Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 13
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che domandare se Lei non è ancora giunto.
Matteo corse verso la camera del giovane: e questi comparve sulla
soglia con figura che faceva proprio l’effetto d’uno spettro.
— Ah siete qui! — esclamò con voce rauca e tremola per l’emozione, — ho
gran bisogno di voi.
Rientrò nella camera, il vecchio lo segui; e allora Alfredo, richiuso
l’uscio, si piantò in faccia all’usuraio e gli disse:
— A noi due ora!... E pensate che dal nostro colloquio la verità, tutta
la verità ha da venir fuori. Lo voglio: lo voglio a qualunque costo!
XXX.
Soli nella camera di Alfredo, l’uno in faccia all’altro, que’ due
uomini stettero un poco in silenzio guardandosi fissamente; ma con
quanto diversi sentimenti e affetti si guardavano! Nel vecchio era un
pietoso intenerimento, una compassione piena di amore, di rimpianto,
di rimorso per quelle sofferenze di cui vedeva sì evidenti e sì
crudeli impronte nelle sembianze del giovane: in costui, per contro,
era un’irritazione, una rabbia intensa, una malevolenza che toccava
proprio le maggiori proporzioni dell’odio. Di quell’uomo che gli stava
dinanzi, Alfredo aveva in quel momento obliato affatto tutti i servizi
a lui fatti; erano servizi resi alla lontana, senza che vi fosse fra
loro contatto famigliare e affettuoso, non erano cure alla persona,
in cui apparisce meglio l’amorosa devozione; costituivano nel concetto
del giovane un dovere adempito e nulla più e anzi da ultimo, conoscendo
le qualità dell’uomo che glieli aveva resi, il giovane aveva deplorato
che la sorte e la volontà di suo padre, come credeva, l’avessero posto
in tali attinenze con colui. Da due giorni, poi, ogni disdetta, ogni
sventura, ogni umiliazione, ogni scadimento parevano precipitarglisi
addosso e tutti avere un nome e una persona soli, la persona e il
nome di Matteo Arpione, lui, origine, causa e stromento di tutto. Già
lo aspettava perciò coi più ostili sentimenti dell’animo: e questi
niquitosi sentimenti si adersero ancora con più vigore, s’accrebbero
quando e’ si vide dinanzi la figura meschina ed ignobile, i lineamenti
ipocriti, lo sguardo falso, l’umiltà vigliacca di quell’uomo che aveva
imparato da tanti anni a disprezzare profondamente. Anche la presente
di lui commozione, che ad Alfredo parve una finta, concorse ad eccitare
lo sdegno di quell’infelice, la cui ragione vacillava sotto il peso di
quasi ventiquattro ore di spasimo indicibile, poco meno che mortale.
Sviò lo sguardo dal volto scuro e rugoso di Matteo, per potersi
mantenere in calma, e ruppe il silenzio.
— È vero, — cominciò, e la voce gli tremava, come gli tremavano le
labbra e le palpebre, per lo sdegno raffrenato, pel dolore compresso: —
è vero che il nome scritto nel mio atto di battesimo come quello di mia
madre, non è il nome della donna che m’ha dato alla luce?
Matteo aveva avuto fin allora la speranza che voce di ciò non fosse
venuta ad Alfredo, e ch’egli avrebbe ancora potuto tenerglielo
nascosto. Questa domanda fu un colpo dolorosissimo per lui, e la sua
faccia non seppe nascondere l’impressione terribile dell’anima, mentre
le labbra non seppero trovar subito risposta.
— È dunque vero? — gridò Alfredo quasi minaccioso, facendo un passo
verso di lui.
— No, no! — proruppe il vecchio arretrandosi come se avesse paura.
Alfredo si contenne.
— Badate! — disse, premendosi con ambe le mani il petto in cui sentiva
uno strazio inesprimibile. — Si è scritto a Macerata per avere l’atto
mortuario di Giuseppina Ressi moglie Corina.
L’Arpione mandò un gemito che pel giovane fu tutta una confessione.
Egli si percotè co’ pugni chiusi la fronte e cadde seduto esclamando
con voce strozzata dall’angoscia:
— Sciagurato! Sciagurato!
Il vecchio riebbe a un tratto tutto il suo tristo coraggio di
menzogna. L’importante per quel momento, il necessario per lui era
di tranquillare Alfredo, di guadagnar tempo; in qualche maniera poi
avrebbe provveduto.
— Ma no, — disse con forza, — ma non è punto vero... Ma che Lei crede
a codeste sciocche frottole?... Lasci che scrivano anche a casa del
diavolo, e se troveranno qualche cosa che dia fondamento a tali stupide
assurdità, voglio non esser più io...
Queste parole non fecero effetto nessuno sul giovane; la prima
impressione provata da Matteo aveva avuto un linguaggio troppo
eloquente in quel turbamento che non aveva saputo nascondere, in quel
gemito che si era lasciato sfuggire, perchè le successive affermazioni
valessero a smentirlo. Alfredo stette col volto nascosto fra le mani,
il corpo scosso da brividi e sussulti che parevano scotimenti di febbre
e singhiozzi.
L’Arpione fu preso di nuovo e più forte dall’idea di cominciare
per mettere in cura da un medico, e di sua scelta, la salute fisica
d’Alfredo, per la quale in verità la sua amorosa sollecitudine verso di
lui aveva proprio da inquietarsi. Gli si accostò pianamente e gli disse
con voce che osava essere più affettuosa del solito:
— Dia retta, signor conte; Lei ora non istà bene... ha bisogno di
riposo... di qualche rimedio. Creda a me, si ponga a letto.... ascolti
qualche dottore... Questo discorso lo riprenderemo poi, in momento
più opportuno, quando si sentirà meglio. E intanto non s’inquieti,
stia sicuro che io dileguerò ogni nube, che confonderemo tutti i
calunniatori... Su, da bravo, la prego, la scongiuro, si corichi, mi
lasci andare pel medico... Non vede che ha una febbrona addosso?
E osò mettere le dita della destra sul polso d’Alfredo: le carni di
lui veramente scottavano; la mano di Matteo invece era fredda, gelata,
e parve al giovane come il tocco viscido e schifoso d’una biscia. E’
scattò in piedi, pieno di sdegno, di ripugnanza.
— Non toccatemi! — gridò: — e non parlate che per rispondere, e con
sincerità, alle mie domande. Chi sono io adunque? E se mentito è il
nome di mia madre, non è forse mentito eziando quello del padre?
— No, no: — rispondeva Matteo, commosso all’estremo.
Alfredo seguitava:
— E chi fu quella donna sulla cui fossa mi avete condotto? Fu essa
davvero mia madre?
— Oh sì! — proruppe l’Arpione con un accento in cui si sentiva vibrare
la verità.
— Come si chiamava?... Di chi era moglie? Fu essa una tradita?... O una
colpevole?
— Non colpevole! — gridò di nuovo col medesimo accento il vecchio, a
cui la crescente commozione toglieva la solita abilità di schermirsi.
— Dunque tradita?
— Neppure: fu donna virtuosissima e moglie legittima.
— Ma di chi?... Del Corina? Sua seconda moglie?
Il vecchio, disperato di mezzi per uscire da quella rete che sentiva
stringerglisi attorno, accettò premurosamente questo.
— Sì, sì, — rispose: — è appunto così.
— E perchè questa supposizione? se fu moglie legittima ci deve pur
essere atto di matrimonio.
— Non posso dirle nulla.... È un segreto.... Ho giurato solennemente di
non palesarlo.
— E il nome di questa donna?
— Si chiamava Giuseppina anche lei...
— Ma la famiglia?
— Ho giurato di tacere anche questo.
