Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 17

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alla mia ragione fieramente turbata. E che avesse da turbarsi la
più solida ragione per l’accavallarsi di sventure e dolori che mi
precipitarono addosso ad un tratto, Vossignoria lo vorrà, spero,
riconoscere. Il mio sdegno, anche contro il destino che mi percosse
innocente, anche contro di Lei, che dopo flagellata colle parole
l’anima mia, macchiò la sua arma d’un sangue che per me, ad ogni
modo, dev’essere sacro e prezioso; il mio sdegno è passato; non
rimane che l’amarezza... e l’onta.
»Confesso che Ella ebbe impulso quasi irresistibile alla violenza
coll’armi, dalla violenza cieca del mio atto da dissennato;
riconosco che fu involontario il suo ferire un vecchio inerme; e
riconosco pure che fu atto di generosità in Lei il dimenticare a
un tratto chi sono e qual sono per innalzarmi fino a suo uguale un
momento e giuocar meco la partita della morte; riconosca e confessi
Lei pure che le sue oltraggiose parole non potevano a meno di far
ribollire il sangue d’un figlio.
»Ora, la ringrazio di codesto suo atto di generosità, ma, come
ho già dichiarato a quei signori ufficiali, che dietro sua
intromissione vennero gentilmente da me per assumere l’ufficio di
padrini, non intendo approfittarne.
»Che si sparga il mio od il sangue di Lei, a che cosa ciò
rimedierebbe? Non aggiungeremmo che una sventura di più e un
rimorso per uno di noi. Ho finito per accorgermi che v’è un altro
e miglior divisamento da scegliere per me. Parto... sparisco dalla
sua città, signor conte, dal suo mondo, e così lo possa io pure
dalla sua memoria, per sempre. Dove io vada, che cosa sarà di me, a
Lei non importa saperlo e non lo so nemmeno io stesso.
»Una cosa ancora ci tengo soltanto ad affermarle, ed affermarle con
giuramento solenne, come farebbe un moribondo all’agonia, quando si
sente già premere sull’anima il peso enorme dell’infinito e non si
può e non si sa mentire.
»Di tutto il male che si fece per me, in mio vantaggio, io non ne
ho saputo nulla mai. Della ridicola, assurda, ingannevole commedia
che mi si fece rappresentare, io non ebbi pur mai il menomo
sospetto; recitai in buona fede la parte e mi pensai sempre nel
vero. Ahimè, codesto male, per quanto io lo deplori, non posso
ripararlo; ma posso e debbo espiare falli non miei, ma per me
compiti. Al vecchio che riman solo, il non rivedere mai più il
figliuolo per cui ha errato così sventuratamente, sarà espiazione
eziandio. Parto, non mi maledicano, mi dimentichino.
»ALFREDO.»
Il conte Sangré lesse questa lettera non senza qualche commozione.
All’innocenza del giovane egli credeva già, ora ne fu certo. Lesse in
famiglia quell’ultimo addio dell’infelice e fu in tutti per esso un
pietoso compianto.
Da quel giorno diffatti quegli che tutti avevano conosciuto pel conte
Alfredo di Camporolle sparì da Torino e non fu più visto da nessuno.
Si seppe ch’egli era partito per Lugo. Un gran discorrere si fece per
alcuni giorni di lui, delle sue avventure, della sua partenza, per
tutti i salotti anche della società più elegante, per tutti i caffè
di Torino, nei _clubs_ e in ogni adunanza di sfaccendati. Si cercava,
per ispirito di curiosità punto benevola, dell’Arpione: e l’odio che
questi aveva ammucchiato su di sè scoppiava violento nei commenti
maligni e nell’oltraggiosa esultanza della gente che diceva scoperta
finalmente e svergognata l’impostura. Si parlò perfino di processo; ma
il fisco non credette averci gli elementi, e il conte Ernesto Sangrè si
adoperò molto perchè non si facesse, in considerazione non del vecchio
usuraio, ma del figliuolo innocente. Del resto il misero Matteo non
aveva bisogno dell’azione della giustizia umana per essere severamente
punito; il destino, la Provvidenza l’aveva percosso col maggior rigore
possibile.
