Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 01

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ARISTOCRAZIA
II.

IL
SEGRETO DI MATTEO ARPIONE

_ROMANZO_
DI
VITTORIO BERSEZIO

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1881.


Tip. Treves.
_Gli editori hanno compite tutte le formalità richieste dalla legge
e dalle convenzioni internazionali per riservare tutti i diritti di
proprietà letteraria e di traduzione._


I.

Era una triste giornata nel palazzo Sangré di Valneve: l’anniversario
della morte del conte-presidente.
Già quattro volte era tornato questo giorno funesto e sempre tutti i
componenti della famiglia s’erano raccolti a celebrarlo solennemente,
con mite, ma sincero e profondo cordoglio. Il primogenito Ernesto,
diventato maggiore dopo il suo ritorno dalla Crimea, accorreva da
qualunque luogo in cui egli si trovasse di guarnigione, fosse pur la
Sardegna; i coniugi Respetti-Landeri venivano da Milano, e tutti quanti
si erano trovati aggruppati intorno al letto di morte di quell’uomo
giusto, si ritrovavano di nuovo raccolti a rievocarne più viva in quel
giorno la memoria, a confermare con nuove lagrime il rimpianto della
sua perdita, a invocare con più ardenti preghiere la benedizione dello
spirito di lui sul capo dei superstiti.
La giornata soleva così occuparsi. Al mattino di buona ora tutti
s’accoglievano nella gran sala dei ricevimenti solenni, dove nel centro
della maggior parete, al punto più in vista, al posto d’onore, stava
il ritratto di grandezza naturale del defunto, circondato quel giorno
di fiori e di corone frescamente raccolti e intrecciate. Dopo essersi
un poco trattenuti colà a parlare di lui, in presenza dell’immagine
di lui, si recavano tutti alla messa funebre che si faceva dire
alla parocchia in suffragio di quell’anima, poi, tornati a casa, si
visitava la camera in cui il conte era morto, la quale si conservava
precisissimamente nello stato in cui trovavasi in quel fatale momento,
e della quale il solo vecchio Tommaso curava la pulitezza e l’assetto;
là ciascuno, in silenzio, o pregava o meditava, contemplando quel letto
in cui certo gli pareva scorgere ancora il pallido viso e la nobile
fronte del virtuoso, retto, integerrimo gentiluomo. Più tardi, dopo
un pasto preso in comune, tutta la famiglia partiva pel villaggio di
Valneve, dove nel sepolcreto in cui da secoli scendevano a giacere
i Sangré, sotto una lapide che portava incisi soltanto un nome e una
data, si sfaceva la salma di quell’uomo benedetto. Là nuove preghiere,
nuove lagrime, nuova e che pareva ancora maggiore comunicazione fra i
vivi sempre memori e il diletto estinto sempre diletto, e che certo non
aveva neppure nell’altra vita dimenticato i suoi cari, il suo sangue.
L’ora è affatto mattutina: nel gran salone il vecchio Tommaso, solo,
sta disponendo, rassettando, attacca i fiori alla cornice del ritratto,
spolvera, ordina le seggiole; di belle volte si interrompe nel lavoro,
getta uno sguardo su quella mesta, un po’ severa, ma buona faccia
d’uomo dipinta, scuote il capo, sospira e si rasciuga gli occhi.
A un tratto ode nella stanza vicina un passo accostarsi, un passo
d’uomo franco, risoluto, affrettato: egli lo riconosce: le sue vecchie
labbra sorridono lievemente; si volge con lieta aspettazione verso
l’uscio. Il primogenito, il capo della famiglia non è ancora arrivato,
ed egli sa pure che non può mancare, che non mancherà; quel passo
deve essere il suo, lo è dicerto. Ecco che l’uscio si apre vivamente:
Tommaso non si è ingannato: entra Ernesto Sangré di Valneve colla sua
bella uniforme di maggiore delle guardie.
