Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 14

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si suol dire, a babbo morto, precipitando sempre più in errori, in male
abitudini, in disordini, in guai. S’innamorò d’una povera fanciulla del
popolo e la sposò; di che il padre, informatone, salì in collera ancora
più bestiale. Il bisogno lo fece ricorrere supplicando all’inesorabile
genitore; questi non gli rispose che colla sua maledizione. Si vide
costretto a domandare i conti e la consegna dell’eredità di sua madre.
Altro aumento dello sdegno paterno. Le sostanze poi di cui venne così
in possesso erano di non molto valore, e i debiti precedenti in breve
le consumarono; onde fu costretto a ricorrere a nuovi imprestiti e
sempre con più gravose e anzi scellerate condizioni. Era al punto che
quasi si rallegrò.... sì, lo confessava.... quando suo padre venne a
mancare, ed egli potè diventare padrone dell’eredità. Ma di questa una
bella parte gli aveva tolto il padre sempre implacato, lasciando tutto
quello di cui poteva disporre ad opere pie e a chiese: un’altra gran
porzione gli tolsero i creditori che subito gli saltarono addosso e che
convenne pagare, così che quanto glie ne rimase, si ridusse nemmeno a
un quarto di ciò che era stato posseduto dal padre. Luigi fu costretto
a vendere il palazzo e i terreni, e siccome tanto e tanto il soggiorno
di Lugo non aveva nulla che lo attraesse, fatto denaro liquido di tutto
ciò che gli restava, era andato a Macerata, il paese di sua moglie.
«Pur tuttavia, con quanto ancora aveva salvato dalla successione
paterna, egli avrebbe potuto vivere in una modesta agiatezza e gustare
così un poco di felicità terrena, se massima sventura non gli fosse
capitata nella morte di quella donna che aveva tanto amata. Nulla più
gli rimaneva al mondo; disperato, aveva dapprima voluto ammazzarsi,
poi si era deciso a stordirsi e consumarsi con ogni fatta d’eccessi.
Abbandonati que’ luoghi, aveva girato qua e là per l’Italia, finchè era
giunto a Parma, dove il destino dovea riunirci.
«In breve io fui a regolare tutti i suoi interessi, a procurargli
denari, ad acchetare i creditori; gli divenni quasi un amico, più
che un servitore di certo; lo consigliai, lo ammonii più volte, volli
ritrarlo da quella strada in cui non poteva che incontrare la rovina e
la morte. Ma tutto fu inutile; ed era troppo tardi oramai. Sentendosi
mancare la vita volle tornarsene al paese dove la sua diletta era
morta. A me gravava pure assai abbandonare mia moglie la quale doveva
fra non molto diventar madre; ma il povero etico mi pregò tanto! Era
d’altronde un rinunciare a non piccolo e certo guadagno l’abbandonarlo;
mia moglie stessa mi esortò a seguirlo; insomma, dolentissimo, ma
nascondendo il mio rincrescimento, mi decisi e partii col signor
Luigi alla volta di Macerata e di Lugo. Ma prima raccomandai la mia
Giuseppina ad una buona donna con cui avevamo avuto occasione di
stringere attinenza perchè vicina di casa e che appunto esercitava il
mestiere di levatrice, quell’Antonia che vi feci conoscere quando vi
condussi alla tomba di vostra madre. Anch’ella era povera come noi;
anch’ella viveva di stenti e di privazioni ed era fatta per capirci;
per compassionarci, per aiutarci in tutto quello che potesse.