— Ma nessun giuramento, disgraziato, può esimervi ora dal parlare....
Lo esigo, ne ho il diritto... M’agito ciecamente in un mistero che
il mondo mi appone ad infamia; voi potete arrecare la luce, potete
provarmi se ho il diritto di stare a fronte d’un uomo d’onore, e
vorreste tacere? No, no per Dio! Ad ogni costo, per l’anima mia, per
tutto quello che ho sofferto e che soffro, voi parlerete.
S’avanzò di nuovo minaccioso verso l’usuraio.
— No... — balbettava questi: — senta... Sa che cos’è un giuramento....
Non posso in coscienza... almeno adesso... qui... subito... Lasci che
ci pensi su.
— Per avvolgermi in nuovi inganni? No: parlerete subito.
— Le ripeto che non posso... Mi creda... Lei deve pur sapere il grande
interessamento che ho sempre avuto per Lei; ho fatto di tutto per
accrescerne le fortune, per farle una condizione invidiabile... Se
dunque non parlo, se non le obbedisco, Ella deve persuadersi...
Ma l’imprudente aveva toccate un tasto molto pericoloso, che ridestò
altri dolori, altre rabbie, altri sospetti in Alfredo.
— Ah! il vostro interessamento! Ah le mie fortune! — proruppe. — Come
le avete accresciute queste? Col vostro infame mestiere?...
— No...
— Mio padre morì povero...
— No... cioè con imbarazzi... io ho saputo...
— E io non ho mai sospettato di nulla!... E io mi sono valso di
ricchezze che erano frutto delle vostre rapine! Ricchezze scellerate,
maledette, abbominevoli, che m’avvilivano, che mi facevano vostro
complice, sì, che stampavano giustamente su me ignaro il marchio del
disonore.
Si scaldava sempre più; il sangue concitato dalla febbre dell’insonnia,
dalla fatica, dalla mordente passione gli saliva al cervello e ne
offuscava lo spirito; una specie di pazzia, di frenesia, di furore
lo assaliva, lo scuoteva, lo dominava; le labbra gli si agitavano
convulse, un color pavonazzo gli macchiava a chiazze le guancie,
tutte le membra gli tremavano, come all’appressarsi d’un accesso di
epilessia.
— Per carità, Alfredo! — esclamò Matteo spaventato: — si tranquilli...
rientri in sè...
Ma il giovane oramai non vedeva più lume.
— E non basta! — continuava con voce arrangolata. — Non mi avevate
ancora infamato abbastanza... Un’altra nota più scellerata, più
terribile dovevate stamparmi sulla fronte!... A Parma, mi spiaste,
sorprendeste i miei segreti, e andando a rivelare la congiura, faceste
credere me... me per Dio!... me traditore, me delatore, me vigliacco
venditore dei compagni per esser salvo...
— Gran Dio! Alfredo! — esclamò il vecchio che si smarrì per lo spavento
di quella cieca collera del giovane.
— Ah! non lo puoi negare! — ruggì questi.
— Volevo salvarla ad ogni costo!...
Alfredo gettò un urlo. Il parossismo del suo furore raggiunse il
colmo; non vide più nulla, sentì come una forza estranea alla sua
volontà che lo afferrasse e lo precipitasse su quell’uomo ignobile,
curvo, disprezzato, vigliacco, che aveva trovato modo di gettare su
lui innocente parte della sua viltà, della sua bassezza, del disprezzo
in cui lo teneva la gente. Come aveva fatto la sera innanzi coi due
gentiluomini, abbrancò una seggiola, la sollevò...
— Miserabile! — gridò; e la sedia minacciava il capo del vecchio....
Questi cadde a terra accasciato con un grido che pareva d’agonia; ma
prima che il colpo avesse tempo a scendere su di lui, scoppiarono dalle
sue labbra, involontarie, rapide, terribili, queste parole:
— Ah; non uccidere tuo padre!...
Penetrarono, malgrado l’eccitamento di quel morboso furore, nel
cervello di Alfredo; vi fecero, per così dire, il vuoto, distrussero
tutto il precedente tumulto per lasciarvi un’idea sola, orribile,
spaventosa: quell’uomo tristo, disprezzato, odiato, maledetto, era suo
padre. Si arretrò come respinto da un colpo nel petto, come chi rifugge
da uno spettacolo d’orrore a cui s’è affacciato; sentì un freddo
invadergli tutti i nervi, tutte le vene; lasciò cadere la seggiola che
aveva impugnata e le braccia; gli occhi balenarono e s’estinsero; il
pavonazzo delle guancie si estese fino alla fronte, poi lasciò di colpo
il posto ad un pallore di cadavere; barcollò, balbettò:
— Voi!... Voi mio padre!...
E andò a cadere affranto, sfibrato, perduto sopra un sofà all’altro
capo della camera da quello dove il vecchio usuraio stava prostrato a
terra, accasciato, perduto, soffrendo così che «poco è più morte».
XXXI.
Successe un grande silenzio, un silenzio che pareva proprio di morte.
Quei due uomini, questo a uno, quello all’altro capo della camera,
parevano davvero schiacciati ambedue dal medesimo colpo della sventura.
Avevano paura l’un dell’altro, non osavano guardarsi, non osavano
muoversi, pareva non osassero nemmeno respirare.
Nella mente di Alfredo, al tumulto doloroso di poco prima era successo
a un tratto un grande acchetamento, come un silenzio, ma non meno
doloroso, qualche cosa di sconsolato e d’inconsolabile, di deserto, di
rovina, di sgomento senza misura. Strano a dirsi! Di quella esecrabile
verità che gli si era rivelata così di colpo, egli non aveva mai
avuto il menomo sospetto; eppure ora che quelle sciagurate parole
erano sfuggite dalle labbra di lui, strappategli a forza dalla paura
dell’orribile azione ch’egli stava per commettere, ora Alfredo sentì di
subito che quella era la verità, che tale era la sua crudele condanna,
che non ci si poteva trovare riparo, nè scampo, che bisognava curvare
il capo sotto la umiliazione e la vergogna, che bisognava subire
l’infamia.
Rapidamente, quasi come accade in sogno, in cui un attimo raccoglie
avvenimenti di ore e di giorni, s’affacciarono alla mente del giovane
tutti i fatti, tutta la condotta di quell’uomo, tutte le prove della
verità di quell’asserzione che improvviso veniva a porre l’ultimo
suggello all’opera del suo degradamento, a dargli l’ultima spinta per
la sua terribile caduta. Quel taciturno abbattimento, quella morta
calma del suo animo, continuava, anzi si faceva maggiore. Pareva
rassegnazione, apatia: era profonda disperazione. Che cosa fare?
Nulla; non c’era nulla da fare. Era per lui come pell’abitante delle
falde dell’Etna, cui improvviso sorprende una terribile eruzione: il
fiume di lava gli è addosso, prima che abbia tempo ad accorgersene,
prima che possa pur pensare a porre in salvo sè e le cose sue; l’onda
affuocata, precipitosa è lì, già ne sente la vampa soffocante, un
minuto e tutto sarà travolto nel suo vortice ardente: non c’è che
incrociare le braccia e lasciarla venire. Ma almeno quell’onda di
fiamma sopraggiunge, passa, tutto distrugge; quest’onda d’infamia
invece veniva, lo avvolgeva, gli distruggeva intorno ogni bene, ogni
speranza, ogni dignità della vita, ma lo lasciava lui vivo, maledetto,
bestemmiato, deriso, in mezzo alle sue spregievoli rovine, coperto di
fango. Un gemito, un gemito in cui era concentrato un immenso dolore,
uscì dal suo petto, e le mani si contrassero in uno spasimo convulso
intorno alla fronte ardente cui stringevano come se la volessero
schiacciare.
