlava ora proprio il calore di una convinzione: e il capo
sollevatosi, lo sguardo sicuro, la voce risoluta, rivelavano anzi una
specie di rivolta a quell’eccesso di accuse.
La contessa Adelaide si alzò, venne presso alla figliuola, e mettendole
una mano sulla spalla, le disse con voce sommessa e accento non di
rimprovero, ma di rimpianto:
— Ah! tu dunque l’ami molto davvero, colui?
Albina ebbe come un’esplosione della verità nell’anima combattuta; fu
un’esclamazione, fu un grido.
— Io?... — proruppe mentre una tinta di color rosato le saliva
improvviso alle guancie. Ma la riflessione venne sollecita a frenarla;
si arrestò, curvò il capo, si nascose la faccia tra le mani e balbettò
sommessamente: — sì, sì, ve l’ho già detto.
Ernesto Respetti osservava attentamente la cugina, e mentre s’accertava
sempre più che ella era mossa da cagione che per loro era ed essa
voleva mantenere segreta, conosceva pure sempre più difficile eziandio
il trovar modo di penetrare cotal segreto.
— E or dunque» — diss’egli accostandosi alla giovane — qual è la tua
decisione in proposito?
— La mia decisione? — sussurrò Albina: — ma l’ho già manifestata....
Codeste sono calunnie, non ci credo.... In ogni modo.... e in ciò spero
che nessuno mi contraddirà... nulla si può nè si deve risolvere senza
l’intervento di Ernesto.
— Sì, hai ragione: — disse la madre: — Ernesto dev’essere informato di
tutto; e gli scriverò quest’oggi stesso.
— Ah! gli dica, madre mia, che la sua presenza è necessaria, che
s’affretti a venire: quando egli sia qui, quando egli abbia udito
codeste accuse e saputo appurarle, allora sapremo di meglio che cosa ci
tocchi di fare.
— È vero, — soggiunse il marchese, osservando più attentamente ancora
la cugina, — la presenza d’Ernesto sarà giovevole anche a quel povero
Giulio, che davvero fa compassione a vederlo, tanto è afflitto e
smarrito, e di cui ho temuto un momento qualche pazza risoluzione.
— Povero Giulio! — disse Enrico: — ei non meritava davvero un simile
dolore.
— No certo; — rincalzò la madre: — io da tanto tempo mi ero avvezzata a
riguardarlo come un figliuolo, e credo che il conte-presidente medesimo
avesse vagheggiato l’idea di salutarlo suo genero.
Albina non parve commuoversi; solamente le sue lunghe ciglia tremarono
mentre gli occhi si chinavano a terra; ogni tinta di color roseo
erale sparita dalle guancie e la sua pallidezza erasi fatta ancora più
marmorea di prima.
— Questa mattina, — continuò il Respetti, — quel povero Giulio l’ho
sorpreso che stava facendo le valigie per andarsene....
La fanciulla ebbe una lieve scossa.
— E dove voleva andarsene? — domandò Enrico.
— Pel momento a Genova.... Di là chi sa dove, se l’affetto autorevole
d’Ernesto non fosse riuscito a trattenerlo!... Parlava niente meno che
dell’America.... Poi d’andare a combattere se si fa la guerra....
— Ah! questo è meglio: — esclamò vivamente Enrico, il cui sguardo
brillò dello spirito guerresco della sua razza.
Il seno agitato d’Albina rivelava il palpito frequente del cuore; ma
ella rimaneva immobile, muta e a capo chino.
— Ora però è capitata a Giulio una misteriosa e strana avventura, di
cui egli vuol venire in chiaro prima di allontanarsi da Torino: — nel
dire queste parole, il Respetti teneva sempre d’occhio la cugina.
— Che avventura? — domandò Enrico.
— Di quest’oggi stesso, poche ore fa, una persona ignota, per
un messaggere sconosciuto, gli mandò una considerevole somma....
cinquanta mila lire, scrivendogli con calligrafia falsata che erano una
restituzione dovutagli.