«Luigi Corina stette poco a Lugo, solamente il tempo per terminare
certi interessi che ancora erano pendenti in seguito alla vendita
dei beni paterni: vide poca gente, non parlò dei suoi casi, e quando
partì, di lui e di quanto gli fosse occorso durante l’assenza, colà
sapevasi non molto più di prima. Io, invece avevo appreso tutto quello
che riguardava lui, la sua famiglia e le vicende tutte di questa. Si
recò a Macerata, deciso di morir colà, e gli ultimi due mesi della sua
vita, che furono tutta un’agonia, io non mi mossi più dal suo fianco
e lo assistetti come un amico, come un parente, come un fratello. Di
congiunti egli non ne aveva più nessuno, di amici non se n’era fatti;
gl’indifferenti non voleva più vederli: rimasi io solo al suo capezzale
mentre soffriva, mentre veniva lentamente estinguendosi, mentre moriva.
«Nelle lunghe notti vegliate, quanti pensieri, quante fantasticherie,
quante pazze chimere non m’assalsero! La mia mente volava a quel luogo
dove avevo lasciata la donna adorata: la vedevo soffrire e stentare,
lei che avrei voluta circondata di ogni agiatezza, di ogni sfarzo:
vedevo già in anticipazione il bambino che ne sarebbe nato, che
sarebbe mio!... Certo egli aveva da essere un maschio, n’ero sicuro, lo
volevo, ci avrei scommessa la testa. Ma quel maschio, quel figliuolo
mio, nato dal mio sangue, carne della mia carne, ossa delle mie ossa,
come dice la Bibbia, che scorgevo, che vagheggiavo bello e aitante e
pieno d’ingegno, lo volevo pure felice, ammirato, invidiato dal mondo.
Che avesse la sorte di suo padre oh no! avrei dato tutto il sangue,
l’anima, perchè non l’avesse. Giuravo a me stesso che l’avrei fatto
ricco, potente, l’avrei imbrancato nella schiera di coloro che godono
e comandano nel mondo, gli avrei fatto una fortuna, un nome, un titolo,
gli avrei dato tutto ciò che abbaglia gli uomini e se ne fa ammirare.
«Ma come?... Quante ne pensai per afferrare la ricchezza!... Feci
scorrere tutti i mestieri, tutte le professioni, tutte le temerità che
possono guadagnar denaro. Un lampo mi mostrò a un tratto il cammino. Il
mio povero padrone che languiva era stato vittima dell’usura...
Qui Alfredo fece un moto di sì viva ripugnanza che il vecchio
s’interruppe.
— Ah per arricchire mio figlio, — riprese poi dopo con una specie di
bravata, — avrei scelto qualunque cosa; per torlo a quelle vergogne,
a quelle umiliazioni, a quei disprezzi che io aveva sofferti, avrei
commesso qualunque misfatto... Capivo che avrei trasmesso a mio
figlio un nome disonorato; ma se avessi potuto acquistargli un altro
nome, nascondere a lui e alla gente la sua origine, dargli un titolo,
un’altra famiglia!... Il mio sguardo si fermava su quel misero che
sonnecchiava nel languore della sua malattia mortale. Egli aveva un
nome senza macchia: se glie lo avessi potuto prendere per mio figlio!
Io, dopo, avrei senza riguardi potuto comprare dalla fortuna la
ricchezza coll’infamia del mio nome.
«Quando questo matto pensiero mi venne la prima volta, lo respinsi
come un assurdo impossibile, mi dissi che non ne avrei nè anco avuto
il coraggio se mi si fosse presentata la sicurezza di poterlo attuare.
Rinunziare a mio figlio, io che l’amavo già tanto, prima ancora che
fosse nato! Ma se uno fosse venuto da me a dirmi: «dammi tuo figlio ed
io lo farò ricco,» io gli avrei detto di no. Era però ben diversa cosa
darlo ad altri; io sognava di allevarmelo io, ma come un essere a me
superiore, come un mio padrone, e servirlo, e adorarlo, e vederlo, e
sentirmi beato d’averlo fatto io grande, ricco, felice. Tal pensiero
come un chiodo mi si conficcò nel cervello, e non mi lasciò più.
«In quella, contraddicendo alle informazioni di mia moglie, che, per
non inquietarmi, mandava sempre buone novelle, Antonia mi scriveva che
la povera Giuseppina soffriva e che quanto più s’appressava il termine
della sua gravidanza, tanto maggiori se ne facevano le sofferenze.
