Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 05

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— Quello che io ho da dirle, contessina, riguarda l’avvenire di lei e
l’onore del nome che porta.
Albina si scosse vivamente, il suo capo s’aderse più fiero ancora, i
suoi occhi lampeggiarono con espressione di sdegnoso orgoglio, che non
si sarebbe creduta possibile alla solita mitezza de’ suoi sguardi.
— L’onore del mio nome! — proruppe essa con voce vibrante. — Non so
davvero quale attinenza possa esservi mai fra esso e quanto possa esser
detto... da voi!
Le ultime parole furono pronunziate con un accento di sì profondo
disprezzo da schiacciare il coraggio del più temerario; Matteo, lui,
non si commosse, continuò in quel suo atteggiamento umile e dimesso, e
riprese sottovoce sempre, ma chiaro, lento e a parole misurate:
— Mi faccia la grazia d’ascoltarmi, e vedrà... C’è pure una favola che
dice come un leone caduto nella rete potè essere salvato da un umile
topolino: immagini che in quest’occasione io possa aver la parte di
quel debole animaluccio, anzi con tanto maggiore efficacia che ora è il
topo medesimo che può far cadere nella fossa il leone.
La contessina corrugò le dorate sopracciglia e stette un momento le
labbra serrate come a meditare, poi crollò il capo e disse col medesimo
accento:
— Non ho tempo e voglia di spiegare i vostri enimmi; parlate
apertamente se pur desiderate ch’io v’intenda.
— Ho detto che avevo da parlarle intorno all’avvenire di lei...
Albina fece un atto pieno di alterezza, che significava il suo
avvenire non potere in nessun modo avere attinenza con fatti o cose che
riguardassero chi le parlava.
— E quindi, poichè Ella lo desidera, le dirò subito, senz’altra
preparazione, che il suo matrimonio col cavaliere Giulio, non deve, non
può aver luogo.
La nobile fanciulla questa volta interruppe con un grido di sdegno.
— Non una parola di più, signor... Arpione. Voi abusate stranamente
della mia bontà, della mia debolezza ad ammettervi al mio cospetto. Ho
già sentito troppo e vi prego... vi comando di partire.
— Perdoni... — disse Matteo più umile e supplichevole di prima: —
abbia la bontà di ascoltarmi con animo pacato: è pel suo bene, pel suo
interesse...
Albina gli accennò l’uscio con atto di fiero comando.
— Le assicuro che non si pentirà di avermi ascoltato.
Essa abbassò il suo braccio e s’avviò risolutamente verso il camino
dove pendeva il cordone del campanello per chiamare la servitù. Già
vi era presso, già allungava la mano ad afferrare il fiocco di seta:
il vecchio usuraio si drizzò della persona, saettò dal fondo delle
occhiaie incavate uno sguardo che aveva il scintillio d’un’arma nel
ferire, e con voce sempre bassa, ma risoluta e piena di forza, disse:
— Si fermi... non mi faccia scacciare da’ suoi servi, signorina... in
nome dell’onore della sua famiglia che ho già invocato... in nome di
suo padre!
Albina si volse di scatto come ferita da una vipera, altera, arrossata
fino alla fronte dalla commozione dello sdegno.
— Ancora! — sclamò. — Voi osate invocare la memoria di mio padre?
Il vecchio tornò umile, dimesso, dolorosamente supplichevole.
— Ah, contessina! — disse. — Lei non può nemmeno immaginare quanto
io realmente soffra nel venirle a dare un colpo simile.... Sono tanti
anni che taccio e avrei continuato a tacere; ma ora una ineluttabile
necessità mi vi spinge. Ella mi approverà, Ella mi sarà grata, ch’io
mi sia rivolto a lei direttamente, piuttosto che ad ogni altro, e così
possano la signora contessa sua madre, i signori conte e cavaliere suoi
fratelli ignorare tutto come prima e sempre, come ignorerà tutto sempre
la gente; e sia risparmiato così ai suoi cari, specialmente a sua
madre, che poverina, forse ne morrebbe, il più grande affanno che possa
mai colpirli al mondo.