Matteo, dopo un poco, s’era levato su sulle ginocchia; aveva osato
volgere lo sguardo verso il giovane, ne aveva osservato la immobilità,
la calma apparente; trascinandosi così ginocchioni era venuto ad
accostarglisi piano piano, peritoso, palpitante, pentito, commosso da
un tumulto di varii affetti. Quando gli fu giunto dappresso, udì quel
gemito dolorosissimo che, rivelando l’inesprimibile strazio dell’anima
nel giovane, anche in lui veniva a suscitare il più fiero dolore.
— Alfredo! — susurrò egli quasi in un sospiro, timidamente, esitando,
con labbra che tremavano.
Il giovane fece un moto quasi di ripugnanza, non lo guardò, si volse
anzi dall’altra parte, coprendosi sempre colle mani la faccia, poi
disse lento, piano, con voce piena d’amara vergogna:
— Voi dunque siete?...
Matteo non lo lasciò terminare: il pentimento, che già aveva nel
cuore per la sua debolezza di quell’istante, in cui aveva violata la
promessa che s’era fatta, la più ferma risoluzione che aveva presa di
non rivelar mai tal segreto ad anima viva, e tanto meno ad Alfredo:
quel pentimento, dico, prese una subita violenza; egli scattò in piedi,
interrompendo con vivacità, con forza:
— No, no, — gridò, — non è vero... Che cosa ho detto? Mi sono sfuggite
delle parole senza senso in un momento di pazzo terrore... veramente
pazzo... io non sono che un servo... un umile servo...
Alfredo alzò vivamente la testa; guardò bene quell’uomo che gli
parlava, e nel turbamento della faccia, nella sgomenta irrequietezza
degli occhi, ci lesse la menzogna.
Sorse in piedi ancor egli, fece un gesto a imporre silenzio al vecchio,
e con un’apparente freddezza, in cui però si sentiva lo scoraggiato
abbandono di qualunque speranza, disse:
— Non mentite più... La rivelazione ora sfuggita mi ha spiegato
tutto... Sono stato io un insensato a non sospettarlo prima, a
non indovinarlo dai mille indizi che pur ne avevo.... Ora io sono
finalmente davanti alla gran verità... Bisogna ch’io la conosca tutta.
Ne ho il diritto, e lo voglio. Perch’io sappia quel che mi tocca fare
e se c’è qualche cosa da fare, è necessario che la rivelazione sia
completa. Parlate. Voi vedete com’io sono in perfetta calma. Perchè
mi avete avvolto in questo mistero? Come sono io nato? Qual segreto
di vergogna e d’ignominia mi ha preso fin dalle fascie e mi accompagna
nella vita? Voi m’avete pur detto che mia madre... la mia vera madre,
non fu colpevole, fu virtuosa... Anche allora avete mentito?
— Oh no! — gridò Matteo con impeto, con islancio che proveniva proprio
dall’intimo del cuore, che rivelava l’indignazione d’una sublime fede
oltraggiata con un dubbio. — Oh no: questa è verità sacrosanta...
Quella donna fu un angelo... Ve lo affermo, Alfredo, ve lo giuro!
Il giovane, in mezzo all’angoscia che gli stringeva il cuore, che
quasi ne intorpidiva la mente, provò a quelle parole un lieve senso di
dolcezza.
— Ditemi tutto: — esclamò. — Oh ditemi tutto!
Matteo curvò basso basso il capo e stette un momento immobile e muto,
evidentemente perplesso. Un’ultima lotta aveva luogo in lui; no, non
era neppure una lotta, era un’incertezza, un’esitazione, una confusa
vacuità di pensiero.
— Dunque? — soggiunse il giovane con insistenza quasi impaziente, quasi
irosa.
— Sì, parlerò, — rispose allora l’Arpione: — dirò tutto... Avete
ragione: è necessario. Bisogna che sappiate ogni cosa, che impariate a
conoscere colei che vi fu madre e l’uomo... che vi sta dinanzi.
Cominciò la narrazione dei suoi casi: le vicende della sua giovinezza
che già conosciamo, la sua cupidigia di ricchezze, la sua invidia pei
fortunati del mondo, l’odio verso la società e i suoi beniamini, le sue
maledizioni contro la fortuna e i favoriti di lei; poi il suo amore per
Giuseppina Landi, l’onestà di quella fanciulla bellissima, che in mezzo
alla povertà aveva saputo resistere alle seduzioni de’ più ricchi e
generosi vagheggini, come al trasporto del verace amore di lui Matteo,
al quale pure ella non seppe celare di corrispondere. Mancandole qui
a Torino ogni mezzo di guadagnarsi onoratamente la vita, la povera
Giuseppina erane partita per tornare a Parma; da principio Matteo aveva
creduto di poterla facilmente dimenticare e s’era quasi rallegrato che
ciò ponesse termine ad una passione che sentiva egli stesso eccessiva;
ma invece non era stato così, e più passavano i giorni, tanto maggiore
si facevano in lui l’amore per quella fanciulla lontana e il bisogno
di vederla. A un punto non ci resistette più; fece le sue valigie,
prese con sè tutto quel poco che possedeva e partì per Parma, deciso
a stabilirsi dov’ella fosse, dov’ella volesse, perchè in altri luoghi
lontano da lei, senza di lei, egli non sapeva, non poteva più vivere.
— Giunto a Parma, — così egli continuò il suo racconto, — trovai la mia
Giuseppina accolta ospitalmente in casa di suo cognato Giovanni Carra.
Alfredo, che aveva sempre ascoltato in silenzio, il viso chiuso nelle
mani, senza dare il menomo indizio di quel che provasse, a questo punto
si riscosse.
— Giovanni Carra! — esclamò. — È il nome sottoscritto al mio atto di
battesimo!
— Sì.
— Era cognato di mia madre?
— Ne aveva sposata la sorella maggiore....
— E Pietro Carra... quel sellaio che ho conosciuto a Parma, era figlio
di lui?
— Sì.
— Dunque mio cugino?
— Per l’appunto.
Alfredo pensò ratto a quel poco di attinenze che avevano avuto insieme,
come il caso li aveva accostati.
— E così quella ballerina che fu cagione di tanto scandalo a Parma ed
era cugina di Pietro, è pure mia parente?
— Figliuola dell’altra sorella di vostra madre.
Il giovane chinò il capo. Ricomparve nella sua mente la figura del
duchino di Parma, intorno a cui s’aggruppavano per istrano capriccio
della sorte i suoi cugini ed egli stesso; pensò al delitto ch’egli
aveva voluto compiere e che il figliuolo della sorella di sua madre
aveva eseguito.
— O destino! — esclamò.
Matteo continuava il suo racconto.
— Il mio amore era ancora cresciuto. La indussi a sposarmi; ma la
nostra felicità fu presto turbata da quella orribile divoratrice di
vite, di coscienze, che è la miseria. Ella, appena se poteva aver
pane sufficiente colle poche lezioni di musica che era riuscita a
procacciarsi; io, per quanto mi fossi adoperato e mi adoperassi,
non avevo potuto, non potevo trovare di che guadagnarmi onestamente
un soldo. Me la presi con la società, con gli uomini, coi ricchi
sopratutto, con la sorte, con Dio. Invidiavo già prima, ora odiai; mi
parvero tutti intorno a me altrettanti nemici che mi opprimessero colla
loro apatia, colla loro fortuna, perfino eziandio colla sterile loro
compassione che mi tornava uno scherno su cui mi spettasse il diritto
di rivalermi, di vendicarmi, di trarre dalla loro imbecillità, dai
vizi, dalle passioni il mio utile, la mia parte di ben di Dio. E non
tanto per me; ma era per lei che amavo sempre più, che era degna d’ogni
felicità, di ogni grandezza; era per lei che mi arrabbiavo, soffrivo,
che mi sentivo capace di qualunque eccesso. Ah! s’ella non mi avesse
chetato colla sua dolcezza, fatto rientrare in me tante volte colla sua
assennata amorevolezza, chi sa fino a qual punto sarebbe andato il mio
delirio, fors’anco fino al delitto....