Volli a un punto abbandonare il povero sor Luigi; ma egli mi pregò
tanto che non ebbi il coraggio di lasciarlo solo in quegli ultimi pochi
giorni che gli rimanevano.
« — Sarete presto liberato, — mi disse con amara mestizia, — e io, in
compenso dei vostri servizi, vi lascierò tutto quel poco che mi rimarrà
ancora al momento della mia morte.
«Morì pochi giorni dopo; nessuno venne a pretender nulla della
successione, io presi tutto, pagai gli ultimi debiti e mi trovai in
possesso di una somma di denaro, e, quello che era più importante pel
disegno che s’era venuto sempre più maturando nel mio cervello, di
tutte le carte della estinta famiglia Corina.
«M’affrettai verso Parma. Lungo il viaggio determinai più nettamente
e con incrollabile risoluzione il mio disegno. Il figlio che aveva
da nascermi avrebbe portato il nome incontaminato dei Corina. S’egli
nasceva a Parma ciò era impossibile; bisognava dunque condurre la
giovane madre in un altro luogo, dove poterla far credere la vedova
di Luigi Corina. Trovai la povera mia moglie assai malazzata; ma il
piacere di vedermi, l’assicurazione datale che non ci saremmo più
separati, produssero in lei un tal miglioramento che fece meravigliare
anche la levatrice Antonia.
«Provai un giorno a comunicare il mio disegno a Giuseppina... Ella non
ne volle sapere; rinnegare suo figlio, mai, diceva essa, non ci avrebbe
acconsentito a niun patto; non mi comprese, e per acchetarla finsi di
rinunziare anch’io al mio disegno; ma speravo poterla convincere col
tempo, e frattanto non cessavo dal pensare a preparare tutto quello che
poteva conferire alla riuscita.
«L’Antonia mi veniva dicendo che mia moglie stava tanto meglio, che
l’epoca della sua liberazione non era ancor vicina, ed io, sempre
fermo nella mia idea, pensai per prima cosa esser necessario condurla
via dalla sua città. Trovai il pretesto che gli affari lasciati dal
signor Corina richiedevano ancora l’opera mia e la mia presenza a
Lugo, e siccome io aveva trovato molto più conveniente lo stabilirci
colà, pensavo miglior consiglio menarci subito anche la moglie per non
dividerci più.
«Giuseppina, buona com’era, acconsentì. Avevo i denari del Corina da
poterla far viaggiare come una signora; presi una carrozza di posta e
partimmo.
«Sciagurata risoluzione!... Forse senza ciò ella avrebbe potuto
sopravvivere...
L’emozione gli troncò le parole. Alfredo mormorò con voce di pianto:
— Povera madre mia!
— Tutto quello che avete appreso al villaggio dove vi ho condotto,
— ripigliò Matteo, — tutto avvenne come vi fu detto... Ci fermammo
in casa del Battistino; io corsi a prendere l’Antonia... pagai tutto
quello che volle perchè dicesse e facesse a mio senno... presi meco il
cognato Carra, dal quale con preghiere, regali e promesse ottenni pure
che mi assecondasse, e... tutto riuscì a seconda dei miei desiderii...
Ma la mia Giuseppina mi morì!...