Sono passati cinque anni da che lo abbiam visto a Parma sfidare
l’ufficiale austriaco von Klernick e battersi con lui. Fisicamente egli
non è cambiato dimolto: passa di poco i trent’anni, e benchè comincino
a cadergli in alto della fronte e alle tempia i finissimi capelli
biondi, benchè più folti gli si sieno fatti i baffi che coprono il suo
fine sorriso, nella carnagione, nel brillare degli occhi c’è ancora
tutta la vivacità della gioventù: ma nell’espressione della fisonomia,
nel complesso della figura appare qualche cosa che dinota in lui un non
lieve mutamento morale, una maggior serietà, una più cauta riflessione,
un più preciso, più profondo e più vivace sentimento, direi, di
responsabilità e del dovere. Sotto questo rispetto, diffatti, Ernesto
è cambiato d’assai, tanto che del giovane leggero, un po’ scapato,
bizzarro, anche temerario, spendereccio d’un tempo, non è rimasto in
lui più nulla affatto. La parola che ha data solennemente al padre
moribondo, egli l’ha scrupolosamente mantenuta; con brava risoluzione
ha assunto il nuovo grado di capo della famiglia e fu per la madre
un aiuto, un argomento di consolazione, pel fratello e la sorella un
sostegno, un consigliere, un esempio di nobili tratti ed affetti. Pel
cugino eziandio, per Giulio, egli ebbe l’amorevolezza d’un fratello e
il giovanetto lo ripagò d’un affetto compagno, d’una confidenza quale
non aveva per nessuno, timido, riservato e quasi schivo qual era per
natura, e d’un rispetto e d’una stima poco inferiori, se non affatto
uguali, a quelli che aveva avuti per lo zio defunto.
E, come Giulio, tutti della famiglia hanno accresciuto per Ernesto,
se non l’amore, chè lo amavano immensamente già prima, la deferenza e
quella specie di domestico ossequio che riconosce in chi n’è degno una
certa maggioranza liberamente consentita e nobilmente accettata.
Egli ora trovavasi in guarnigione a Genova; trattenuto da ragioni di
servizio, non aveva potuto partir prima, ed arrivato quella mattina, in
quel punto medesimo, prima ancora d’aver visto nessuno della famiglia,
affrettavasi nel salone a salutare il ritratto paterno, quasi a rendere
il primo suo omaggio al capo di casa, morto alla vita terrena, ma vivo
ancora e sempre nella memoria, nel cuore, nell’anima di tutti.
Il vecchio servo, mandata un’esclamazione di gioia, s’era mosso verso
il padrone, umile, rispettoso, e presane la mano l’aveva baciata.
— Come sta, signor conte? — disse con premuroso accento, in cui
erano pari l’affetto e la riverenza. — Ella sarà stanco del viaggio?
Vuole riposarsi? Cambiarsi e ripulirsi dicerto!... Il suo quartiere è
pronto...
Ernesto fece un atto colla mano, che era insieme un benevolo saluto, un
ringraziamento, e un’interruzione.
— Sto benissimo, — rispose, — non sono stanco, e andrò subito a darmi
una ripulitura. Ma prima ho voluto salutare mio padre, e udire da te le
nuove della casa.
Andò innanzi al ritratto, a capo nudo, e stette lì un poco, immobile,
eretta la bella testa, a contemplarlo collo sguardo fisso degli
occhi che leggermente si erano velati d’una lagrima. A quell’amoroso
figliuolo, degno del nobile genitore, pareva in tal momento vedersi
rivivo innanzi l’adorato estinto; allo spirito del giovane sembrava
comunicasse direttamente con esso, gli parlasse lo spirito del padre.
Ed egli sapeva che se l’anima libera della carne di chi gli aveva data
la vita poteva leggergli anche nelle più intime latebre del cuore,
non ci aveva da vedere la menoma cosa onde potesse essere dispiacente:
epperò stava egli là, dinanzi a quel ritratto, così levata la fronte,
così sicuro lo sguardo.
Dopo alcuni minuti, si volse di nuovo a Tommaso.
— Or dunque mia madre sta bene?
— La signora contessa è forse ancora migliorata di salute dall’ultima
volta che Lei signor conte Ernesto la vide.
— E mio fratello? E mia sorella?
— Il signor contino Enrico sta benissimo; la signora contessina Albina,
se osassi servirmi d’una simile espressione, la direi un elegantissimo
fiore sbocciato appena appena.
Ernesto sorrise della poetica immagine del vecchio servo, e questi
temendo di essere stato troppo audacemente famigliare, si tacque di
subito, arrossendo un pochino.
— E Giulio? — domandò subito dopo il conte con una intonazione
speciale, che all’orecchio d’un osservatore avrebbe rivelato in lui una
certa preoccupazione.