Alfredo raccapricciò. Il vecchio riprese con vivacità:
— Voi vedete che io vi dico tutto, vi apro affatto il mio cuore, la mia
coscienza, perchè vi possiate leggere fino al fondo, perchè possiate
conoscere qual uomo io mi sia e compiutamente giudicarmi.
Il giovane non pronunziò una parola, fece un atto colla mano perchè
l’altro continuasse, e coprendosi di nuovo il viso, tornò alla sua
immobilità.
— Un fatto, per me un gran fatto venne ad accrescermi i dolori, la
rabbia per la mia impotenza, la smania dei guadagni, e insieme a
innondarmi il cuore di tanta gioia, di tanta tenerezza che mai non
me ne sarei prima creduto capace, che mai non avrei pensato potersene
provare al mondo di tale... Giuseppina, la mia Giuseppina, mi annunziò
che mi avrebbe fatto padre. L’amai ancora di più! Oh come le fui
riconoscente! Come avrei voluto circondarla di agi, di benessere, di
tranquillità, d’ogni delizia! Ella era così sofferente! Le privazioni,
i patimenti d’animo, le angoscie e gli affanni medesimi che le
davo colle mie collere contro la società, colle minaccie che facevo
bestemmiando ai miei simili.... sì, sì, me ne accuso... oh me ne sono
pentito cotanto!... La mia follia diede più volte cagioni di spavento
e di tormento a quell’anima santa, pietosa, mite, angelica.... Tutto
codesto l’aveva indebolita, affranta, stremata.... Che compassione mi
faceva a guardarla, pallida, pallida, le occhiaie allividite, le labbra
assottigliate e bianche, lavorare con quelle mani affusolate, esili,
che parevano di cera, lavorare a cucire pel nascituro quei panni che
veniva procurandosi togliendosi a sè stessa parte di alimento! Come mi
rodevo, come soffrivo, come avrei dato volentieri il mio sangue!...
Un qualche cosa che sembrava singhiozzo lo interruppe. Alfredo lo
guardò di sottecchi. In quel vecchio ammencito, incartapecorito, che
pareva a tutto chiuso e indifferente, la forza del ricordo era tale
che una profonda commozione gli trasmutava la fisonomia di solito
spiacevole e attestava la sincerità del sentimento.
Matteo riprese:
— Per ottenere guadagni, mi umiliai, mi abbassai a qualunque
servizio.... Io, che ero così orgoglioso.... mi acconciai ai disprezzi,
alle impertinenze, ai capricciosi scherni de’ ricchi.... Non ci fu
mestiere da cui rifuggissi.....
Un’altra scossa, un altro raccapriccio d’Alfredo; ma il vecchio,
infervorato ora nel suo racconto, animato dal calore che gli metteva
nel sangue il riviver quasi in quei tempi lontani, il provar di nuovo
quelle emozioni e quelle passioni, questa volta non se ne accorse
neppure.
— E nulla, nulla mi giovava!... Finalmente un giorno la sorte accennò
di volersi cambiare. Era capitato a Parma, tratto dal suo capriccio,
dal caso, dal destino, un giovane signore di Lugo, chiamato Luigi
Corina....
— Ah! — fece Alfredo, la cui attenzione e l’interessamento, che pure
erano già grandissimi, furono a questo punto eccitati da nuovo impulso.
— Viveva proprio da mezzo matto, profondeva il denaro da ogni parte nel
più stupido modo, cercava i suoi piaceri nelle orgie più basse, negli
eccessi più perniciosi alla salute. Tutti gli mangiavano addosso; egli
lasciava fare con una disdegnosa noncuranza; ma però un giorno che
sorprese il suo servitore a rubargli tranquillamente nello scrigno,
lo scacciò a bastonate dalla sua presenza e dal suo servizio. Egli non
poteva stare un pezzo senza un nuovo domestico, perchè soleva non far
nulla da sè, nè anco di quanto più davvicino lo riguardasse, immerso
sempre in una inerte malavoglia, in una impaziente uggia di tutto e
di tutti, e si raccomandò di qua e di là per avere sollecitamente un
successore al congedato.
Venne proposto anche a me di presentarmi a chiedere quell’ufficio....
Ah! una volta non avrei neppure permesso che mi si parlasse di ciò!
allora accettai e fui sollecito a recarmi da quel signore, col cuore
che mi batteva per la paura di arrivare troppo tardi, e di non piacere
a quell’uomo bizzarro e di non essere accettato; perchè in quel posto
la paga era discreta, e si offrivano molti e molti modi da fare altri
guadagni e poter mettere qualche cosa in disparte.
«I concorrenti furono molti; ma il signor Corina, che volle minutamente
informarsi delle condizioni e della vita di tutti, quando ebbe udita
la mia storia, mi prescelse, dicendomi: « — Anch’io ho amato come
amate voi una Giuseppina; per lei affrontai la collera di mio padre,
le persecuzioni del mondo, le avversità della vita. La morte me l’ha
crudelmente rapita e con lei mi tolse ogni bene, ogni voglia di vivere.
Ora che sarei in grado di darle una esistenza agiata, perchè mio
padre è morto, essa non c’è più, e io non so più che cosa farne nè del
denaro, nè della vita, e non ho più altro desiderio che di gettarli
ambedue. In causa del nome di vostra moglie, pel merito del vostro
amore, prendo voi, e se non siete così asino e così impudente come
colui che s’è fatto cacciare a forza, sarete voi che mi chiuderete
gli occhi dopo il poco tempo che mi rimane ancora da trascinare sulla
terra.» — Entrai così al servizio di lui; era strambo, bizzarro,
ma buono e generoso, e io gli posi presto affezione; da sua parte
egli provò una certa simpatia per me, conobbe zelante e onesto il
mio servizio e non andò molto tempo che mi trattò con benevolenza e
fiducia, di cui mi volle dar prova, narrandomi tutta la storia del suo
passato. Se aveste la pazienza di sentirla, Alfredo....
— Sì, sì, — interruppe vivamente questi: — dite tutto, ho desiderio di
saper tutto, bisogna bene ch’io sappia tutto.
— Suo padre, signore non molto ricco, ma discretamente agiato, era
uno di quegli uomini dell’antico stampo, che come buon metodo di
educazione de’ figli non vedono che il rigore, la severità più spinta
e il sistematico diniego d’ogni menomo piacere, d’ogni soddisfazione
anche del più innocente desiderio giovanile. La casa paterna era
stata così per Luigi, fanciullo e adulto, niente di meglio che una
carcere con un severo carceriere in perenne cipiglio, non buono a
parlargli altrimenti che rampognando. È difficile che gli eccessi
non provochino una riazione, e quindi eccessi dalla parte contraria.
Luigi, d’indole vivace, d’umore bizzoso e di sangue ardente, un bel
giorno si ribellò, il padre lo punì con severità crudele, e il giovane,
appena diciottenne, fuggì di casa. Suo padre giurò che poichè egli
s’era bandito dalle soglie de’ suoi maggiori, lui vivo, non ci sarebbe
rientrato mai più, che non l’avrebbe mai più voluto vedere, mai più
perdonato. Il povero Luigi visse per miracolo, conoscendo anch’egli
che cosa fosse la miseria, aggravandosi di debiti onerosissimi, come
Matteo corse verso la camera del giovane: e questi comparve sulla
soglia con figura che faceva proprio l’effetto d’uno spettro.