Chi vedeva allora il padre d’Alfredo non poteva a meno di sentirne
compassione. La sua aria di apatica durezza, quell’indifferenza
incommovibile, di cui egli si era fatta un’arma e una maschera, quella
ch’egli era riuscito a imporsi e che poteva proprio dirsi faccia di
bronzo, non esisteva più affatto, come caduta a pezzi, per lasciare
scorgere di dietro la vera faccia, quella d’un uomo colpito da un
inconsolabile dolore, improntata dai segni più profondi dello spasimo
e della disperazione. Se prima egli aveva tale aspetto che qualunque
sarebbe stato imbarazzato a dirne l’età, ora appariva decrepito: il
corpo gli si era incurvato, gli occhi vieppiù infossati e circondati di
quel rosso che lasciano le lagrime dopo che sono state tutte spremute,
le labbra divenute floscie, pendenti, livide; dalle gnancie avvizzite
erano saltati fuori vieppiù gli sporgenti zigomi; avresti detto che
toccava i cent’anni.
Quanto aveva pianto! Egli che da tanti, tanti anni non aveva più
versato una lagrima, da quando aveva visto calar nella fossa la salma
dell’unica donna che avesse amata. Chi l’avesse visto quella sera in
cui Alfredo era partito! Per decidersi a lasciarlo, per acconsentire
a quanto il figliuolo aveva determinato, egli aveva dovuto rinnegare
tutto il suo passato, veder distrutta interamente la sua opera, fatti
inutili tutti i suoi travagli, tutti i sacrifizi. Aveva supplicato
Alfredo di lasciarsi seguitare da lui, come da un cane fedele; ma il
giovane non aveva ceduto per nessuna preghiera. Non aveva manco voluto
che lo accompagnasse alla stazione della via ferrata donde egli partì
per un treno notturno, miseramente vestito, celandosi il viso, con
un biglietto di terza classe. Nell’addio, il vecchio, a manifestare
la sua disperazione, non potè nemmeno trovare parola; balbettò, finì
per gettarsi in ginocchio ai piedi del figlio, e scoppiò in pianto,
gridando in mezzo ai singhiozzi con voce strozzata:
— Perdono!... Perdono!
Alfredo stette un istante come incerto di quel che dovesse fare, come
assorto in chi sa quali lontani pensamenti, poi si riscosse, abbassò
una mano sulle chiome scarmigliate di quel capo brizzolato, oppresso
dalla vergogna, dal pentimento, dal disprezzo del mondo, che era il
capo di suo padre, e disse grave e quasi solenne:
— Vi perdono, e prego da Dio che il dolore che io sono costretto a
darvi, sia per voi sufficiente espiazione ad ogni cosa.
Le ciarle della cittadinanza torinese avevano già cessato di occuparsi
di Alfredo, tanto più che le gravi novelle politiche onde si preludiava
alla guerra che doveva scoppiare in sul finire di aprile, tutta
chiamavano a sè la pubblica attenzione, quando giunse notizia che per
un poco rimise di nuovo quell’argomento nei discorsi della gente. La
notizia era venuta con una lettera di Ernesto Sangré alla famiglia. Al
maggiore delle Guardie, Alfredo aveva scritto così:
«Cedo a una tentazione d’amor proprio a cui dovrei resistere; ma
non ho saputo ancora cotanto straniarmi dalle vanità mondane, per
non tenerci a farmi un po’ meno ostilmente apprezzare da quell’uomo
che ho stimato e che continuo a stimare più di tutti. Faccio
dunque un’eccezione alla regola che mi son fatta di non fare più
sapere nulla di me, per apprenderle che d’ogni possedimento, d’ogni
ricchezza di cui ho goduto finora, mi sono spogliato, istituendo
col ricavo della vendita opere di beneficenza in quei paesi
dove esistono quei tenimenti e quelle ricchezze. Ora sono povero
affatto, e sono assai più libero e leggero per ricominciare il
corso della mia esistenza, in mezzo alla plebe, di cui sono e a cui
appartengo.»
Ernesto scrisse alla madre e al fratello che in Torino, dove tanto
s’era pure inveito contra il misero tacciato d’avventuriero, facessero
conoscere quest’atto, che egli non esitava a proclamare de’ più nobili.
Si seppe poi diffatti per altre parti che dal Corina (egli legalmente
non aveva altro nome da portare) erano stati fondati un ospedale, un
asilo infantile e una cassa di pensioni pei vecchi operai, impiegando
in ciò tutto il vistoso suo patrimonio. Nella società che Alfredo aveva
frequentata, alcuni lo lodarono, parecchi dissero con indifferenza che
non aveva fatto più del suo dovere, non pochi eziandio lo derisero
e giudicarono la sua una sciocchezza: tutti poi, dopo un poco,
l’obliarono.