— Il conte Giulio, — rispose Tommaso, — da qualche tempo si lascia
vedere molto più raramente...
— Ah sì? — interruppe Ernesto con vivacità.
— Sì, signor conte: — riprese il vecchio, al quale pareva eziandio
premere un poco siffatto discorso: — viene assai di rado, si ferma un
poco, e, come vedrà, è diventato pallido, mesto, e, se mi permette di
parlare liberamente, più timido e più taciturno di prima.
— Tu hai osservato tutto questo?
— Oh scusi, signor conte, se oso...
— Hai fatto benissimo ad osservare e a parlarmene. Questa mattina,
Giulio non tarderà a venire: appena giunto, digli che io l’aspetto, che
ho da parlargli, e conducimelo nella mia camera.
— Sì, signor conte.
Ernesto si mosse per partire: ma poi, come preso da una nuova idea, si
fermò di nuovo e fece al domestico un’altra interrogazione.
— E il conte di Camporolle?
Pareva che Tommaso se l’aspettasse, perchè rispose subito e con una
vivacità in cui avreste detto che c’era un poco d’amarezza:
— Oh il conte di Camporolle non manca mai in nessun giorno, e trova
il pretesto di venirci anche due volte, piuttosto che una. E’ s’è
fatto amicissimo dei signor conte Enrico; sono sempre insieme: e dove
comparisce la signora contessa colla signora contessina, qualunque
siasi il luogo, teatro, passeggiate, chiesa, salotti, che so io... si è
sicuri di vederlo anche lui.
Ernesto nascose sotto i baffi uno di que’ suoi fini sorrisi e senza
risponder altro alle ciarle di Tommaso, s’avviò verso il suo quartiere.
— Ricordati, — disse ancora al domestico: — appena Giulio arrivi, me lo
mandi. —
Venti minuti dopo il cugino Giulio entrava nella camera d’Ernesto.


II.

Giulio aveva anche lui tutta la delicata finezza del tipo dei Valneve,
ma accompagnata ancora da un’apparenza di debolezza, di gracilità, di
timido riserbo. C’era molto, anzi troppo del femmineo in lui, i subiti
rossori, la facilità delle emozioni e la tenerezza dei sentimenti;
e avreste detto che mancava in lui ogni forza virile, se talvolta
nel mite sguardo degli occhi grigi non balenasse pure una fiamma che
rivelava il coraggio e la fermezza dei Sangré.
Il giovane entrò quasi precipitoso nella camera di Ernesto, e gli si
gettò al collo ad abbracciarlo e baciarlo con tutta la effusione del
suo carattere affettuoso, della sua anima tenerissima.
Ernesto contraccambiò con pari amorevolezza le dimostrazioni del cugino.
— Mio caro Giulio! — esclamò stringendoselo forte al petto; — come
desideravo vederti e parlarti un po’ bene, liberamente e da soli!
Giulio, a queste parole, ebbe un balenìo quasi di timorosa ansietà
negli occhi, arrossì nel volto delicato, dalla carnagione bianca, dalla
pelle finissima, e nascose la faccia sulla spalla d’Ernesto.
Questi staccò adagio da sè il giovane, se lo tenne dinanzi a guardarlo,
mentr’egli teneva chino a terra lo sguardo coll’aria imbarazzata, e gli
disse con ischerzosa amorevolezza:
— Olà, signorino, lei ha da rendermi esatto e minuto conto dei fatti
suoi. Sa bene che se il marchese Respetti è stato ed è tuttavia
amministratore, curatore o che so io de’ suoi interessi materiali, di
tutto quello che appartiene alla categoria per uso chiamata morale,
sono io che ho preso la direzione, la cura e non senza qualche buona
voglia ed effetto, mi pare.
— Oh sì! — esclamò Giulio con vivacità improntata da un vero e profondo
sentimento. — Tu e la tua famiglia foste e siete tutto per me... Io che
non avevo più i genitori, che non ho mai avuto fratelli, ho trovato qui
le dolcezze di questi santi affetti: in te poi...
Il cugino lo interruppe sorridendo e mettendogli una mano sulla spalla:
— Quello che tu abbia trovato in me, lasciamolo stare; ma se non ti
sono stato affatto inutile e affatto spiacente, tu mi devi in compenso
la tua fiducia...
— E te la do: — esclamò vivamente Giulio.