Qui un vero singhiozzo l’interruppe; stette un momento e poi riprese
con un accento d’infinito dolore, di cui non lo si sarebbe neppure
creduto capace:
— Ah! quello fu uno spasimo!.... Per un momento rimasi come stupidito:
non vidi più nulla, non pensai più a nulla; nulla più al mondo
esisteva per me fuorchè quel cadavere che mi stava rigido innanzi agli
occhi. Che notte orribile, tremenda ho passata! Se mi fossero venuti
ad offrire la morte, l’avrei accolta come un regalo. Mi pareva non
altro restarmi di meglio a fare che prendere meco il mio bambino e
seguire al di là della tomba quella cara, quell’unica donna che avessi
amato, che abbia amato mai! Il mio bambino.... Esso era là bello,
roseo, cogli occhioni aperti che mi parevano già intelligenti, che
mi sembravano guardare nel mondo stupiti e sgomenti, che mi sentivo
scendermi nell’anima e ricercarmi il più intimo sentimento quando
si fissavano nei miei... Ella, Giuseppina, la povera madre, me lo
raccomandò quel bambino con tutta la forza, tutta l’efficacia d’una
madre che muore. Parve avere accettato la mia idea... essa moriva, non
poteva più gloriarsi d’averlo per figlio, che cosa le importava più
ch’egli portasse questo o quel nome? Mi disse: «Fa di nostro figlio
quello che ti pare; ma fallo onesto, buono e felice!» Lo giurai. Sì,
lo volevo anch’io onesto e felice: ma per essere tutto questo, per
fuggire le tentazioni del male e godere le gioie del mondo bisognava
farlo ricco... «Lasciane la cura a me,» dissi: «e sarà invidiato dal
mondo». Tu avevi le pupille volte al cielo, e gemicolavi sommesso!..
Ah! la notte ch’io passai fra lei morta, a cui avevo giurato far
felice la tua vita, e te neonato a cui rimanevo solo nel mondo; quella
notte eterna, terribile e santa fece di me un altr’uomo... Me votai
a ogni tormento, a ogni vergogna, ma per te volli ogni distinzione
sociale... Tu non avevi a nessun patto da arrossire d’un padre plebeo,
volgare, forse odiato e disprezzato... Nascondere la mia paternità era
un gran sacrificio.... Ti feci crescere, educare lontano da me... e
lavorai, mi frustai l’anima, il corpo, la mente a raccogliere denaro.
Sono riuscito!... Che m’importava la mia umiliazione? Essa serviva ad
esaltare te... che meco stesso, in silenzio, chiamavo, con orgoglio
indicibile, mio figlio! mio unico figlio! mio dilettissimo figlio!
Matteo s’era taciuto come aspettando risposta, e stava col capo
basso, gli occhi rivolti a terra, tremante, timoroso delle parole che
sarebbero uscite dalle labbra di suo figlio.
Questi, per un poco, per un tempo che al disgraziato parve lungo come
un’ora di dolore, — non parlò, non si mosse. Teneva sempre il viso
chiuso, il corpo curvo in una postura di abbandono quasi disperato: lo
avreste detto insensibile. E frattanto la mente stanca del corrodente
pensiero, pareva a lui stesso venirgli meno, assopirsi nell’idiotismo.
Era di lui che si trattava? Erano casi suoi quelli intorno a cui si
travagliava impotente il suo spirito? Erano sogni, tormenti d’incubo,
follie di cervello malato o realtà tremende? Farlo felice! Quell’uomo
che diceva di essere suo padre, gli giurava di aver voluto farlo
felice!... Felice!... E a qual punto lo aveva ridotto! Non aveva più
forza a sdegnarsi, a ribellarsi, sentiva un generale esaurimento di
tutto l’esser suo.
— Che faceste voi? — disse poi lento, a voce fioca, stentata, senza
alzare il capo, senza muoversi, senza guardare colui al quale parlava.
— Il primo bisogno a noi, la prima felicità è la famiglia; cominciaste
per torgliermela.... Avessi avuto alcuno da amare!... A me la morte
rapì dunque la fortuna di avere una madre; e anche un padre mi è sempre
mancato!... Voleste farmi ricco e nobile; non v’è nobiltà che non poggi
sul valore e sull’onore; non v’è ricchezza che valga, se non acquistata
onestamente.... Voi ciò dovevate pensarlo.... Mi cacciaste in
un’esistenza falsa e fittizia, dove non ho mai sentito un affetto....
Ah mi aveste lasciato povero.... ma orgoglioso di poter nominare mio
padre!