Parve al marchese che Albina, su cui teneva sempre volto lo sguardo, si
riscuotesse e poi subito s’adoperasse per celare questo suo trasalto.
— Strano davvero! — esclamò la contessa: — ed egli non può supporre
donde gli provenga tal somma?
— Niente affatto; anzi mi ha appunto incaricato di interrogare Lei
zia, e voi altri suoi cugini se per caso aveste saputo dargli qualche
informazione, accennargli qualche indizio da cui poter argomentare,
indovinare l’origine di questo fatto.
Nè la contessa Adelaide, nè il cavaliere Enrico non sapevano nulla e
non avevano il menomo elemento da cui dedurre una congettura qualsiasi.
Albina, come se questo discorso non la interessasse, si fece alla
finestra, e appoggiata la fronte ai cristalli si diede a fissar gli
occhi nello spazio di fuori, ma con quello sguardo che nulla vede.
Dopo avere un po’ discorso di codesto caso straordinario, Enrico saltò
su:
— E ora che cosa intende di fare Giulio di sì misterioso denaro?
— Se non può venirne a capo di scoprire chi lo manda, ad ogni modo
egli non vuol ritenerselo, quel denaro, e lo convertirà in opere di
beneficenza.
— Benissimo! — esclamò Enrico: — un denaro sconosciuto!... Ci può esser
pericolo che sporchi le mani. Darlo via: ecco il meglio.
Albina fece una mossa vivace, si staccò dalla finestra e s’avanzò di
due passi verso gli altri.
— E perchè? — proruppe con certa forza. — Se gli si afferma che è una
certa restituzione, non c’è buona ragione da credere che questa non sia
la verità. È dunque roba sua, ed egli può ritenersela con tutta pace.
Queste parole parvero sfuggirle, ed ella pentirsene subito dopo averle
dette, perchè arrossì fino al bianco degli occhi e ratta si voltò per
tornare alla finestra.
— Oh no, oh no! — ribattè Enrico vivamente. — Noi non si è di quella
gente che possa vantaggiarsi di ricchezze di cui non sappia additare
chiara la legittima provenienza come quel signor Camporolle....
Albina parve cambiar d’avviso; s’avvicinò alla madre e le disse:
— Mi dà licenza di ritirarmi?
— Se le tue intenzioni non sono mutate, se tu non hai nulla da
aggiungere, è inutile prolungare questo colloquio, e puoi rientrare
nelle tue stanze.
La fanciulla fece un riverente inchino e si avviò.
— Ma ad ogni modo, madre mia, — proruppe Enrico, — mentre s’aspetta
l’arrivo d’Ernesto, spero che si troverà modo di tener lontano di casa
nostra quel signore.... chè s’io lo incontro mai, giuro al cielo, gli
do tal benvenuto....
— Enrico! — interruppe severamente la contessa.
— Oh perdono, madre mia! — soggiunse sollecito il figliuolo: — ma
frenarmi sarebbe forse impossibile....
— Per carità! — esclamò Albina spaventata, tornando indietro e
rivolgendosi a mani giunte al fratello: — ti prego, ti supplico, non
cimentarti con.... quel signore.... sarebbe una gran disgrazia....
Sfuggilo....
— Io? — esclamò il giovane, drizzandosi della persona con mossa piena
d’alterezza.
— Solamente per pochi giorni, — si affrettò a soggiungere la sorella. —
Ernesto stesso, te lo consiglierebbe, io te ne scongiuro....
— E io te lo comando: — disse autorevolmente la contessa.
— Io non cercherò di colui: — rispose Enrico inchinandosi, e poi
soggiunse piano mordendosi di nuovo quei suoi pochi peli di baffetti: —
ma se mi capita fra i piedi!...
Albina, ritrattasi nelle sue camere, scrisse due righe a Matteo
Arpione, con cui lo invitava a venire sollecitamente da lei che aveva
da parlargli.
E in questo medesimo frattempo il marchese Ernesto diceva alla contessa
Adelaide:
— No, non è l’amore per quel Camporolle che mosse e muove Albina....