La giovinetta ascoltava sbalordita; era di troppo ingenua, di troppo
schietta e nobile natura per poter pure immaginarsi soltanto che
tutto fosse menzogna ciò che quell’uomo le veniva dicendo; quel certo
concetto pauroso che si era fatto vagamente di colui che le parlava si
veniva ora affermando con più precisa determinazione e con proporzioni
davvero spaventose: lo guardava con occhi sbarrati; impallidì un
pochino e con labbra quasi tremanti, domandò:
— Che volete dire?... Che volete dire, in nome di Dio!
L’Arpione si avvicinò vieppiù alla giovane e prese un tono di
domestichezza che non aveva avuto fino allora e che a lei fece correre
pei nervi quasi un ribrezzo.
— Bene a ragione la nostra santa religione ci comanda di essere pietosi
verso i trascorsi perfino de’ più grandi peccatori, perchè anche il
più saggio, anche il più onesto, sotto l’impulso della necessità, la
tentazione del demonio, può fallire.... infelicemente fallire....
Albina lo guardava sempre con quei suoi begli occhi spaventati:
cominciava a capire che quell’uomo intendeva accusare di qualche
fallo alcuno della famiglia di lei. Chi? Ernesto probabilmente, il
primogenito, che aveva da giovane dato motivi di sdegno e dispiacere
ai genitori. Non aveva detto appunto colui di aver taciuto per tanti
anni? Era dunque una colpa antica del fratello che ora e’ voleva
risuscitare? E veniva da lei per risparmiarne il dolore alla madre.
Sì, in ciò egli aveva ragione: ella avrebbe fatto di tutto perchè la
madre ignorasse. Ma in qual modo avrebbe potuto adoperarsi a tal uopo?
e qual’era quella colpa? E davvero tale, come accennava quell’uomo, che
l’onore della famiglia ne fosse offeso? No, ciò le pareva impossibile.
Ernesto non aveva mai potuto mancare ai doveri nè del gentiluomo,
nè del galantuomo. Tutto questo, le turbinava nella mente; avrebbe
voluto subito penetrare il vero e ci aveva ribrezzo, avrebbe voluto
interrogare e non trovava parola: congiunse le sue manine bianche e
sottili e se le torse nervosamente, soggiungendo secco e vibrato:
— Ma parlate, parlate...
Matteo abbassò ancora la voce:
— Il conte-presidente fu pure il re de’ galantuomini, ma tuttavia...
Si fermò, come se non osasse continuare.
— Il conte-presidente? Mio padre? — ripetè la giovane che sentiva la
mente confondersi vieppiù. — Ebbene?
— Ebbe il suo momento di debolezza...
Un grido, un fiero grido uscì dalle labbra frementi di Albina.
— Lui!... Mio padre!... Disgraziato! Osereste accusare mio padre?
L’aspetto della fanciulla raggiava un così fiero sdegno, l’occhio
fulminava così acceso che Matteo non vi potè reggere; curvò il capo,
abbassò lo sguardo e si fece indietro, come pauroso, di alcuni passi.
Essa camminò superba verso di lui.
— Ah ti confondi! — esclamò. — Tu lo confessi... Hai mentito,
infamemente mentito.
L’esitazione dell’usuraio fu breve: egli troppo si era afforzato nella
sua risoluzione, troppo gli stava a cuore il concepito disegno per
arrestarsi ora e cedere: si drizzò alquanto della curva persona, non
osò fissare in volto la giovane, ma disse con ferma voce:
— No, non ho mentito.... È pur troppo così. E ho le prove di quel che
affermo.
Albina da rossa come s’era fatta nel volto pel primo impeto dello
sdegno, divenne pallida; si vedeva lo sforzo che faceva a sè stessa per
dominare la propria emozione.
— Come avete potuto pensare, miserabile, — disse con voce soffocata, —
che simili parole fossero tollerate qui... qui dove mio padre visse...
e in presenza di una sua figlia?... Oh certo avete fatto bene a non
dirle che i miei fratelli le sentissero... Io, una fanciulla, non
posso, non debbo che scacciarvi di qua, pentendomi amaramente di aver
avuta la debolezza di ricevervi.
— Senta, contessina...
— Uscite!
— Lei forse non ha badato bene alle mie ultime parole...
— Uscite! — e tese di nuovo con atto d’imponente comando la mano verso
la porta.
— Io le ho detto che ho le prove...