Non era scorsa una settimana, quando Matteo Arpione, a cui il figliuolo
non aveva mai scritto, ricevette una lettera da Cuneo, in cui lesse
tremante per emozione, avendone subito riconosciuta la calligrafia:
«Se volete vedermi, trovatevi martedì sera sul viale di Piazza
d’Armi verso la Crocetta, alle ore otto; avrò dieci minuti da
darvi. — ALFREDO.»
Matteo sussultò di gioia, e nella grandissima sorpresa che questo
biglietto gli produsse, fecero capolino alcune speranze lusinghiere
al suo cuore di padre. Alfredo gli aveva detto che presso di lui non
sarebbe tornato mai e che quindi in terra non si sarebbero più visti,
che sarebbe partito per l’America a raggiungere il cugino Pietro, al
quale anzi aveva scritto subito per rivelare il suo essere, notificare
la sua determinazione e domandare informazioni e consigli; e ora
scriveva da Cuneo, annunziava il suo ritorno a Torino, senza dire
alcuna ragione, senza accennare per quanto tempo, e gli scriveva, a
lui, suo padre, per dargli un convegno. Avesse cambiato avviso! Si
fosse pentito della sua crudeltà verso il vecchio, avesse compreso
che lo aveva condannato a una pena soverchia e venisse per dirgli che
lo prendeva seco! E se anco non fosse così, rinasceva nell’animo del
povero padre la speranza di ottenere ancora questa sorte benedetta,
scongiurandolo di nuovo, movendone la compassione.
A ogni modo, la sera indicata, col cuore che gli batteva, il vecchio
era fin dalle sette ore sul viale designato, guardando con tanto
d’occhi, fin dal più lontano che gli apparivano tutte le figure di
giovani, per poter scorgere più presto le dilette, desiate sembianze
del figliuolo.
Erano incominciati i movimenti di truppa, perchè il Piemonte prendeva
le necessarie disposizioni difensive contro l’Austria le cui armi
rumoreggiavano minacciose al confine. Quel pomeriggio un corpo di
volontari passava da Torino per andare ad accantonarsi a Brandizzo; e
tutta la popolazione era alla stazione di Porta Nuova, dove giungevano
col treno della ferrata, per salutarli, acclamarli e accompagnarli fino
fuori Porta Milano, chè dovevano poi recarsi a piedi al luogo loro
prescritto. Appena fuori della stazione, mentre i giovani volontari
applauditi, circondati, abbracciati, oppressi dai cittadini, stentavano
a mettersi in ordine e formare le file, si sarebbe potuto osservare
uno di quei militi sgusciar lesto dalle righe, dire alcune parole al
capitano, il quale si affannava a raccogliere la compagnia, e avutone
in risposta un gesto d’assenso, correre presso i carri dei bagagli,
deporvi lesto lo zaino e il fucile, raccomandandoli ad uno dei compagni
fra quelli che erano di scorta, e poi torsi sollecito di mezzo ai
soldati e alla folla, e sparire.
Tutta la calca aveva accompagnato i volontari all’altra parte della
città, precisamente a quella opposta a piazza d’armi, così che quando
Matteo venne al luogo del convegno, quel viale in tal epoca dell’anno
già sempre scarso di passeggieri quando il giorno è caduto, quella sera
era quasi affatto deserto.
Le tenebre scendevano, e Matteo impaziente, ansioso, tormentato, non
vedeva giungere colui che attendeva con tanto ardore di desiderio.
Che non venisse? Certo bisognava che per ciò gli fosse capitata
disgrazia, giacchè non avrebbe avuta la barbarie di scrivergli così,
di fargli nascere quella speranza per poi dargli il doloroso colpo
della delusione. E se una sventura lo avesse colpito, come fare a
chiarirsene? Pensava correre a Cuneo donde il bollo postale gli aveva
appreso che la lettera era partita, e là mettere sossopra la città
finchè avesse trovato il figliuolo, quando ad un tratto vide, saltato
il fosso di fianco del viale, piantarglisi innanzi un volontario dei
garibaldini e dirgli con voce ben nota, perchè gli era impressa nel
cuore.
— Non mi riconoscete più?.... Sono io.
Matteo stette lì, stordito.