Se Lei, zia, mi permette, io vorrei investigare la segreta ragione di
codesto strano contegno, cominciando coll’interrogare la Giustina.
La contessa Adelaide acconsentì, e la governante d’Albina fu mandata a
chiamare.


XXI.

Matteo Arpione era lieto e trionfante della riuscita di quello
spediente che aveva pensato e messo in opera. Grazie alle sue
accontagioni con Tommaso che aveva trovato modo di rendere quotidiane,
egli sapeva tutto quello che avveniva al palazzo Sangré, e riteneva
quindi per cosa sicura che Alfredo di Camporolle si sentisse ora l’uomo
più felice del mondo. Non fu quindi poca la sua meraviglia, quando,
osservatolo bene di nascosto, come da lungo tempo soleva, vide sulla
fronte del giovane una nube di inquieta preoccupazione, nella fisonomia
una certa amara tristezza che mal s’addicevano con quell’interna gioia
che il vecchio supponeva dovesse possedere il cuore del suo protetto.
Gli era che Alfredo, coll’acume che attingeva alla forza e alta
delicatezza della propria passione, penetrava nel cuore della fidanzata
e ci sentiva non esservi per lui scintilla di amore; tutt’altra cagione
da questa esser quella che l’aveva fatta accondiscendere alle nozze
con lui, e se ne crucciava, e se ne trovava umiliato, e si rodeva
di conoscere qual si fosse tale ragione; e soffriva nella lotta che
aveva luogo in lui fra l’amore che voleva farlo lieto del possesso
della vergine amata, in qualunque modo questo possesso gli venisse,
e un sentimento di dignità, di nobile orgoglio che gli diceva suo
dovere di non accettare quella mano se non l’amore, ma qualche forza
estrinseca costringesse Albina a dargliela. Ma qual poteva essere la
forza nascosta che ve la spingeva? Egli non sapeva affatto immaginarla.
Se avesse potuto parlare con tutta libertà alla ragazza, gli sembrava
che avrebbe avuto il coraggio d’interrogarla, di scenderle nel cuore,
dì ottenere supplicando ch’ella vi ci lasciasse penetrare a scrutare
lo sguardo di chi doveva pur esserle congiunto per tutta la vita; ma
un momento di completa libertà mai non era lasciato ai due sposi. Una
volta sola egli aveva potuto toccare di quest’argomento, volgendo ad
Albina parole che ella sola sentiva.
— Signorina: — disse Alfredo a bassa voce: — non le pare che io meriti
la gioia ineffabile di udire da Lei, proprio da Lei, proprio dalle sue
labbra, ch’ella associa volonterosa il suo destino al mio?
La fanciulla lo guardò freddamente.
— Gliel’ho già detto, — rispose; — e glielo dice più chiaro ancora il
fatto medesimo.
— Ah! me lo dice così asciuttamente?
Essa ebbe una mossa come d’alterezza che s’inalbera.
— Non saprei dirglielo di meglio, — interruppe con un misto di leggera
impazienza e di orgoglio.
— Perdono! — esclamò lui, non senza turbamento, — sono forse troppo
audace; ma Ella deve pur comprendere come il mio tanto amore desideri
la sua felicità solamente dal sincero e libero di lei volere, non da
nessun altro motivo estraneo che possa influire sulle determinazioni di
Lei....
Albina interruppe sollecita e quasi con una specie di sgomento.
— Ma no, signore.... nessun motivo estraneo.... Io sono affatto libera
della mia volontà.... e sono i miei congiunti che acconsentono a
secondarla.
La signora Giustina rientrava in quel punto e riprendeva il suo posto
presso la ragazza, e il colloquio rimaneva troncato senza che più si
presentasse opportunità di riprenderlo.
Ma, tornando a Matteo Arpione, questi alquanto inquieto di quelle ombre
di melanconia che aveva scorto sul volto di Alfredo, stava studiando il
modo di venire in chiaro delle cause di ciò per mezzo del buon vecchio
Tommaso, allorchè ricevette dalla contessina le poche parole con cui lo
chiamava sollecitamente a sè, ed egli s’affrettò a rendersi all’invito.