— Ma completa, senza restrizioni, parlandomi come fai teco stesso,
aprendomi intiera l’anima tua... Ora io ti guardo, e vedo che sei
dimagrato, che hai l’aria malinconica e scoraggiata, che sei pallido...
Bastarono queste parole per far salire il rossore alle guancie di
Giulio, quasi a volere smentire l’osservazione di Ernesto; ma questi
continuava:
— E tutto ciò è un commento alla lettera che m’hai scritto la settimana
scorsa: ma non è ancora tale da non farmi desiderare un commento più
chiaro, più esplicito, più pieno nelle tue confidenze.
Giulio s’era venuto confondendo sempre più, e al cenno della sua
lettera, erasi addirittura turbato come un reo a cui si rinfacci la
colpa che non può negare.
— Ah! la mia lettera: — disse quasi balbettando — è stata una follia...
scusami... Ho fatto male a scrivertela...
— Anzi, hai fatto benissimo. —
— Sai pure! Ci sono dei momenti di scoraggiamento, di tristezza...
Ora è passato... Facciamo come se non avessi scritto niente, e non
parliamone più.
— Bravo! Io che voglio fare tutto l’opposto: io che t’aspettavo con
gran desiderio perchè ne discorressimo insieme proprio a cuore aperto.
Il buon Giulio si confuse, si smarrì ancora di più.
— No... non adesso... il tempo non è opportuno... questa non è giornata
da occuparci di tali bagatelle... più tardi, un’altra volta. —
— No, signore, no, signore: — disse con fermezza e con amorevole
insistenza il primogenito dei Valneve, — il tempo è anzi
opportunissimo, io non ho che due giorni da fermarmi, e l’anima stessa
di mio padre sarà contenta che in questo giorno medesimo ci occupiamo
dell’avvenire di persone che gli stavano tanto a cuore... Or dunque sta
tranquillo, lasciami dire e rispondi a tono. La tua lettera, a cui non
risposi, appunto perchè volevo venirti parlare a voce, l’ho qui... Vuoi
che la rileggiamo insieme? —
— No, no: — gridò il giovane spaventato, il cui volto era tutto una
fiamma.
— È giusto: — disse Ernesto col suo grazioso sorriso — tu non hai certo
bisogno di rileggerla per ricordartene, e io la so quasi a memoria. In
quella lettera mi dicevi, così, tutto ad un tratto, che la vita t’era
diventata insopportabile... nientemeno...
— Ernesto! — esclamò vergognosissimo il giovanetto.
— E che pensavi quindi lasciar Torino, i congiunti, i conoscenti e
andarti ad imbarcare per l’America, per l’Australia, per qualche terra
ignota, se ci fosse, dove perderti affatto, che nessuno udisse più mai
di te.
— Che vuoi? — disse Giulio sempre più confuso. — Ho forse ereditato dal
mio povero padre l’umore vagabondo e il carattere irrequieto...
— Tu che sei una perla di giovanetto, mite, modesto, assennato!
— Troveresti tu tanto sragionevole il desiderio che io avessi di andare
laggiù dov’è morto mio padre e rintracciarne la tomba?
— No, certo, ma bisogna esser sinceri. Il sentimento che ti spingerebbe
a quella partenza non è esclusivamente la devozione figliale, non è
l’amore delle avventure, nè il desiderio di guadagni. Come fu del buon
zio Armando tuo padre; ma sarebbe quella medesima causa di tristezza
e di scoraggiamento che accennavi poco fa... E poichè tu fai tante
difficoltà a dirmela codesta causa, vuoi che te la dica io?
— Ma che supponi?... A che cosa vuoi alludere?... Ti assicuro...
— Ah! la menzogna poi non istà bene... Potresti tu, oseresti tu negarmi
che qui sotto c’è un amore?...
— Ernesto! — esclamò Giulio, proprio con isgomento. — Non dire una
parola di più... Non farmi vergognare.
— E perchè vergognare?... È una vergogna forse l’amare nobilmente una
buona e brava ragazza?... Perchè tu ami nobilmente, non è vero?
— Oh sì! — esclamò il giovane con forza, con calore, con nuovo
coraggio, l’occhio brillante e le guancie arrossate.
— E sei persuaso che quella che ami è una buona e brava ragazza?...
— La migliore, la più leggiadra, la più sublime che sia sulla terra! —
gridò con entusiasmo Giulio.