— Uscite! — tuonò la fanciulla con voce di tanta forza che non si
sarebbe creduta possibile in sì delicata persona, e nello stesso tempo
ella diede una strappata al cordone del campanello.
— Ella se ne pentirà, — disse affrettatamente Matteo pur camminando
verso l’uscio. — Ho in mio potere una lettera di suo padre... l’ho
qui meco... Lei può vedere se io dico bugia... — (E trasse sollecito
dal portafogli il mezzo foglio che ci aveva riposto la sera prima);
— Eccola... Ella conoscerà bene la mano di scritto?... — (Tendeva la
carta verso della fanciulla). — E se Lei non mi ascolta, se Lei mi
scaccia, questa sera medesima io farò stampare e pubblicare su qualche
giornale questo scritto, coi commenti...
Albina non potè frenare un primo impulso di curiosità, di ansiosa
emozione; fece vivamente un passo verso quell’uomo, tese una mano come
per prendere quel pezzo di carta ch’egli le porgeva; ma se ne pentì
subito, lasciò cader la mano; però un freddo le corse per le vene: le
pareva di riconoscere la scrittura di suo padre.
— Prenda, prenda: — diceva sollecito Matteo avvicinandosi di nuovo di
due passi alla giovane: — oh glie la lascierò esaminare quanto vuole.
L’uscio si apriva in quella e compariva la Giustina, alquanto inquieta
per la violenza con cui era stato suonato il campanello. Vedeva in
quel punto il vecchio che porgeva una carta alla signorina e questa che
pareva esitare a prenderla.
— La contessina comanda qualche cosa?
— Sì... — rispondeva un po’ confusa la giovane arrossendo per la
piccola bugia che stava per dire, per la vergogna di cedere alla
potente, dolorosa curiosità che l’aveva invasa: — posso aver bisogno
di qualche domestico; faccia il piacere, Giustina, di ordinare che uno
stia pronto costì nella mia anticamera.
La Giustina gettò un lungo sguardo osservatore sulla padroncina e
sull’usuraio, fece una profonda riverenza e se ne partì dicendo alla
giovane che sarebbe tosto ubbidita.
Appena soli di nuovo Matteo riprese:
— Le ho fatto, contessina, una brutta minaccia, la minaccia di un
colpo terribile, che io non vorrei avere da darle a nessun costo. Oh
creda che io proprio non verrò all’estremo di pubblicare questo fatale
documento che quando avrò perduta affatto ogni speranza di ottenere il
mio intento.... E, appena Lei avrà esaminato.... Guardi, contessina,
se io non sono di buona fede, e se non voglio procedere con una lealtà
eccezionale.... Questo scritto è per me preziosissimo; è il solo mezzo
ch’io mi abbia per ottenere cosa che mi sta più a cuore d’ogni altra
a questo mondo... ma che questo mondo?... anche della eterna felicità
nell’altro.... Ebbene, ecco, vede, questa carta, un tesoro per me, io
la depongo qui su questo tavolino, e mi allontano fin là al fondo del
salotto.... e Lei può venire a prenderla e leggerla... e io aspetterò
laggiù in silenzio a vedere quale effetto le avrà prodotto questa
lettera e a dirle il modo onde salvare il riposo, il decoro della
madre, dei fratelli, di tutta la famiglia.
Albina fece un movimento brusco, ferita al vivo di bel nuovo da
queste parole; ma non parlò, non volse neppure uno sguardo verso
l’usuraio. Questi venne col suo passo strisciante fino al tavolino
che non era lontano dal posto in cui stava la fanciulla, vi depose
spiegato il foglio, e poi, come aveva detto, si allontanò con ostentata
discrezione.
Lo sguardo della giovane guizzò verso la carta posta così all’arrivo
della sua mano. Ah non c’era proprio dubbio: quella era la scrittura
paterna; Albina mandò un sospiro, arrossì leggermente, tese con atto
vivace la destra, prese il foglio e lesse.


XII.

«A mio figlio Ernesto.
«Trovandomi vicino a comparire innanzi al Giudice Supremo, mi
sento l’obbligo, caro figlio, di dichiararti una grave mia colpa,
che tutti ignorano, della quale l’unico che potrebbe accusarmi
è spento pur troppo, che ora forma il rimorso degli ultimi miei
giorni di vita e cui lascio a te il debito di riparare, almeno
colla restituzione, e con tutti quei modi che potranno essere da te
giudicati i migliori.