— Voi!... Tu! — esclamò, non trovando parole. — In quell’abito!... Che
vuol dire?
E il giovane pacato, serio, ma dolcemente melanconico:
— Vuol dire che sul punto d’imbarcarmi per l’America mi venne un
pensiero più giusto, più degno. L’Italia ha bisogno di soldati, sono
venuto a dargliene uno.
— Gran Dio! — gemette il vecchio. — Ancora una volta alla guerra!...
Ma tutto il tempo che sei stato in Crimea fu per me un’agonia; e ora di
nuovo....
— Conviene rassegnarvi. Non vi ho già detto che dovevate fare un
sacrifizio di vostro figlio?
— Ma io non voglio....
Alfredo lo interruppe con una mossa e uno sguardo più efficaci di
qualunque parola.
— Non voglio che tu muoia: — continuò il padre.
— Lasciate fare la Provvidenza: — disse gravemente il giovane. —
Se mi manda la morte, sia la benvenuta: se vuole lasciarmi in vita,
ripiglierò allora il mio primo disegno e andrò in America a lavorare
per vivere.
— E ora, — disse Matteo, — almeno tu mi rimani un po’ di tempo?
Alfredo scosse la testa.
— Questa notte?
— No.
— Quante ore?
— Neppur una.
— Hai da raggiungere il tuo reggimento?
— Il capitano che è un antico soldato dell’esercito col quale ci siamo
trovati in Crimea, per ispeciale amicizia mi ha concesso di assentarmi
dalla compagnia fino a domani sera.
— E dunque?
— Questo permesso l’ho domandato per un particolare motivo in cui voi
non c’entrate e che non vi dirò.
Matteo curvò il capo rassegnatamente.
— E mi vuoi lasciare così subito?
— Sono stato incerto assai se dovevo avvisarvi del mio passaggio per
Torino e darvi occasione di vedermi.
— Crudele!... Avresti avuto cuore?...
Alfredo l’interruppe con vivacità che sembrava quasi impazienza:
— Vedete bene che vi diedi la posta; sono venuto, vi ho visto, e ora
addio.
— Così poco mi dài di te?
— Mi preme il tempo, bisogna ch’io parta.
— Non vuoi porgermi nemmeno una mano?
Il giovane esitò un momentino e poi tese, quasi con istento, la mano.
L’Arpione l’afferrò, la strinse, la tenne fra le sue, fissando nel
volto del figliuolo i suoi occhi lucenti di lagrime. La sera erasi
fatta sempre più scura; il luogo era ancora più deserto.
— Io non ti vedrò dunque più: — disse l’antico usuraio con voce piena
d’angoscia: — tu vuoi che sia così, e sento nel mio cuore che così
sarà. Ancorchè pietà verso di me ti parlasse pure altra volta, ancorchè
il Signore e la Santa Madonna, che io pregherò sempre tanto tanto, mi
esaudiscano e ti salvino nella guerra, io non sarò più tra i vivi per
poterti vedere al tuo ritorno. La mia vita è compita, la susta che mi
teneva su si è rotta in me; come la mia opera si è infranta, così ogni
forza in me è finita. In questi giorni sopravvivo a me stesso, sono un
cadavere ambulante, non so io stesso come faccia a tenermi in piedi. Al
primo urto cadrò....
— Padre mio! — esclamò Alfredo con voce velata.
— Ah non dico questo per intenerirti: — riprese vivamente il vecchio,
— nè voglio farne lamento. Non ho che quanto mi merito. Tu m’hai
condannato, dunque è giusto.... Ma voglio dire che tu in questo punto
puoi.... devi far conto come di parlare a un moribondo, di ricevere le
ultime parole, le ultime preghiere d’uno che sta per morire. Ripetimi
ancora una volta il tuo perdono, te ne prego.
— Sì, vi ho perdonato, e questo perdono, che è un dovere in me il
darvi, ve lo ripeto ora per più intimo impulso dell’anima. Il mondo,
che ho studiato con più fredda ragione, mi ha mostrate molte pur
troppo le scelleratezze che sono tollerate e anzi fortunate, senza
avere la ragione degna di qualche scusa che aveste voi. Sono frutto
della debolezza ahimè soverchia della nostra natura, della corruzione
della nostra civiltà, dello stato deplorevole dei nostri costumi. Ho
capito che in tutti, anche nei più savi ed onesti, è quasi un debito
l’indulgenza e la pietà.