Albina lo accolse fiera e severa.
— Voi m’imponeste un giuramento che mi darà la sventura di tutta la
vita: — gli disse. — Ma dovete pure sentir l’obbligo di sciogliermi da
esso, quando si scoprano tali fatti che rendano, non dirò più gravoso,
ma addirittura impossibile il sacrificio a cui mi volete costringere.
L’usuraio ebbe negli occhi un lampo di minacciosa malevolenza.
— Vuol dire, — rispose amaramente, — che la signora contessina pensa di
non più mantenere l’impegno giurato.
— No signore, — ribattè con isdegnosa vivacità la fanciulla: — non vuol
dir questo, nè voi che ci conoscete potete pur pensarlo. Vi ripeto che
quanto voi siete venuto a chiedermi diventa assolutamente impossibile.
— Perchè?
— Vi par egli possibile che una contessa Sangré di Valneve dia la
mano a un tale.... il cui onore, per dir poco, è soggetto ad essere
contestato?
Arpione trasalì vivamente e un rosso cupo gli salì alle terree guancie.
— Chi glie lo contesta? — domandò con voce in cui vibrava la collera
più fiera.
— Quelli che conoscono il suo passato: — rispose superbamente la
contessina. — Gli contestano prima di tutto il nome che porta, gli
contestano la onorata origine delle ricchezze che possiede....
A Matteo era sparito il rosso dalle guancie: era diventato giallo.
— Chi osa dire codeste infamie? interruppe gridando. — Sono scellerate
menzogne, vili calunnie....
La contessina con isdegnosa alterezza fece un atto colla mano a
troncare le parole in bocca a Matteo.
— Un marchese Respetti-Landeri, — disse nobilmente, — non calunnia, non
mentisce....
— Ah! è il marchese? — disse coi denti stretti l’Arpione entro le cui
fosche pupille affondate corse di nuovo e più vivo quel lampo d’odio e
di rabbia.
— Il quale ha ripetuto innanzi a mia madre, a mio fratello Enrico ed a
me, quanto apprese dal conte Cavour medesimo.
Una contrazione di vero dolore sconvolse un momento la faccia di solito
così apatica di Matteo.
— Il conte Cavour! — ripetè smarrito.
— E non solamente quel che già vi ho accennato: ma altro ancora e assai
peggio.
Disse succintamente dell’umiliazione subita da Alfredo per la
prepotenza del duca di Parma, delle rivelazioni fatte alla polizia; il
vecchio mandò un grido soffocato, proprio come se lo avessero trafitto
con un pugnale.
— Accusano lui! — esclamò affannosamente. — Accusano lui!... Ma egli
non ne seppe nulla, non sa nulla ancora.... sono stato io che volevo
impedire il duello del conte Ernesto perchè mi stava a cuore di rendere
un servizio al conte-presidente; io che ho voluto ad ogni costo salvare
il conte Alfredo dal pericolo che gli vedevo soprastare....
— I fatti sono dunque veri, — soggiunse la contessina: — e voi credete
ancora possibile che io sposi l’uomo sul conto del quale corrono simili
accuse?
— Ma egli è innocente!...
— E come lo proverà?
— Io, io stesso proclamerò il vero accusandomi.
— E chi vi crederà? E quando vi si domanderà per quali legami siete
avvinto a quel signore da fare di vostro capo, senza ch’egli pur lo
sappia, tutto quello che fate in suo vantaggio, che cosa risponderete?
Matteo curvò il capo e tacque.
— Voi vedete adunque, — ripigliò la fanciulla con una certa autorità,
— che quello a cui mi avete forzata ad acconsentire, non può più
aver luogo e che siete nello stretto obbligo di liberarmi dalla mia
promessa.
Il vecchio scosse risolutamente la testa in atto di energica negativa,
ma non apri bocca.
Albina continuava, dando un po’ di dolcezza al suo accento fin allora
superbo:
— Dicevate adess’adesso che vi stava a cuore di rendere servizio al
conte mio padre. Ogni memoria dunque di quello che a lui dovevate non è
spenta ancora in voi?