«Sappi adunque, — arrossisco ancora nel solo ricordarlo, — che vi
fu un momento nella mia vita in cui corsi rischio di esporre il
nostro onorato nome alla vergogna e allo scherno che accompagnano
la rovina, la miseria, il decadimento di un’illustre famiglia,
colla vendita giudiziale dei possessi, perfino coll’arresto
personale del debitore, perchè avevo firmato cambiali che avevano
affatto il carattere commerciale.
«Perdonami, Ernesto, come mi avranno perdonato i nostri maggiori da
cui ho pur supplicate con infinito dolore mercede. Non fu trista
indole, non fu neppure soverchia ambizione che mi trassero al mal
passo: fu leggerezza, imprudenza spensierata, incuria e poco senno
pratico della vita; mi pareva che il mio nome, il mio grado, la
mia condizione sociale dovessero imporre alla gente tanto rispetto
per me e per le cose mie, che nessuno avesse da ledere i miei
interessi, da vantaggiarsi delle mie debolezze, da speculare sulla
mia insufficienza; e d’altronde credevo io a questa insufficienza?
«Per farla breve, giunse un giorno in cui s’io non pagava almeno
cinquanta mila lire di cambiali, sarei stato arrestato, si
sarebbero sequestrate le nostre robe, posti all’incanto i nostri
possessi: e quelle cinquanta mila lire io le teneva lì, sotto
mano, chiuse nel mio scrigno: non avevo che da prenderle.... ma non
erano mie: erano un sacro deposito.... Ernesto, che dirai tu quando
saprai che tuo padre si è impadronito di quel deposito?
«Era il padre di Giulio, il buon Armando, che mi aveva affidata
quella somma prima di partire per l’America, e io aveva giurato
custodirgliela. «Vado a tentare la fortuna colaggiù,» mi aveva
detto, «ma può anche essere che invece non trovi che la sventura;
non voglio dunque recar meco tutto quel poco che ho ancora di mio,
lascio a te questo denaro, tu lo serberai a mio figlio....
«E io, sciagurato, lo consumai.»
Qui finiva, il foglio e finiva anche lo scritto, senza data,
senza segnatura, ma, come fu detto già più volte, tutto di mano
incontestabilmente del fu conte Ernesto Sangré di Valneve padre.
Albina non comprese del tutto bene ciò che pur lesse e che rilesse
a più riprese; ma sentiva una grande emozione nel fondo dell’anima,
un gran rivolgimento in tutto il suo essere. Stette immobile, bianca
come un cadavere, dritta, muta, con quel foglio in mano cui guardava
con occhi appannati senza vederlo. Matteo Arpione se ne stava pure
immobile nel suo cantuccio, covando con occhi ansiosi l’espressione
della bella fisionomia della fanciulla. Regnò per un poco in quel
salotto un silenzio di tomba. Poi le mani della giovane s’allargarono e
il foglio ne cadde lentamente, avvolgendosi per aria fino a che giunse
lieve lieve sul tappeto del pavimento; ma l’aveva appena toccato che
Matteo lesto, eppure senza far rumore, era giunto e l’aveva preso per
nuovamente riporlo e serrarlo nel suo portafogli.
La contessina, come smemorata, si portò le mani alla fronte e domandò a
sè stessa più ancora con istupore che con affanno:
— Ma che vuol dir ciò?
L’Arpione, che ora le si trovava lì presso, susurrò piano piano con
voce insinuante:
— Glielo dirò io... Il conte-presidente in realtà, or sono circa
sedici e più anni, si trovò in criticissime condizioni. Lei sa che
io godeva di tutta la confidenza di lui ed ero a parte di ogni cosa
e interesse che lo riguardasse... E, se ho da dire tutta la verità,
sono io che poi lo trassi dalle peste ed ebbi tanta fortuna colla mia
buona amministrazione di ricostruire il patrimonio dei Sangré e di
rifare prospere come sono oggidì nuovamente le loro condizioni... Ma
lasciamo andar questo... non lo dico già per vantarmi... Il vero è che
a quel momento... quando il conte deve avere scritto quella lettera,
egli, senza quella somma di 50 mila lire, era rovinato, e, pensando
alla famiglia, al decoro, all’onore del nome, si decise a servirsi del
deposito fattogli dal cavaliere Armando.