— Ah siete qui! — esclamò con voce rauca e tremola per l’emozione, — ho
gran bisogno di voi.
Rientrò nella camera, il vecchio lo segui; e allora Alfredo, richiuso
l’uscio, si piantò in faccia all’usuraio e gli disse:
— A noi due ora!... E pensate che dal nostro colloquio la verità, tutta
la verità ha da venir fuori. Lo voglio: lo voglio a qualunque costo!
XXX.
Soli nella camera di Alfredo, l’uno in faccia all’altro, que’ due
uomini stettero un poco in silenzio guardandosi fissamente; ma con
quanto diversi sentimenti e affetti si guardavano! Nel vecchio era un
pietoso intenerimento, una compassione piena di amore, di rimpianto,
di rimorso per quelle sofferenze di cui vedeva sì evidenti e sì
crudeli impronte nelle sembianze del giovane: in costui, per contro,
era un’irritazione, una rabbia intensa, una malevolenza che toccava
proprio le maggiori proporzioni dell’odio. Di quell’uomo che gli stava
dinanzi, Alfredo aveva in quel momento obliato affatto tutti i servizi
a lui fatti; erano servizi resi alla lontana, senza che vi fosse fra
loro contatto famigliare e affettuoso, non erano cure alla persona,
in cui apparisce meglio l’amorosa devozione; costituivano nel concetto
del giovane un dovere adempito e nulla più e anzi da ultimo, conoscendo
le qualità dell’uomo che glieli aveva resi, il giovane aveva deplorato
che la sorte e la volontà di suo padre, come credeva, l’avessero posto
in tali attinenze con colui. Da due giorni, poi, ogni disdetta, ogni
sventura, ogni umiliazione, ogni scadimento parevano precipitarglisi
addosso e tutti avere un nome e una persona soli, la persona e il
nome di Matteo Arpione, lui, origine, causa e stromento di tutto. Già
lo aspettava perciò coi più ostili sentimenti dell’animo: e questi
niquitosi sentimenti si adersero ancora con più vigore, s’accrebbero
quando e’ si vide dinanzi la figura meschina ed ignobile, i lineamenti
ipocriti, lo sguardo falso, l’umiltà vigliacca di quell’uomo che aveva
imparato da tanti anni a disprezzare profondamente. Anche la presente
di lui commozione, che ad Alfredo parve una finta, concorse ad eccitare
lo sdegno di quell’infelice, la cui ragione vacillava sotto il peso di
quasi ventiquattro ore di spasimo indicibile, poco meno che mortale.
Sviò lo sguardo dal volto scuro e rugoso di Matteo, per potersi
mantenere in calma, e ruppe il silenzio.
— È vero, — cominciò, e la voce gli tremava, come gli tremavano le
labbra e le palpebre, per lo sdegno raffrenato, pel dolore compresso: —
è vero che il nome scritto nel mio atto di battesimo come quello di mia
madre, non è il nome della donna che m’ha dato alla luce?
Matteo aveva avuto fin allora la speranza che voce di ciò non fosse
venuta ad Alfredo, e ch’egli avrebbe ancora potuto tenerglielo
nascosto. Questa domanda fu un colpo dolorosissimo per lui, e la sua
faccia non seppe nascondere l’impressione terribile dell’anima, mentre
le labbra non seppero trovar subito risposta.
— È dunque vero? — gridò Alfredo quasi minaccioso, facendo un passo
verso di lui.
— No, no! — proruppe il vecchio arretrandosi come se avesse paura.
Alfredo si contenne.
— Badate! — disse, premendosi con ambe le mani il petto in cui sentiva
uno strazio inesprimibile. — Si è scritto a Macerata per avere l’atto
mortuario di Giuseppina Ressi moglie Corina.
L’Arpione mandò un gemito che pel giovane fu tutta una confessione.
Egli si percotè co’ pugni chiusi la fronte e cadde seduto esclamando
con voce strozzata dall’angoscia:
— Sciagurato! Sciagurato!
Il vecchio riebbe a un tratto tutto il suo tristo coraggio di
menzogna. L’importante per quel momento, il necessario per lui era
di tranquillare Alfredo, di guadagnar tempo; in qualche maniera poi
avrebbe provveduto.
— Ma no, — disse con forza, — ma non è punto vero... Ma che Lei crede
a codeste sciocche frottole?... Lasci che scrivano anche a casa del
diavolo, e se troveranno qualche cosa che dia fondamento a tali stupide
assurdità, voglio non esser più io...
Queste parole non fecero effetto nessuno sul giovane; la prima
impressione provata da Matteo aveva avuto un linguaggio troppo
eloquente in quel turbamento che non aveva saputo nascondere, in quel
gemito che si era lasciato sfuggire, perchè le successive affermazioni
valessero a smentirlo. Alfredo stette col volto nascosto fra le mani,
il corpo scosso da brividi e sussulti che parevano scotimenti di febbre
e singhiozzi.
L’Arpione fu preso di nuovo e più forte dall’idea di cominciare
per mettere in cura da un medico, e di sua scelta, la salute fisica
d’Alfredo, per la quale in verità la sua amorosa sollecitudine verso di
lui aveva proprio da inquietarsi. Gli si accostò pianamente e gli disse
con voce che osava essere più affettuosa del solito:
— Dia retta, signor conte; Lei ora non istà bene... ha bisogno di
riposo... di qualche rimedio. Creda a me, si ponga a letto.... ascolti
qualche dottore... Questo discorso lo riprenderemo poi, in momento
più opportuno, quando si sentirà meglio. E intanto non s’inquieti,
stia sicuro che io dileguerò ogni nube, che confonderemo tutti i
calunniatori... Su, da bravo, la prego, la scongiuro, si corichi, mi
lasci andare pel medico... Non vede che ha una febbrona addosso?
E osò mettere le dita della destra sul polso d’Alfredo: le carni di
lui veramente scottavano; la mano di Matteo invece era fredda, gelata,
e parve al giovane come il tocco viscido e schifoso d’una biscia. E’
scattò in piedi, pieno di sdegno, di ripugnanza.
— Non toccatemi! — gridò: — e non parlate che per rispondere, e con
sincerità, alle mie domande. Chi sono io adunque? E se mentito è il
nome di mia madre, non è forse mentito eziando quello del padre?
— No, no: — rispondeva Matteo, commosso all’estremo.
Alfredo seguitava:
— E chi fu quella donna sulla cui fossa mi avete condotto? Fu essa
davvero mia madre?
— Oh sì! — proruppe l’Arpione con un accento in cui si sentiva vibrare
la verità.
— Come si chiamava?... Di chi era moglie? Fu essa una tradita?... O una
colpevole?
— Non colpevole! — gridò di nuovo col medesimo accento il vecchio, a
cui la crescente commozione toglieva la solita abilità di schermirsi.
— Dunque tradita?
— Neppure: fu donna virtuosissima e moglie legittima.
— Ma di chi?... Del Corina? Sua seconda moglie?
Il vecchio, disperato di mezzi per uscire da quella rete che sentiva
stringerglisi attorno, accettò premurosamente questo.
— Sì, sì, — rispose: — è appunto così.
— E perchè questa supposizione? se fu moglie legittima ci deve pur
essere atto di matrimonio.
— Non posso dirle nulla.... È un segreto.... Ho giurato solennemente di
non palesarlo.
— E il nome di questa donna?
— Si chiamava Giuseppina anche lei...
— Ma la famiglia?
— Ho giurato di tacere anche questo.
— Ma nessun giuramento, disgraziato, può esimervi ora dal parlare....