— Un angelo, secondo il solito: — aggiunse scherzevole Ernesto: — ma
questa volta credo che... e non secondo il solito... tu abbia proprio
ragione a chiamarla così. Ma dandole il suo nome terreno, quella
ragazza noi la chiameremo?...
Si tacque aspettando che il giovane pronunziasse il nome: ma egli
invece buttò di nuovo le braccia al collo del cugino e nascose tutto
tremante il volto sulla spalla di lui.
— La chiameremo Albina, — proseguì dolcemente il fratello della
giovanetta.
Giulio ebbe una scossa in tutta la persona.
— Oh Ernesto! — mormorò.
— Or dunque tu vedi che la tua confessione... un po’ per forza se
vogliamo... me l’hai fatta... e affè mia, non ci vedo proprio nulla da
vergognarsene.
— Ce n’è, a pensare che non si è degni, neppur per ombra, di colei a
cui si osa rivolgere la mente e consecrare il cuore, a pensare che ella
non vi potrà mai corrispondere...
— E chi te lo dice? — interruppe Ernesto.
— Tutto, e prima di tutto la coscienza di me stesso: — rispose
animandosi Giulio. — Certo, se per esser degno di lei, bastasse amare
sinceramente, profondamente, santamente, potrei sperare pur io; io che
l’amo fin dal primo momento che ho avuto cognizione, che le ho votato
un culto nel mio cuore, che in lei vedo tutto ciò che v’è di più bello
e di più nobile nel mondo, che vorrei poterle mettere ai piedi tutte le
grandezze, che vorrei potermi acquistare un raggio di gloria per unirlo
allo splendore di leggiadria e di virtù che circonda la sua fronte.
— Ma bravo! — esclamò il fratello d’Albina. — Non ti ho sentito mai a
parlare con tanta eloquenza!... Codeste belle cose, che dici a me, se
tu le dicessi...
— A lei? — interruppe Giulio spaventato. — Dio mi guardi!... Come
potrei osare?... In sua presenza non trovo più le parole. Ho un tumulto
qui dentro... e non mi posso spiegare... Vorrei talvolta, e la lingua
mi si annoda, e un tremito mi invade, e faccio dispetto a me stesso...
E quando vedo altri che ha maniere così forbite ed eleganti, che sa
parlare con garbo...
— Ah! qui veniamo dove il dente duole di più. Chi è quest’altri?
— Niente.... nessuno.... Tu mi fai parlare, parlare, e mi scappano
dette certe cose...
— Che a me dovresti confidare senza fartele tirar fuori così a
spizzico... Quell’altri dunque non lo vuoi nominare? Lo nominerò io: è
il conte di Camporolle.
Giulio ebbe un momento di risoluzione e di coraggio.
— Ebbene, sì, è lui... Oh come lo invidio!... Come ne son geloso!... Mi
pare a volte di odiarlo.
— Odiarlo! Egli è pur così buono, gentile, e si fa ben volere da tutti.
— Eh! appunto per questo!...
— Giulio, — disse Ernesto dopo una breve pausa: — tu conosci la mia
schiettezza, e io, secondo il solito, l’userò anche teco. Se io in
codesta faccenda avessi potuto influire per qualche cosa, se avessi
potuto effettuare il mio desiderio, non avrei voluto che nel tuo cuore
nascesse tale amore per mia sorella....
— Ecco lì! — interruppe con dolorosa vivacità il giovinetto: — anche
tu mi condanni?.... Se lo sapevo, lo sapevo... Anche tu preferisci
quel conte Alfredo, che è il beniamino di tutti. Tuo fratello Enrico
n’è addirittura infatuato; la zia Adelaide stessa lo accoglie con
maggior distinzione... L’hai detto benissimo tu adess’adesso: colui sì
che sa farsi benvolere da tutti! Io sono un meschino e conosco la mia
meschinità.
Il poveretto aveva le lagrime agli occhi e si mordeva le labbra per non
rompere addirittura in pianto.
Il cugino gli prese scherzosamente la guancia fra l’indice e il medio
della mano destra e disse:
— Tu sei un ragazzo che hai trovato modo di fare un difetto,
esagerandola, d’una bella virtù, che è la modestia. Non vorrei che tu
fossi un fatuo orgoglioso; ma che diamine! un più giusto concetto di
te lo dovresti pure avere. Ora lasciami parlare, non interrompermi
più, e vedrai che la conclusione non sarà tanto sgradevole come te
lo immagini. Io dunque avrei desiderato per te un’altra compagna,
che non avesse il medesimo sangue nelle vene; e per Albina uno
sposo di tutt’altra stirpe, fosse pur anco di un’altra regione della
penisola....