Albina non ebbe più scoppio di collera, pareva affranta; ne’ suoi begli
occhi stavano due lagrime; il suo pallore era tanto che anche le labbra
apparivano più bianche della gorgiera da cui usciva il suo bel collo di
cigno.
— Mio padre avrebbe dunque?... Sarebbe stato?... — le brutte, orribili
parole che dovevan finire quelle frasi non poterono essere pronunziate.
Ella si coprì un momento il volto con quelle sue piccole mani
d’alabastro che tremavano, e fra le dita sottili e affusolate scorsero
come due perle le lagrime contenute fin allora dalle lunghe ciglia
dorate; ma rialzò tosto il capo sicura, e superba. — No; — esclamò: —
non è possibile, non è vero, non è.
— Eppure... — disse ancora più piano l’usuraio: — questa confessione...
— Non ci credo: — interruppe vivamente Albina. — Ho in me una voce
segreta che mi afferma ciò non esser vero...
— Ma questa voce segreta, — soggiunse Matteo sempre sommessamente, —
non parlerà al pubblico...
Ella si riscosse dolorosamente.
— Voi avreste il coraggio di pubblicare?...
— Si, contessina... Ma solamente allora quando vedessi che Ella non
vuole accettare le mie proposte.
La fanciulla fece un moto pieno di alterigia e disprezzo.
— Ah! — esclamò. — Avete ragione. Voi siete venuto qui per vendermi
quella carta.
— No! — gridò con qualche veemenza Matteo.
— Domandatemi quel che volete. Qualunque somma sia, io m’impegno di
farvela ottenere.
— Nessuna somma. Nè cento milioni, nè cento mila. Sono di begli anni,
sa, che possiedo questa carta. Ho io mai pensato a trarne profitto? Ho
taciuto sempre; mi era caro quanto a loro l’onore della memoria di chi
fu mio buon padrone; se ora vengo da Lei è perchè sapevo che non avrei
avuto nessun altro mezzo di ottenere che Ella acconsentisse...
— Ma che volete dunque? — interruppe Albina con isdegnosa impazienza: —
che volete?
— Le ho già detto che il suo matrimonio col cavaliere Giulio non doveva
aver luogo.
Ella fece un atto di superbo diniego, ma tacque.
— E aggiungo ora, — prosegui il vecchio, — che Lei deve dar la mano al
conte Alfredo di Camporolle.
Albina lo guardò meravigliata insieme e sprezzosa.
— È lui che ha comprata la vostra protezione?
— Egli non ne sa nulla, davvero, lo giuro sull’anima mia!... Sono io
che... per certe ragioni che è inutile dire... lo voglio felice ad ogni
costo... E sarà felice anche Lei, ne sia sicura. Il conte Alfredo l’ama
tanto! L’ama da pensare ad uccidersi se la perde! L’ama da farle con
incessante cura una vita tutta gioie e consolazioni. Ed è così buono,
sa, il conte! È un’anima eletta, è un cuor d’oro...
Ella gli troncò le parole con un atto d’impazienza:
— Basta!
— Ella rifiuta?
— Sì...
— E allora mi costringe a pubblicare...
— Ah no, voi non lo farete.
— Lo farò se Ella mi lascia uscire di qui senza la promessa di
acconsentire a quello che io le domando.
— Lasciatemi almeno un po’ di tempo...
— No... preme... quel misero soffre: può da un momento all’altro
abbandonarsi a qualche eccesso di disperazione. Bisogna che quest’oggi
stesso venga a confortarlo un biglietto che lo richiami in questa casa.
— Quest’oggi stesso!
— Vuole Ella sacrificare la memoria venerata di suo padre?... Se io
andassi con questa carta dalla signora contessa Adelaide...
— Ah no: — proruppe Albina con tono di spavento. — Non da mia madre...
— Me lo lasci soltanto supporre: vede bene che ho pur pensato ad
evitare un simile dolore a quella venerata signora. Ma se ci andassi e
le dicessi quello che ho detto a Lei, non crede che sua madre medesima
verrebbe a pregarla di acconsentire?...