Lo esigo, ne ho il diritto... M’agito ciecamente in un mistero che
il mondo mi appone ad infamia; voi potete arrecare la luce, potete
provarmi se ho il diritto di stare a fronte d’un uomo d’onore, e
vorreste tacere? No, no per Dio! Ad ogni costo, per l’anima mia, per
tutto quello che ho sofferto e che soffro, voi parlerete.
S’avanzò di nuovo minaccioso verso l’usuraio.
— No... — balbettava questi: — senta... Sa che cos’è un giuramento....
Non posso in coscienza... almeno adesso... qui... subito... Lasci che
ci pensi su.
— Per avvolgermi in nuovi inganni? No: parlerete subito.
— Le ripeto che non posso... Mi creda... Lei deve pur sapere il grande
interessamento che ho sempre avuto per Lei; ho fatto di tutto per
accrescerne le fortune, per farle una condizione invidiabile... Se
dunque non parlo, se non le obbedisco, Ella deve persuadersi...
Ma l’imprudente aveva toccate un tasto molto pericoloso, che ridestò
altri dolori, altre rabbie, altri sospetti in Alfredo.
— Ah! il vostro interessamento! Ah le mie fortune! — proruppe. — Come
le avete accresciute queste? Col vostro infame mestiere?...
— No...
— Mio padre morì povero...
— No... cioè con imbarazzi... io ho saputo...
— E io non ho mai sospettato di nulla!... E io mi sono valso di
ricchezze che erano frutto delle vostre rapine! Ricchezze scellerate,
maledette, abbominevoli, che m’avvilivano, che mi facevano vostro
complice, sì, che stampavano giustamente su me ignaro il marchio del
disonore.
Si scaldava sempre più; il sangue concitato dalla febbre dell’insonnia,
dalla fatica, dalla mordente passione gli saliva al cervello e ne
offuscava lo spirito; una specie di pazzia, di frenesia, di furore
lo assaliva, lo scuoteva, lo dominava; le labbra gli si agitavano
convulse, un color pavonazzo gli macchiava a chiazze le guancie,
tutte le membra gli tremavano, come all’appressarsi d’un accesso di
epilessia.
— Per carità, Alfredo! — esclamò Matteo spaventato: — si tranquilli...
rientri in sè...
Ma il giovane oramai non vedeva più lume.
— E non basta! — continuava con voce arrangolata. — Non mi avevate
ancora infamato abbastanza... Un’altra nota più scellerata, più
terribile dovevate stamparmi sulla fronte!... A Parma, mi spiaste,
sorprendeste i miei segreti, e andando a rivelare la congiura, faceste
credere me... me per Dio!... me traditore, me delatore, me vigliacco
venditore dei compagni per esser salvo...
— Gran Dio! Alfredo! — esclamò il vecchio che si smarrì per lo spavento
di quella cieca collera del giovane.
— Ah! non lo puoi negare! — ruggì questi.
— Volevo salvarla ad ogni costo!...
Alfredo gettò un urlo. Il parossismo del suo furore raggiunse il
colmo; non vide più nulla, sentì come una forza estranea alla sua
volontà che lo afferrasse e lo precipitasse su quell’uomo ignobile,
curvo, disprezzato, vigliacco, che aveva trovato modo di gettare su
lui innocente parte della sua viltà, della sua bassezza, del disprezzo
in cui lo teneva la gente. Come aveva fatto la sera innanzi coi due
gentiluomini, abbrancò una seggiola, la sollevò...
— Miserabile! — gridò; e la sedia minacciava il capo del vecchio....
Questi cadde a terra accasciato con un grido che pareva d’agonia; ma
prima che il colpo avesse tempo a scendere su di lui, scoppiarono dalle
sue labbra, involontarie, rapide, terribili, queste parole:
— Ah; non uccidere tuo padre!...
Penetrarono, malgrado l’eccitamento di quel morboso furore, nel
cervello di Alfredo; vi fecero, per così dire, il vuoto, distrussero
tutto il precedente tumulto per lasciarvi un’idea sola, orribile,
spaventosa: quell’uomo tristo, disprezzato, odiato, maledetto, era suo
padre. Si arretrò come respinto da un colpo nel petto, come chi rifugge
da uno spettacolo d’orrore a cui s’è affacciato; sentì un freddo
invadergli tutti i nervi, tutte le vene; lasciò cadere la seggiola che
aveva impugnata e le braccia; gli occhi balenarono e s’estinsero; il
pavonazzo delle guancie si estese fino alla fronte, poi lasciò di colpo
il posto ad un pallore di cadavere; barcollò, balbettò:
— Voi!... Voi mio padre!...
E andò a cadere affranto, sfibrato, perduto sopra un sofà all’altro
capo della camera da quello dove il vecchio usuraio stava prostrato a
terra, accasciato, perduto, soffrendo così che «poco è più morte».
XXXI.
Successe un grande silenzio, un silenzio che pareva proprio di morte.
Quei due uomini, questo a uno, quello all’altro capo della camera,
parevano davvero schiacciati ambedue dal medesimo colpo della sventura.
Avevano paura l’un dell’altro, non osavano guardarsi, non osavano
muoversi, pareva non osassero nemmeno respirare.
Nella mente di Alfredo, al tumulto doloroso di poco prima era successo
a un tratto un grande acchetamento, come un silenzio, ma non meno
doloroso, qualche cosa di sconsolato e d’inconsolabile, di deserto, di
rovina, di sgomento senza misura. Strano a dirsi! Di quella esecrabile
verità che gli si era rivelata così di colpo, egli non aveva mai
avuto il menomo sospetto; eppure ora che quelle sciagurate parole
erano sfuggite dalle labbra di lui, strappategli a forza dalla paura
dell’orribile azione ch’egli stava per commettere, ora Alfredo sentì di
subito che quella era la verità, che tale era la sua crudele condanna,
che non ci si poteva trovare riparo, nè scampo, che bisognava curvare
il capo sotto la umiliazione e la vergogna, che bisognava subire
l’infamia.
Rapidamente, quasi come accade in sogno, in cui un attimo raccoglie
avvenimenti di ore e di giorni, s’affacciarono alla mente del giovane
tutti i fatti, tutta la condotta di quell’uomo, tutte le prove della
verità di quell’asserzione che improvviso veniva a porre l’ultimo
suggello all’opera del suo degradamento, a dargli l’ultima spinta per
la sua terribile caduta. Quel taciturno abbattimento, quella morta
calma del suo animo, continuava, anzi si faceva maggiore. Pareva
rassegnazione, apatia: era profonda disperazione. Che cosa fare?
Nulla; non c’era nulla da fare. Era per lui come pell’abitante delle
falde dell’Etna, cui improvviso sorprende una terribile eruzione: il
fiume di lava gli è addosso, prima che abbia tempo ad accorgersene,
prima che possa pur pensare a porre in salvo sè e le cose sue; l’onda
affuocata, precipitosa è lì, già ne sente la vampa soffocante, un
minuto e tutto sarà travolto nel suo vortice ardente: non c’è che
incrociare le braccia e lasciarla venire. Ma almeno quell’onda di
fiamma sopraggiunge, passa, tutto distrugge; quest’onda d’infamia
invece veniva, lo avvolgeva, gli distruggeva intorno ogni bene, ogni
speranza, ogni dignità della vita, ma lo lasciava lui vivo, maledetto,
bestemmiato, deriso, in mezzo alle sue spregievoli rovine, coperto di
fango. Un gemito, un gemito in cui era concentrato un immenso dolore,
uscì dal suo petto, e le mani si contrassero in uno spasimo convulso
intorno alla fronte ardente cui stringevano come se la volessero
schiacciare.