— Oh grazie! Oh grazie!
Sollevò in fretta la mano del figliuolo, che stringeva sempre, fino
alle sue labbra, e vi stampò un bacio in cui mise la manifestazione di
tutto quell’immenso affetto che da tanto tempo reprimeva nel seno.
— Che cosa fate? — esclamò Alfredo levando via la mano.
— Non ti pare che io ne sia degno? — disse mortificato Matteo.
— Voi siete pure per me il rappresentante di quello che c’è di più
augusto al mondo: la paternità. Sono io che devo inchinarmi innanzi
alla vostra vecchiaia.
Si tolse di capo il berretto militare e curvò la sua bella testa in
atto dignitosamente umile e graziosamente modesto.
— Io vi fui a ogni modo e vi sono causa di gran dolore, padre mio; vi
ho dovuto amareggiare, e invece del conforto che un genitore ha diritto
di sperare in suo figlio, non vi sono oramai che una pena. Anch’io ho
bisogno di sapere che voi siete persuaso della dura necessità delle mie
condizioni e non mi fate una colpa della mia condotta.
— Una colpa in te? — interruppe il vecchio: — oh mai! mai! Tu sei
nobile davvero, tu sei virtuoso, tu sei grande; ho capito la generosità
dell’anima umana ora che ho potuto conoscere a fondo l’anima tua.
L’emozione gli ruppe le parole: stette un momento, muto, in faccia al
figliuolo dal capo chino, sulle fattezze del quale pareva raccogliersi
la poca luce ancora diffusa, per dar loro non so quale irraggiamento
d’idealità.
Era bello davvero nella magrezza, nel pallore, nella mestizia pensosa
e coraggiosa che in quei giorni passati erano succeduti alla primitiva
floridezza della sua gioventù; eravi davvero qualche cosa di eletto,
di superiore in quel figlio del popolo, che, giunto al possesso d’ogni
dono di fortuna, a tutto aveva rinunziato per serbarsi incontaminata
la coscienza, per non macchiarsi col godimento dei frutti della colpa.
Quella era pure una vera nobiltà, quella una grandezza! Il vecchio
padre la sentì; per un momento, in lui, più del dolore potè la superbia
di avere tal figlio.
Alfredo chinò ancora più la testa.
— Ebbene, padre mio, — disse con accento di commozione solenne, in
questo momento di separazione eterna per noi sulla terra, beneditemi
voi, beneditemi in nome vostro, beneditemi in nome di mia madre.
Matteo Arpione con moto brusco, quasi violento, strinse il capo del
giovane colle sue mani ossute, tremanti, con quelle mani che avevano
così avidamente maneggiato l’oro, e che ora avrebbero lasciato tutti i
tesori del mondo per quella testa diletta: strinse il capo del figlio
e lo trasse a sè e vi stampò sulla fronte un bacio lungo, tenace,
appassionato, poi lo serrò al petto, ergendo li volto al cielo,
drizzando l’accasciata persona, assumendo, egli, quel disprezzato,
quel reietto, quel vile, una nuova parvenza di dignità, di elevato
sentimento, sto per dire di autorevolezza.
— Sì, ti benedico, figlio mio, e prego, per tutto quello che ha dovuto
penare e sopportare tuo padre, prego che la vita avvenire sia per te
più lieta e più degna che ora non si possa pensare. Ti benedico a nome
di quell’angelo che fu tua madre, a cui tu rassomigli cotanto, e le cui
preghiere in cielo varranno certo assai più di quelle d’un miserabile
come sono io. Ti benedico, nobile sangue uscito dal mio sangue impuro,
anima eletta incarnata nella stirpe d’un abbietto....
— Tacete, tacete! — proruppe Alfredo. — Non vi posso sentire a parlare
così, non ve lo permette l’anima di mia madre che vi ha amato, che
forse ora aleggia qui intorno a noi, la cui voce mi par sentire
nell’anima consigliarmi, ispirarmi per voi pietà e rispetto. Voi mi
avete benedetto in nome di mia madre; in nome di lei, io vi assolvo...
vi abbraccio.
Gettò le braccia al collo del vecchio e lo strinse al suo petto. Matteo
mandò un grido soffocato di gioia ineffabile.
— Ah Giuseppina! — susurrò. — Ecco una tua grazia! Ora posso morire
senza rimpianto.