L’Arpione rispose con un gemito: l’altro continuava sempre con quel
tono abbattuto, dolorosissimo per disperata rassegnazione.
— E ora, al punto in cui m’avete ridotto, che faccio più di me, della
mia vita? M’avete condotto fin dentro al tempio della grandezza e
della felicità umana, ma per farmele ignominiosamente scacciare quando
appunto il più acceso desiderio me ne strugge: avete, per innalzarmi,
accumulato un piedestallo d’inganni, di frodi, di infamie, perchè a un
tratto mi crollasse sotto, e io, ignaro, innocente, pure precipitassi
nel fango e mi vi lordassi tutto e ne fossi perduto per sempre. Oh! il
più accanito nemico non avrebbe potuto, coll’ardente e tenace volontà
della vendetta, prepararmi una sorte peggiore!...
Il vecchio si torceva le mani in un accesso di furioso dolore.
— Ah non dire così!... — esclamava ansante. — Questo è per me troppo
supplizio.... Non avrei mai creduto di venire a questa.... Son tanti
anni che lavoro e che stento. Ogni privazione, ogni umiliazione, ogni
vergogna quasi mi tornava una gioia. «È per mio figlio!» mi dicevo: e
bastava. E ora tutto rovinerebbe?
Tutto si rovescierebbe sul capo a me.... e a te!... Pazienza a me! Ci
conto, l’aspetto, mi piace. Ch’io rimanga pure schiacciato: ma tu!... O
che non c’è rimedio? Non c’è qualche modo da uscirne tu, puro, nobile,
grande qual sei?
Alfredo scosse il capo e disse fermamente con quel medesimo tono di
abbattimento mortale:
— No, non ce n’è.... bisogna ingoiar tutto l’amaro calice, fino a
morirne....
Matteo interruppe con un grido:
— Per amore di Dio! — disse disperatamente: — per la memoria di tua
madre, non parlar di morire. Tu sei mio: la tua vita è mia, ogni goccia
del tuo sangue la devi a me, ed è mio tesoro. T’ho data la ricchezza,
io a te; ma la mia ricchezza sei tu, la mia felicità sei tu.... e non
puoi privarmene.... Calpestami, maledicimi anche, ma conservami la tua
vita.... Ch’io possa vederti, contemplarti, ammirarti!
Alfredo non si mosse, non fe’ cenno, come se non avesse neppure inteso;
e l’altro più ansioso e spasimante:
— Piuttosto, se alcuno ha da morire; se la giustizia umana, crudele e
cieca qual’è, o anche la divina, che non si manifesta molto migliore;
se una barbara necessità vuole il sacrificio di una vita, ecco qui
la mia. Son pronto, Alfredo, te lo giuro. T’ho dato tutto di me: la
quiete, l’onore, la coscienza; darò volentieri anche il sangue. Ma tu,
no; tu no!... A te la gioventù sorride.... sorriderà ancora la vita....
Sì, sì, sta certo.... Persuaditi: al mondo chi fa tutto, chi può tutto,
è la ricchezza. Tu l’hai.... Vedi: io ho ancora più denari di quello
che crede il mondo.
Il giovane fece un atto di ripugnanza.
— Andremo via di qua, — soggiunse vivacemente Matteo. — Ci recheremo
tanto lontano che non il menomo rumore giungerà fino a noi di questo
paese, di questa gente, di questa ridicola, corrotta ed ipocrita
società.... troverai amori quanti ne vuoi.... e adulatori e omaggi
quanti se ne possa desiderare....
Alfredo interruppe alzandosi con atto di impazienza dolorosa.
— Basta!... Voi non mi capite.... Noi non parliamo il medesimo
linguaggio.... e non ci potremo intender mai. Quello che sia da farsi,
non lo so ancora; bisogna che ci pensi, seriamente, a lungo, chiamando
a raccolta tutte le forze del mio animo, tutte quelle della mia
intelligenza. Lasciatemi solo.