Matteo, dopo un poco, s’era levato su sulle ginocchia; aveva osato
volgere lo sguardo verso il giovane, ne aveva osservato la immobilità,
la calma apparente; trascinandosi così ginocchioni era venuto ad
accostarglisi piano piano, peritoso, palpitante, pentito, commosso da
un tumulto di varii affetti. Quando gli fu giunto dappresso, udì quel
gemito dolorosissimo che, rivelando l’inesprimibile strazio dell’anima
nel giovane, anche in lui veniva a suscitare il più fiero dolore.
— Alfredo! — susurrò egli quasi in un sospiro, timidamente, esitando,
con labbra che tremavano.
Il giovane fece un moto quasi di ripugnanza, non lo guardò, si volse
anzi dall’altra parte, coprendosi sempre colle mani la faccia, poi
disse lento, piano, con voce piena d’amara vergogna:
— Voi dunque siete?...
Matteo non lo lasciò terminare: il pentimento, che già aveva nel
cuore per la sua debolezza di quell’istante, in cui aveva violata la
promessa che s’era fatta, la più ferma risoluzione che aveva presa di
non rivelar mai tal segreto ad anima viva, e tanto meno ad Alfredo:
quel pentimento, dico, prese una subita violenza; egli scattò in piedi,
interrompendo con vivacità, con forza:
— No, no, — gridò, — non è vero... Che cosa ho detto? Mi sono sfuggite
delle parole senza senso in un momento di pazzo terrore... veramente
pazzo... io non sono che un servo... un umile servo...
Alfredo alzò vivamente la testa; guardò bene quell’uomo che gli
parlava, e nel turbamento della faccia, nella sgomenta irrequietezza
degli occhi, ci lesse la menzogna.
Sorse in piedi ancor egli, fece un gesto a imporre silenzio al vecchio,
e con un’apparente freddezza, in cui però si sentiva lo scoraggiato
abbandono di qualunque speranza, disse:
— Non mentite più... La rivelazione ora sfuggita mi ha spiegato
tutto... Sono stato io un insensato a non sospettarlo prima, a
non indovinarlo dai mille indizi che pur ne avevo.... Ora io sono
finalmente davanti alla gran verità... Bisogna ch’io la conosca tutta.
Ne ho il diritto, e lo voglio. Perch’io sappia quel che mi tocca fare
e se c’è qualche cosa da fare, è necessario che la rivelazione sia
completa. Parlate. Voi vedete com’io sono in perfetta calma. Perchè
mi avete avvolto in questo mistero? Come sono io nato? Qual segreto
di vergogna e d’ignominia mi ha preso fin dalle fascie e mi accompagna
nella vita? Voi m’avete pur detto che mia madre... la mia vera madre,
non fu colpevole, fu virtuosa... Anche allora avete mentito?
— Oh no! — gridò Matteo con impeto, con islancio che proveniva proprio
dall’intimo del cuore, che rivelava l’indignazione d’una sublime fede
oltraggiata con un dubbio. — Oh no: questa è verità sacrosanta...
Quella donna fu un angelo... Ve lo affermo, Alfredo, ve lo giuro!
Il giovane, in mezzo all’angoscia che gli stringeva il cuore, che
quasi ne intorpidiva la mente, provò a quelle parole un lieve senso di
dolcezza.
— Ditemi tutto: — esclamò. — Oh ditemi tutto!
Matteo curvò basso basso il capo e stette un momento immobile e muto,
evidentemente perplesso. Un’ultima lotta aveva luogo in lui; no, non
era neppure una lotta, era un’incertezza, un’esitazione, una confusa
vacuità di pensiero.
— Dunque? — soggiunse il giovane con insistenza quasi impaziente, quasi
irosa.
— Sì, parlerò, — rispose allora l’Arpione: — dirò tutto... Avete
ragione: è necessario. Bisogna che sappiate ogni cosa, che impariate a
conoscere colei che vi fu madre e l’uomo... che vi sta dinanzi.
Cominciò la narrazione dei suoi casi: le vicende della sua giovinezza
che già conosciamo, la sua cupidigia di ricchezze, la sua invidia pei
fortunati del mondo, l’odio verso la società e i suoi beniamini, le sue
maledizioni contro la fortuna e i favoriti di lei; poi il suo amore per
Giuseppina Landi, l’onestà di quella fanciulla bellissima, che in mezzo
alla povertà aveva saputo resistere alle seduzioni de’ più ricchi e
generosi vagheggini, come al trasporto del verace amore di lui Matteo,
al quale pure ella non seppe celare di corrispondere. Mancandole qui
a Torino ogni mezzo di guadagnarsi onoratamente la vita, la povera
Giuseppina erane partita per tornare a Parma; da principio Matteo aveva
creduto di poterla facilmente dimenticare e s’era quasi rallegrato che
ciò ponesse termine ad una passione che sentiva egli stesso eccessiva;
ma invece non era stato così, e più passavano i giorni, tanto maggiore
si facevano in lui l’amore per quella fanciulla lontana e il bisogno
di vederla. A un punto non ci resistette più; fece le sue valigie,
prese con sè tutto quel poco che possedeva e partì per Parma, deciso
a stabilirsi dov’ella fosse, dov’ella volesse, perchè in altri luoghi
lontano da lei, senza di lei, egli non sapeva, non poteva più vivere.
— Giunto a Parma, — così egli continuò il suo racconto, — trovai la mia
Giuseppina accolta ospitalmente in casa di suo cognato Giovanni Carra.
Alfredo, che aveva sempre ascoltato in silenzio, il viso chiuso nelle
mani, senza dare il menomo indizio di quel che provasse, a questo punto
si riscosse.
— Giovanni Carra! — esclamò. — È il nome sottoscritto al mio atto di
battesimo!
— Sì.
— Era cognato di mia madre?
— Ne aveva sposata la sorella maggiore....
— E Pietro Carra... quel sellaio che ho conosciuto a Parma, era figlio
di lui?
— Sì.
— Dunque mio cugino?
— Per l’appunto.
Alfredo pensò ratto a quel poco di attinenze che avevano avuto insieme,
come il caso li aveva accostati.
— E così quella ballerina che fu cagione di tanto scandalo a Parma ed
era cugina di Pietro, è pure mia parente?
— Figliuola dell’altra sorella di vostra madre.
Il giovane chinò il capo. Ricomparve nella sua mente la figura del
duchino di Parma, intorno a cui s’aggruppavano per istrano capriccio
della sorte i suoi cugini ed egli stesso; pensò al delitto ch’egli
aveva voluto compiere e che il figliuolo della sorella di sua madre
aveva eseguito.
— O destino! — esclamò.
Matteo continuava il suo racconto.
— Il mio amore era ancora cresciuto. La indussi a sposarmi; ma la
nostra felicità fu presto turbata da quella orribile divoratrice di
vite, di coscienze, che è la miseria. Ella, appena se poteva aver
pane sufficiente colle poche lezioni di musica che era riuscita a
procacciarsi; io, per quanto mi fossi adoperato e mi adoperassi,
non avevo potuto, non potevo trovare di che guadagnarmi onestamente
un soldo. Me la presi con la società, con gli uomini, coi ricchi
sopratutto, con la sorte, con Dio. Invidiavo già prima, ora odiai; mi
parvero tutti intorno a me altrettanti nemici che mi opprimessero colla
loro apatia, colla loro fortuna, perfino eziandio colla sterile loro
compassione che mi tornava uno scherno su cui mi spettasse il diritto
di rivalermi, di vendicarmi, di trarre dalla loro imbecillità, dai
vizi, dalle passioni il mio utile, la mia parte di ben di Dio. E non
tanto per me; ma era per lei che amavo sempre più, che era degna d’ogni
felicità, di ogni grandezza; era per lei che mi arrabbiavo, soffrivo,
che mi sentivo capace di qualunque eccesso. Ah! s’ella non mi avesse
chetato colla sua dolcezza, fatto rientrare in me tante volte colla sua
assennata amorevolezza, chi sa fino a qual punto sarebbe andato il mio
delirio, fors’anco fino al delitto....