E stette un poco, quasi senza forza, abbandonato sul petto del figlio.
Mezz’ora dopo Alfredo partiva, a piedi, alla volta del villaggio di
Sangré.


XXXVIII.

Alfredo voleva morire, era certo di morire nella guerra; un
insuperabile desiderio lo aveva assalito di vedere ancora una volta
l’angelico volto di Albina. Gli era stato facile apprendere che i
due novelli sposi erano andati a godere le prime ineffabili gioie
della loro felicità nel castello di Sangré, e là aveva determinato
di recarsi, anche malgrado il rischio d’esserne veduto, di ricevere
quindi, anche da lei, la sferzata d’uno sguardo di disprezzo. Avrebbe
fatto di tutto per nascondersi, e se poi la fortuna lo avesse tradito,
pazienza, egli avrebbe pur tollerato, dopo tante altre, anche la pena
di quell’onta.
Giunse al villaggio quando appena albeggiava; tutto era ancora
addormentato nelle case e nelle capanne che si aggruppavano intorno
alla collina, in cima della quale sorgeva nero, alto, superbo, turrito
il castello. Non visto da nessuno, il giovane volontario salì fino alla
dimora dei conti di Valneve. Una piccola spianata si estendeva innanzi
al portone, e intorno ad essa delle macchie di nocciuole e di robinie a
farci ombra e ornamento. Giusto nel punto che Alfredo vi giungeva, il
portone si spalancava e si precipitavano fuori abbaiando furiosamente
due cani di Terranuova. Il giovane si gettava ratto tra le macchie
e inoltrandosi frettoloso nel boschetto che vestiva la china del
colle, si sottraeva alla vista del portiere e anche al fiuto dei cani.
Camminato un poco senza saper bene verso dove, udì a poca distanza una
fresca voce infantile che cantava allegramente, e si diresse a quella
parte; riuscì presto ad un sentieruolo, serpeggiante traverso la costa
in mezzo al bosco, per cui scendeva una villanella di forse dodici anni
che si spingeva innanzi due vacche per menarle al pascolo.
La vista di quello straniero dalla camicia rossa e dal berretto rosso,
con un’arma al fianco, di subito spaventò la fanciulla; ma poi la
bellezza d’aspetto del giovane, le buone di lui parole, la curiosità
aiutando massimamente, ben presto vinsero ogni paura e addomesticarono
di subito la contadinella, a cui parve gran cosa discorrere alla
buona così con uno dei soldati del gran Garibaldi. Ne seguì che in
breve Alfredo potè sapere che quella giovanetta era figliuola del
mezzadro d’una delle tante fattorie che circondavano il castello, ed
appartenevano alla famiglia Sangré; che la poteva vantarsi di essere
nelle buone grazie della contessina sposa, venuta da pochi giorni,
perchè non la incontrava mai senza dirle parole che la facevano tremar
di piacere e farle qualche carezza e darle qualche regaluccio; che
del resto la signora era un angelo benedetto da Dio, che venendo a
villeggiare in castello tutti gli anni fin da bambina, aveva sempre
mostrato di voler bene a tutti, e s’era sempre fatta adorare da tutti
quanti, tanta era la sua dolcezza e urbanità di modi, tanta la carità
verso ogni miseria, verso ogni disgrazia, verso ogni dolore; che i
due sposi vivevano proprio come due colombi, sempre insieme, sempre
collo sguardo nello sguardo, sempre sorridendosi; che anche il cavalier
Giulio era il migliore degli uomini, come il più amoroso degli sposi,
generoso, caritatevole, gentile anche lui, che non pareva mai più
fossero quei nobiloni che erano; finalmente che la mattina, appena
alzata, la sposa era solita di fare una passeggiatina, quasi una corsa
pel parco, quasi sempre sola, ed era l’unico momento quello in cui non
fosse con lei il marito che in quel tempo sbrigava i pochi affari che
aveva, scriveva lettere, leggeva i giornali, per essere poi tutto il
resto del giorno tutto tutto alla sposa e della sposa.
Alfredo, ricompensando largamente queste informazioni, ne ottenne
ancora un’altra, che in quell’occasione gli era preziosissima: che cioè
il parco in cui la contessina faceva la sua passeggiata mattiniera
non era cinto che da una siepe in più luoghi interrotta e facilmente
varcabile.