Il vecchio fece un gesto, ma Alfredo non lo lasciò parlare.
— È necessario! — soggiunse con forza; — lo voglio.... Quello che avrò
deciso, lo farò sapere anche a voi.... A voi prima di tutti.
— Ma voi mi promettete, Alfredo...
— Non vi prometto nulla: — interruppe violentemente il giovane.
Matteo si buttò in ginocchio e giunse le mani.
— Per pietà! Per carità! — gridò. — Non scacciatemi con uno spavento sì
terribile in cuore.... Voi non pensate a morire?
Alfredo stette un momento prima di rispondere: un momento che per
Matteo fu un’agonia; si passò la mano sulla fronte lentamente; poi
disse a voce bassa:
— Ci penso.... ma non lo farò....
— Oh ve ne supplico.... non per me.... in nome di quell’angelo della fu
vostra madre.
— Alzatevi.... Sì, per mia madre... Sarà una espiazione la vita....
un’espiazione di falli non miei.... un’espiazione necessaria.... Ah!
credendo fare la mia felicità, voi mi avete fatto molto male.... Dio ve
lo perdoni!
Il vecchio si trascinò in ginocchio fin presso di lui e tentò di
prendergli una mano.
— E tu? — disse ansioso. — E tu? Non mi perdoni tu?
Prima che Alfredo avesse tempo a rispondere, s’udì presso all’uscio
il rumore d’un passo d’uomo che s’accostava e quello d’una mano che si
posava sulla serratura e stava per aprirla.
— Alzatevi! — gridò con accento imperioso Alfredo, e preso alle braccia
il vecchio lo fece drizzare in piedi.
L’uscio si aprì: padre e figlio si volsero ambedue a vedere chi entrava.
Sulla soglia, fermandosi un momento a guardare chi c’era in quella
stanza, prima di inoltrarsi, stava con aria più seria del solito, quasi
solenne, sempre colla sua solita agiata eleganza, il Maggiore delle
Guardie, conte Ernesto Sangré di Valneve.


XXXII.

Il primogenito dei fratelli Sangré, presentatosi all’uscio del
quartiere occupato da Alfredo, non era stato respinto dai domestici che
conoscevano l’amichevole famigliarità che esisteva fra quel visitatore
e il loro padrone; d’altra parte Alfredo non avea neppur pensato di
dare l’ordine che non si lasciasse entrare nessuno, onde appena fu se
osarono dire al conte Ernesto che in quel momento il giovine era chiuso
in camera con un tale cui aveva mandato a chiamare per cose, pareva, di
molta premura.
— Chi è? — domandò il Maggiore con quell’altezzosa noncuranza che a
quella fatta di gente, impone rispetto e obbedienza.
— Il signor Arpione, — risposero senza esitare.
— Ah! — esclamò il conte, a cui la presenza dell’usuraio in quella
casa fece per una parte cattiva impressione e per altra parve proprio
opportuna a quanto voleva ed era venuto per fare. — Benissimo. Sono
appunto venuto a tempo. Ci ho da entrare ancor io nei discorsi che si
tengono fra que’ due.
E senz’altro camminò verso la camera di Alfredo, col passo sicuro d’uno
in casa sua.
Aprì l’uscio e si presentò dicendo con accento nella cui usata cortesia
c’era insieme un po’ di scherno, un po’ di amarezza e una ferma
risoluzione:
— Disturbo forse?... Me ne rincresce; ma credo che la mia venuta sia a
tempo e necessaria.