Alfredo raccapricciò. Il vecchio riprese con vivacità:
— Voi vedete che io vi dico tutto, vi apro affatto il mio cuore, la mia
coscienza, perchè vi possiate leggere fino al fondo, perchè possiate
conoscere qual uomo io mi sia e compiutamente giudicarmi.
Il giovane non pronunziò una parola, fece un atto colla mano perchè
l’altro continuasse, e coprendosi di nuovo il viso, tornò alla sua
immobilità.
— Un fatto, per me un gran fatto venne ad accrescermi i dolori, la
rabbia per la mia impotenza, la smania dei guadagni, e insieme a
innondarmi il cuore di tanta gioia, di tanta tenerezza che mai non
me ne sarei prima creduto capace, che mai non avrei pensato potersene
provare al mondo di tale... Giuseppina, la mia Giuseppina, mi annunziò
che mi avrebbe fatto padre. L’amai ancora di più! Oh come le fui
riconoscente! Come avrei voluto circondarla di agi, di benessere, di
tranquillità, d’ogni delizia! Ella era così sofferente! Le privazioni,
i patimenti d’animo, le angoscie e gli affanni medesimi che le
davo colle mie collere contro la società, colle minaccie che facevo
bestemmiando ai miei simili.... sì, sì, me ne accuso... oh me ne sono
pentito cotanto!... La mia follia diede più volte cagioni di spavento
e di tormento a quell’anima santa, pietosa, mite, angelica.... Tutto
codesto l’aveva indebolita, affranta, stremata.... Che compassione mi
faceva a guardarla, pallida, pallida, le occhiaie allividite, le labbra
assottigliate e bianche, lavorare con quelle mani affusolate, esili,
che parevano di cera, lavorare a cucire pel nascituro quei panni che
veniva procurandosi togliendosi a sè stessa parte di alimento! Come mi
rodevo, come soffrivo, come avrei dato volentieri il mio sangue!...
Un qualche cosa che sembrava singhiozzo lo interruppe. Alfredo lo
guardò di sottecchi. In quel vecchio ammencito, incartapecorito, che
pareva a tutto chiuso e indifferente, la forza del ricordo era tale
che una profonda commozione gli trasmutava la fisonomia di solito
spiacevole e attestava la sincerità del sentimento.
Matteo riprese:
— Per ottenere guadagni, mi umiliai, mi abbassai a qualunque
servizio.... Io, che ero così orgoglioso.... mi acconciai ai disprezzi,
alle impertinenze, ai capricciosi scherni de’ ricchi.... Non ci fu
mestiere da cui rifuggissi.....
Un’altra scossa, un altro raccapriccio d’Alfredo; ma il vecchio,
infervorato ora nel suo racconto, animato dal calore che gli metteva
nel sangue il riviver quasi in quei tempi lontani, il provar di nuovo
quelle emozioni e quelle passioni, questa volta non se ne accorse
neppure.
— E nulla, nulla mi giovava!... Finalmente un giorno la sorte accennò
di volersi cambiare. Era capitato a Parma, tratto dal suo capriccio,
dal caso, dal destino, un giovane signore di Lugo, chiamato Luigi
Corina....
— Ah! — fece Alfredo, la cui attenzione e l’interessamento, che pure
erano già grandissimi, furono a questo punto eccitati da nuovo impulso.
— Viveva proprio da mezzo matto, profondeva il denaro da ogni parte nel
più stupido modo, cercava i suoi piaceri nelle orgie più basse, negli
eccessi più perniciosi alla salute. Tutti gli mangiavano addosso; egli
lasciava fare con una disdegnosa noncuranza; ma però un giorno che
sorprese il suo servitore a rubargli tranquillamente nello scrigno,
lo scacciò a bastonate dalla sua presenza e dal suo servizio. Egli non
poteva stare un pezzo senza un nuovo domestico, perchè soleva non far
nulla da sè, nè anco di quanto più davvicino lo riguardasse, immerso
sempre in una inerte malavoglia, in una impaziente uggia di tutto e
di tutti, e si raccomandò di qua e di là per avere sollecitamente un
successore al congedato.
Venne proposto anche a me di presentarmi a chiedere quell’ufficio....
Ah! una volta non avrei neppure permesso che mi si parlasse di ciò!
allora accettai e fui sollecito a recarmi da quel signore, col cuore
che mi batteva per la paura di arrivare troppo tardi, e di non piacere
a quell’uomo bizzarro e di non essere accettato; perchè in quel posto
la paga era discreta, e si offrivano molti e molti modi da fare altri
guadagni e poter mettere qualche cosa in disparte.
«I concorrenti furono molti; ma il signor Corina, che volle minutamente
informarsi delle condizioni e della vita di tutti, quando ebbe udita
la mia storia, mi prescelse, dicendomi: « — Anch’io ho amato come
amate voi una Giuseppina; per lei affrontai la collera di mio padre,
le persecuzioni del mondo, le avversità della vita. La morte me l’ha
crudelmente rapita e con lei mi tolse ogni bene, ogni voglia di vivere.
Ora che sarei in grado di darle una esistenza agiata, perchè mio
padre è morto, essa non c’è più, e io non so più che cosa farne nè del
denaro, nè della vita, e non ho più altro desiderio che di gettarli
ambedue. In causa del nome di vostra moglie, pel merito del vostro
amore, prendo voi, e se non siete così asino e così impudente come
colui che s’è fatto cacciare a forza, sarete voi che mi chiuderete
gli occhi dopo il poco tempo che mi rimane ancora da trascinare sulla
terra.» — Entrai così al servizio di lui; era strambo, bizzarro,
ma buono e generoso, e io gli posi presto affezione; da sua parte
egli provò una certa simpatia per me, conobbe zelante e onesto il
mio servizio e non andò molto tempo che mi trattò con benevolenza e
fiducia, di cui mi volle dar prova, narrandomi tutta la storia del suo
passato. Se aveste la pazienza di sentirla, Alfredo....
— Sì, sì, — interruppe vivamente questi: — dite tutto, ho desiderio di
saper tutto, bisogna bene ch’io sappia tutto.
— Suo padre, signore non molto ricco, ma discretamente agiato, era
uno di quegli uomini dell’antico stampo, che come buon metodo di
educazione de’ figli non vedono che il rigore, la severità più spinta
e il sistematico diniego d’ogni menomo piacere, d’ogni soddisfazione
anche del più innocente desiderio giovanile. La casa paterna era
stata così per Luigi, fanciullo e adulto, niente di meglio che una
carcere con un severo carceriere in perenne cipiglio, non buono a
parlargli altrimenti che rampognando. È difficile che gli eccessi
non provochino una riazione, e quindi eccessi dalla parte contraria.
Luigi, d’indole vivace, d’umore bizzoso e di sangue ardente, un bel
giorno si ribellò, il padre lo punì con severità crudele, e il giovane,
appena diciottenne, fuggì di casa. Suo padre giurò che poichè egli
s’era bandito dalle soglie de’ suoi maggiori, lui vivo, non ci sarebbe
rientrato mai più, che non l’avrebbe mai più voluto vedere, mai più
perdonato. Il povero Luigi visse per miracolo, conoscendo anch’egli
che cosa fosse la miseria, aggravandosi di debiti onerosissimi, come
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