Si congedò con molti ringraziamenti dalla giovanetta, e prese la
direzione opposta a quella del castello; ma quando fu fuori dalla
vista della contadinella, volse rattamente indietro e, guidandosi
all’aspetto delle torri che di quando in quando gli apparivano,
traverso la boscaglia risalì verso il culmine della collina. A un punto
la boscaglia finiva e dopo un piccol tratto una siepe di biancospino
gl’indicava il limite del parco, di cui vedevansi i boschetti regolari
e le praterie stendersi lungo la china. Gli fu facile attraversare
la siepe e col cuore che gli batteva — come quella sera in cui erasi
introdotto nel giardino del palazzo in Torino — si venne accostando al
castello.
A un tratto ebbe un sussulto e si fermò come spaurito. Aveva udito una
risata fresca, argentina, armoniosa, risuonare lì presso. Si nascose in
fretta. Una visione terribile e soave gli passò dinanzi.
Vestita d’un abito di lana finissima bianca, foderato di seta color
rosa, un po’ aperto in alto del busto, così che da una nube di trine
si vedeva sorgere dalla base il collo esile, candido, graziosissimo,
le ricchissime chiome bionde cascanti con un abbandono che riusciva
bellissimo in ricciolini e ciocche sulla piccola fronte, sulla nuca,
sulle spalle, come una pioggia di pallido oro in cui si rifletteva
carezzevole il raggio del sole mattutino, uscenti dalle larghe maniche
di mezzo a un ammasso di pizzi ancor esse le braccia eleganti, tornite,
le labbra del color della ciliegia ridenti, gli occhi cilestrini più
ridenti ancora, Albina sopraggiunse correndo leggera e leggiadra. Aveva
le mani sopraccariche di fiori e nella corsa ne veniva perdendo via
via quasi a ogni passo. Tutto rideva in lei: la splendida gioventù,
la impareggiabile bellezza, la felicità senza ombre, il santissimo,
corrisposto amore; e tutto le sorrideva intorno «l’ora del tempo e la
dolce stagione» il primo raggio di sole, la prima verzura e i primi
fiori della vegetazione, l’azzurro del cielo, il canto degli uccelli,
il sussurrar dell’auretta. Pareva che un’allegria, un concento, una
luce di festa accompagnassero dappertutto quella personcina elegante e
le facessero intorno un’aureola, un ambiente di eden, riflettendo anche
sulle cose inanimate lo splendore di tanta bellezza, lo sbarbaglio di
tanta felicità.
La giovane donna corse ancora un poco, notando, per così dire, la
cadenza d’ogni passo con una cara risatina, e poi si fermò addossandosi
a un albero, il respiro leggermente affannoso, un seducente color
roseo sparso sulla fronte, sulle guancie, su quel poco del petto che si
vedeva, per così dire, tralucere in mezzo ai pizzi nell’accollacciatura
della veste. L’animazione allegra della fisonomia e dello sguardo, il
sorrisetto gaiamente malizioso delle labbruzze incarnatine, traverso
cui si vedeva lucido il candore dei dentini, davano al volto di Albina
un’espressione che Alfredo non le aveva mai visto; un’espressione così
affascinante, che il giovane chiuse un momento gli occhi, come per
sottrarsene alla vista, sentendosene in petto ferire come da un dolore.
Non aveva mai avuto innanzi fino allora che la fanciulla dignitosa,
severa, nobile, alteramente gentile; ora gli si rivelava a un tratto
la donna innamorata, abbandonantesi al suo amore senza rimpianti, senza
rimorsi, senza suggezioni, e felice; e questa vista gli faceva pensare,
indovinare un tal paradiso, che l’anima sua non reggeva all’idea di
averlo perduto, per non potere sperare mai, mai, di conseguirlo.
Per eccezione, quella mattina, anche lo sposo partecipava alla
passeggiata della giovane castellana. Sopraggiunse correndo anch’egli,
ma arrestandosi man mano per raccogliere in terra i fiori che Albina
aveva lasciato cadere.
— Ah! tu fai come Atalanta che gettava in terra i pomi per non essere
raggiunta: — diceva ridendo anche lui: — ma io ti coglierò lo stesso, e
mi prenderò tutti quei fiori.... ed un bacio insieme.
Anche Giulio era cambiato: aveva nell’aspetto e nel portamento qualche
cosa di più risoluto, di più virile e insieme la luce, l’incanto
d’un’inesprimibile contentezza.
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