Alfredo e Matteo s’erano vivamente allontanati l’un dall’altro,
tenevano ambedue il volto basso e gli occhi a terra; sulle guancie
smorte del giovine corse ratta, per isvanir tosto, una lieve fiamma di
rossore. La vergogna lo possedeva. In quel piccolo uomo, dall’aspetto
orgoglioso e gentile, dalle forme fini ed eleganti, dal contegno agiato
e pieno di garbo, dalla pronunzia graziosamente un po’ blesa, dalle
maniere aggraziate che pur lasciavano trapelare il sentimento d’una
superiorità, egli vedeva stargli innanzi quella sfera di elevatezza
e di splendore in cui egli era pur vissuto, a cui aveva pensato fin
allora di appartenere, ed a cui doveva rinunciare colle beffe e colla
vergogna. Nella bellezza di quella fronte, nella delicatezza di quei
lineamenti, accompagnate e temperate dall’espressione virile d’un
coraggio e d’una coscienza di soldato valoroso, egli travide l’immagine
di quella bellezza, di quella grazia che gli erano state come una
rivelazione della sublimità ideale, dell’eterno femmineo incarnato
nella perfezione delle forme, ch’egli aveva adorato, e adorava tuttora.
E lì in presenza, come a far contrapposto, ombra da produrre maggiore
spicco alla luce, stava nell’usuraio, Matteo Arpione, quanto si poteva
vedere di più volgare, di più basso, di più spregevole. E questa era
per Alfredo la realtà. Nell’altra il sogno, la illusione ora scomparsa:
l’ignobile usuraio era suo padre. Da questo ratto pensiero in lui il
rossore, la confusione, cui Ernesto diede interpretazione assai più,
assai troppo avversa ad Alfredo.
Nessuno rispose al conte Sangré, il quale, squadrato ben bene i due
uomini che si trovavano nella camera, con accresciuta l’espressione
dell’amarezza, del disgusto, della severità, s’inoltrò.
— Forse capirai subito, Alfredo, la cagione della mia venuta: —
soggiunge rivolgendosi al giovine. Gli parlava ancora colla seconda
persona come ad amico e famigliare, ma pure l’accento con cui le parole
erano pronunciate levava ogni affettuosità a quella forma e metteva
fra i due una gran distanza. — E mi risparmierai la pena di doverlo
dire espressamente. Ciò farà che potremo entrar subito nelle viscere
dell’argomento e sbrigarci con sollecitudine di cosa che è certo
ingrata a tutti.
Fece una pausa; nessuno rispose, nessuno parlò. Matteo stava curvo,
quasi direi rannicchiato, raggomitolato nella sua vergogna; Alfredo
avrebbe voluto dir qualche cosa e non sapeva, e si sentiva sempre
maggiore, sempre più dolorosa la confusione, e rimaneva immobile,
manifestando il suo turbamento soltanto coll’ansare del respiro.
Ernesto volse di traverso uno sguardo all’usuraio.
— E tanto meglio che sia appunto presente qui... anche costui.
È indescrivibile a parole l’accento di profondo disprezzo, quasi
di schifo con cui fu pronunciato quel «costui.» Alfredo se ne sentì
correre un brivido pei nervi e un calore alla faccia.
— Signor conte, — diss’egli reprimendo la sua emozione, e cominciando
lui a lasciare le forme dell’amichevole domestichezza, come credeva
che, per ogni riguardo, fosse dover suo di fare: — credo che Lei sia
in errore. Sarà molto meglio che qualunque spiegazione debba aver luogo
tra noi, avvenga senza che alcuno vi assista.
E fece un cenno a Matteo perchè si allontanasse; il vecchio si curvò e
s’avviò con passo sollecito verso l’uscio.
— No, signore: — rispose vivamente il Sangré, passando subito anch’egli
con tutta naturalezza alle maniere cerimoniose di due che non sono
amici: — mi rincresce contraddirla e manifestare in casa sua un
desiderio, a cui insisto perchè Ella si arrenda. Quest’uomo deve udire
le mie parole.
Matteo guardò con espressione di umile richiesta Alfredo, il quale,
perplesso, chinò il capo. Al vecchio, in verità, piaceva più il
rimanere, perchè paventava triste conseguenze da quel colloquio e
parevagli che, lui presente, si sarebbero potute scongiurare. Si
ritrasse mogio mogio in un canto e rimase.