— Oh no, signorina.
— Un po’ di gratitudine vi sta nel cuore?
— Sì.
— E voi siete pure stato cagione a lui di non pochi e non lievi
dispiaceri!
Il vecchio curvò di nuovo il capo e non rispose.
— Ebbene, invoco codesta memoria de’ suoi benefici per voi; — aggiunse
con maggior calore nell’accento la nobile fanciulla; — invoco il
sentimento di gratitudine che affermate di avere, il rimorso che dovete
pur provare d’avergli amareggiato alcuni momenti dell’esistenza; non
vogliate costringere la figliuola del vostro benefattore a sposare tale
che non ama, che non potrà forse stimare....
Matteo fece un energico atto di protesta.
— Domandatemi qualunque compenso per quella carta che m’avete venduta,
vi prometto che l’avrete.... ma liberatemi dal mio giuramento.
L’usuraio alzò il capo vivamente, e con forza quasi rabbiosa, gridò:
— No, mai!
La contessina s’accostò d’un passò al vecchio, e accrescendo ancora
la dolcezza del suo accento così da renderla quasi supplichevole,
soggiunse:
— Voi mi avete pur vista bambina... mi avete dimostrato parecchie
volte un affettuoso interessamento: una fra le altre... me ne
ricordo... in giardino, dove m’incontraste sola per caso... l’aia
era rimasta indietro e io correvo col mio cerchio... avevo da sette
anni... voi eravate seduto sopra la panca in fondo in fondo al viale
e contemplavate qualche cosa... un piccolo dipinto cerchiato d’oro che
stringevate con tutte due le mani... c’era la figura d’un bambino, d’un
bel bambino....
— O che memoria ha Vossignoria! — esclamò Matteo quasi commosso e con
una nuova luce negli occhi che pareva di lieto intenerimento.
— Io vi giunsi addosso all’improvviso senza che voi mi sentiste o
vedeste. — Che cos’è che guardi Matteo con tanta attenzione? — vi
dissi: — Lasciami vedere anche a me. — Voi dapprima faceste per
nascondere quel medaglione, poi cambiaste avviso e me lo mostraste
— Guardi contessina, — mi diceste: — non è vero che questo è un bel
ragazzo?
— Che memoria! che memoria! — esclamava Matteo sempre più commosso.
— E se ne ricorda ancora di quella figurina? Lei pure l’ha trovato
bellissimo quel fanciullo.
— Di ciò non mi ricordo più; ma mi ricordo che voi dopo mi prendeste
sulle vostre ginocchia, mi diceste amorevoli parole, mi accarezzaste i
capelli e finiste per darmi un bacio sulla fronte....
— È vero, è vero!... Io amava tanto i bambini! Ognuno che vedessi
m’inteneriva il cuore... E Lei era già fin d’allora così leggiadra e
così carina!
— In quel punto sopraggiunse la mia governante, e visto il vostro atto
ve ne fece severi rimproveri e minacciò dir tutto a mio padre e a mia
madre...
— I quali certo mi avrebbero scacciato per la temerità di quel mio atto
troppo famigliare.
— Io medesima pregai l’aia che tacesse...
— Sì, contessina, me ne ricordo: e glie ne fui grato...
— Ebbene, per quella memoria, per quella riconoscenza che m’affermate,
per quell’affezione che avevate per me, ora vi domando... — esitò un
momentino, poi soggiunse con voce più bassa e con qualche sforzo: — vi
prego....
Matteo la interruppe con una certa agitazione e turbamento:
— No, no, contessina, è inutile, non voglia insistere; ciò che
voglio, quello che le ho detto, veda, bisogna che sia ad ogni modo..
Si mettesse anche in ginocchio ai miei piedi, Lei signorina... e
perfino la signora contessa Adelaide e tutti quelli della sua famiglia
a supplicarmi... venisse pure dall’altro mondo il conte-presidente
medesimo... nulla ci farebbe; direi sempre no, e no.... e questo
matrimonio s’ha da fare.
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