— Come appunto il Camporolle! — esclamò con qualche amarezza Giulio.
— E sai perchè? Perchè tutti i fisiologi oramai s’accordano nel dire
che i matrimoni fra consanguinei vanno a detrimento della prosperità
della prole e sono causa di decadenza delle razze. L’indebolimento,
l’esaurimento delle famiglie reali non hanno forse altra causa: ed
a questa pure devesi attribuire il cambiamento nostro, quello che
fece piccoli, delicati, sottili noi discendenti di quei colossi che
portavano armature di ferro e maneggiavano antenne per lancie.
— Ed è questa la conclusione che non deve essermi sgradita? — domandò
il giovanetto.
— Abbi un momentino di pazienza, e lasciami finire. Io non sono così
assoluto nelle mie opinioni da preferire il trionfo d’un principio da
me adottato alla felicità delle persone che amo; e siccome te pure amo
proprio assai....
— Oh lo so, e grazie....
— Siccome penso che tu saprai rendere felice Albina....
— Dio eterno! Oh come vorrei impiegare ogni mia facoltà, tutta la mia
vita a soddisfare ogni suo desiderio!
— Benchè molto mi sia caro anche Alfredo, di cui ho avuto campo a
conoscere in Crimea l’animo eletto, l’indole eccellente e il valore
veramente ammirabile, pure io mi adoprerò volentieri per fare ottenere
a te la mano di mia sorella.
— O Ernesto! — esclamò il giovane impallidito, tremante dall’emozione
da sembrar quasi di svenire. — È ciò possibile?
— A un patto però: che Albina ci consenta di buon animo.
Giulio abbassò il capo scoraggiato.
— Ahimè!
— E per sapere codesto c’è un mezzo solo, che dovrai mettere in opera
tu stesso.
— Quale?
— Domandarglielo a lei.
— Io?... Ah! non oserò mai.
— E allora toccherà anche a me fare questa bella parte.
— Ah per carità Ernesto.... La risposta la prevedo già pur troppo.
— Forse che Albina ha lasciato scorgere in qualche modo l’inclinazione
del suo cuore?
— No.... non so; non potrei dir nulla.... È sempre tanto buona, tanto
gentile, tanto dignitosa e modesta con tutti!
— E dunque non c’è altro modo, per saperne qualche cosa, che
interrogarla...
In questo punto, dopo aver picchiato all’uscio, entrò il vecchio
Tommaso, ottenutane licenza dal padrone.
— La signora contessa Adelaide e la contessina Albina sono già nella
sala.
— Andiamo subito: — disse vivamente Ernesto.
Giulio lo fermò pel braccio.
— Per carità! — gli susurrò sottovoce: — non parlare di nulla...
— No certo, in questo momento: — rispose Ernesto: — ma più tardi...
Il giovane innamorato seguì con un po’ più di tranquillità e sicurezza
il cugino nel gran salone dove le signore stavano aspettando.


III.

La contessa Adelaide, nella sua mestizia irrevocabile oramai, ma
mestizia rassegnata e che oserei dire soave, conservava ancora
traccia della splendida bellezza della sua gioventù. I capelli,
tutti imbiancati ne’ cinque anni trascorsi dopo la morte del marito,
scendendole alle tempia in due striscie larghe e ben fornite, le
coronavano la bella fronte, bianca al pari dell’alabastro, dandole non
so quale splendore, che destava in qualunque, omaggio di reverenza;
gli occhi erano ancora pieni di luce, le labbra, benchè impallidite, di
grazia; il contegno era mitemente altero, rivelava la coscienza d’una
certa dignità e supremazia, ma accompagnata dalla maggiore benevolenza
dell’animo e gentilezza di modi. Vestiva tutto di nero, chè dal dì in
cui era rimasta vedova, non aveva più abbandonato il corruccio, e avea
deciso non lasciarlo più in tutta la sua vita; e da quell’abbigliamento
scuro, ricco insieme e modesto, che faceva ricrescere la pallidezza
del suo volto, la canizie de’ suoi capelli, essa riceveva all’aspetto
una maggior solennità, un non so che di venerando. Era una di quelle
figure di donna, innanzi alle quali, nessuno, per quanto corrotto e
malavvezzo, oserebbe manifestare un sentimento, non che colpevole,
triviale, quasi non oserebbe nemmeno concepirlo nè lo potrebbe provare.