Ernesto di Valneve riprese allora a parlare pacato, fermo, con
autorevolezza e severità.
— Dopo quello che è avvenuto, signor... — (egli esitò un momentino,
come cercando il nome che avea da dare a chi lo ascoltava, e poi non
trovandone altri soggiunse) — signor Alfredo, Lei sarà persuasa che non
occorre più ombra di dichiarazione da parte sua perchè noi ci riteniamo
sciolti da un impegno che solo uno scellerato inganno ci aveva indotti
a contrarre.
Alfredo non si mosse, non rispose che con un sospiro che poteva dirsi
un singulto:
— Lei capirà pure che il duello fra mio fratello e Lei non può più aver
luogo...
Alfredo curvò il capo più basso.
— Ma ammetterà eziandio come a me, il quale ho dato a Lei confidenza e
amicizia, che l’ho introdotto nella mia famiglia, a me che non posso
credere ancora a tanto rea condotta, Ella deve dare una spiegazione.
Ella deve dire come ha fatto suo protettore, suo complice un uomo
così vile, come ha accettato di servirsi di mezzi tanto ignobili e
scellerati...
L’Arpione non si potè contenere; si fece innanzi agitato e interruppe:
— Scusi, signor conte Ernesto... Qui il signor... — (neppur egli
non osò più dire nè conte, nè chiamarlo Camporolle) — non ha saputo
nulla... non sa nulla ancora, glie lo giuro e...
Il conte Sangré gli ruppe le parole in bocca con una sola occhiata, ma
una occhiata da far desiderare di sparire sotto terra chi la riceve,
per poco abbia ancora di amor proprio e dignità personale.
— Nessuno v’interroga voi, ora, — disse con quell’accento di
oltraggiosa superbia che sanno usare i nobili piemontesi: — e un vostro
pari, in mezzo a gente onorata, non deve aprir bocca che interrogato.
Matteo si ricantucciò spaurito; Alfredo fremente si morse le labbra.
— Gran Dio! — pensava il primo: — innanzi a lui essere trattato in
questo modo!
— E quest’uomo che così impunemente s’insulta è mio padre! — diceva a
sè stesso il secondo con inenarrabile angoscia.
— Che ella dunque non sappia quanto quel miserabile ha fatto in nome
di Lei? — riprese il conte Ernesto parlando ad Alfredo con un piglio
scettico insieme e scrutatore. — Vorrei crederlo... lo desidero
ardentemente per la memoria di quei giorni che abbiamo passati insieme
in Crimea.
— Ma che cosa?... Parli chiaro: — disse con isforzo Alfredo, che
sentiva, per segreto presentimento, di essere sul punto di apprendere
qualche nuova e forse peggiore infamia.
— No: — gridò Matteo slanciandosi di nuovo innanzi come spinto da
terrore. — Davvero che il signor Alfredo non sa nulla... e mi pare
inutile...
Il conte Ernesto questa volta non parlò neppure; volse uno sguardo di
sdegnosa fierezza olimpica al vecchio, e fece un gesto: il gesto con
cui si manda a rintanarsi un botolo che v’infastidisce.
Alfredo, da parte sua, disse con impazienza:
— Lasciate... lasciate parlare il conte... Non è inutile... è
necessario, vi ripeto, che io sappia tutto.
Matteo indietrò soffocando un gemito.
— Parli, — soggiunse il giovine, volgendosi al conte: — e vediamo se
Lei possa apprendermi cosa che io ancora non sappia.
Sangré s’inchinò leggermente, e riprese a dire:
— Ella dunque deve sapere che quel cotale ha tentato in favore di Lei
un ricatto, non so se più impudente o più scellerato, osando minacciare
d’uno scandalo intorno al nostro casato, d’un disdoro al nostro nome,
d’un’onta alla memoria sacra di nostro padre; minacciandone, dico, una
debole, inesperta fanciulla, per farla acconsentire alle nozze con Lei.
Alfredo si volse con impeto verso il vecchio.
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