Ella sedeva sopra un gran seggiolone, postato proprio in faccia al
ritratto del defunto, e guardava fiso questo ritratto, e le labbra le
si movevano lievemente, per dire, senza suono però, forse un amoroso
saluto, forse una preghiera.
Ritta accanto a lei, appoggiata con un gomito alla spalliera del
seggiolone, stava la figliuola, la contessina Albina, nella quale
riviveva in tutto il suo fiore, in tutta la sua splendidezza, la
beltà giovanile della madre. Mai profilo più puro fu disegnato da
mano ispirata d’artista; mai sguardo di fanciulla seppe ispirare in
cuor d’uomo più nobili sentimenti e aspirazioni, smania più viva ed
efficace di bene, di grandezza, di gloria. I suoi occhi, azzurri come
il cielo, avevano una profondità da oceano, uno splendore da stella, e,
colla vivacità della giovinezza, la mestizia del pensiero. Le labbra
sorridevano raramente, ma nella piegatura, nella vivacità del colore,
nella leggiadria delle linee, avevano un’attraenza, una seduzione
impareggiabile. Pareva, chi le guardasse, che sarebbe stata una
felicità solo il vederle a sorridergli, l’udirne una parola gentile.
Ella parlava poco, in presenza di estranei alla famiglia pochissimo, ma
non senza arguzia, sempre per manifestare i più nobili sentimenti; e la
sua voce era una cara armonia. Quanti solamente a vederla l’amavano!
Tutti quelli che l’accostavano, e congiunti, e conoscenti, e servi, e
artefici, tutti dovevano adorarla. Vestiva di scuro anch’essa e il suo
capo biondo, ornato riccamente dal diadema d’oro dei capelli, sorgeva
superbamente pel collo esile e bianco sopra un collaretto di trina che
terminava l’abito di seta nera, serrato sino alla gola; le sue mani
piccole, un po’ lunghette, affusolate, acquistavano maggior candore,
quasi una trasparenza, dal nero delle maniche lunghe fino ai polsi e
strette alle braccia alquanto sottili, ma di una perfetta modellatura.
Quando Ernesto e Giulio entrarono nel salone, la madre e la figliuola
si volsero; la prima sorrise lievemente, fece brillare di una mite
gioia il suo sguardo e tese la mano verso il suo primogenito; la
seconda salutò con uno sguardo e un sorriso i due nuovi venuti,
e, forse pel piacere di rivedere il fratello, sotto la finissima
epidermide, le corse alle guancie una lieve ondata di sangue a dare
alla sua pallida carnagione una tinta di color rosato.
Il conte andò sollecito innanzi alla madre, le inchinò dinanzi le sue
spalline da maggiore, il suo petto fregiato della medaglia al valor
militare, che si era guadagnata in Crimea, il capo ordinariamente
eretto con altiera sicurezza innanzi a tutti; le prese la destra che
ella gli porgeva e la baciò con reverenza piena pure d’affetto.
— Madre mia, — le disse, — la rivedo con gioia in buona salute.
Essa lasciò che il figliuolo le baciasse la mano e pronunciasse
quelle parole: il suo sguardo e le labbra dicevano sempre la tenera
letizia del suo cuore in quel momento, poi per la mano con cui Ernesto
stringeva quella di lei, la madre trasse a sè il figlio, lo serrò al
suo petto, lo baciò sulla fronte e sulle guancie, e facendo posare
il capo di lui sulla sua spalla, in quell’amoroso amplesso disse,
guardando con occhio inumidito il ritratto dell’estinto:
— Che tu sia il benvenuto, figliuol mio: il benvenuto in questa casa
che è la tua, in questo giorno che è ora per noi il più triste e il più
solenne!
Ernesto si rialzò commosso, per un minuto non potè parlare; le labbra
gli tremolavano.
— Grazie, madre mia!... — Non seppe dir altro; e poi presa alle due
mani la sorella, senza parlare, la trasse a sè, l’abbracciò e la baciò
con profonda commozione, con infinita tenerezza.
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