Albina si coprì di nuovo il volto colle mani e mormorò con espressione
d’infinito dolore:
— Che fare? Che fare, mio Dio!
E l’altro sommesso, insinuante come prima:
— Quello che le dico io... Dichiarare alla signora mamma e ai fratelli
che, pensandoci bene, Ella si è accorta di amare il conte Alfredo
invece che il cavaliere Giulio; soggiungere che oramai è sua ferma
volontà di sposare il primo; che nulla può farla più cambiare, e
insistere e pregare perchè si scriva subito al conte di Camporolle... e
magari scrivere Lei.
La contessina teneva sempre la faccia nascosta fra le mani.
— È un sogno questo? — balbettava, — È un brutto sogno?
— Sarà una realtà che la farà felice Lei stessa... Tutti sempre
ignoreranno... quella debolezza... la ignorerà sua madre, anche i
fratelli, non riceverà la menoma tacca la memoria del conte... e sarà
proprio come se quella carta non avesse mai esistito.
La giovane si scosse e levò vivamente il capo.
— Quella carta? — domandò con voce soffocata. — Che cosa ne farete?
— La rimetterò nelle sue mani in compenso della solenne sua promessa.
Albina si premette gli occhi per ricacciarne indietro le lagrime; si
premette il cuore per contenerne il palpito doloroso; tese la destra
verso l’usuraio e disse con accento di comando:
— Datemela!
— Ora? Subito?
Ella ripetè seccamente, ma con maggiore imperiosità:
— Datemi quella carta!
Matteo, dominato, soggiogato, s’inchinò, trasse fuori il portafogli,
ne levò quel pezzo di carta, e tenendolo in mano esitante, dubbioso,
incerto, disse:
— Eccola, ma...
Albina gliela strappò di mano.
— O padre mio, — esclamò, — parlami tu, illuminami tu, vieni tu a
chiarirti innocente, come ti sento, ti credo.
— Signorina! — gridò Matteo spaventato: — Ella non può ancora ritenersi
in possesso di quel documento; io le ho detto che non gliel’avrei dato
se non dopo e in compenso della sua promessa...
La contessina lo fulminò d’uno sguardo di tanto disprezzo che gli ruppe
le parole in bocca.
— Questa carta non uscirà più dalle mie mani: — disse Ella: — e voi ne
siete pagato, perchè la mia promessa... l’avete.
Si premette di nuovo il cuore e con voce manchevole soggiunse:
— Ed ora lasciatemi, andate!... Non mi farete, spero, l’oltraggio di
dubitare della mia parola.
— Oh no certo, contessina... Questo mi basta... L’impegno che Ella ha
preso io lo ritengo fin d’ora per solenne e...
— Lasciatemi, vi ho detto, — interruppe Albina. — Ho gran bisogno di
esser sola.
Matteo Arpione partì inchinandosi umilmente; la giovane, appena egli
fu fuor dell’uscio, cadde seduta, mandando un gemito di dolore, mezzo
priva di sensi; nelle mani contratte con cui si premeva il petto
stringeva spiegazzata la lettera del morto padre.


XIII.

Alfredo aveva già ricevuto un po’ di conforto dal bigliettino anonimo
che misteriosamente si era trovato sul tavolino e di cui aveva cercato
invano di conoscere la provenienza; ma la giornata successiva era già
quasi trascorsa senza che nessun fatto venisse a rinforzare la sua
speranza ed egli ricadeva man mano nella prima disperazione, quando
a mandarlo nella gioia più viva gli giunse verso sera una polizza di
visita del conte Ernesto con sopravi scritte queste parole: «Parto
domattina di buon’ora per tornare al mio battaglione, e ho bisogno
di vederti prima e dii parlarti. Vieni stassera verso le otto; saremo
soli; vieni come se non ti avessi scritto la lettera di ieri. E dopo
aver parlato noi due, passeremo nel salotto di mia madre, dove a
quell’ora non ci sarà nessun estraneo alla famiglia.»
Il giovane innamorato aspettò con esultante trepidazione l’arrivo di
quell’ora assegnatagli, che gli parve tardasse un’eternità a giungere;
rilesse le mille volte quel bigliettino e s’industriò a penetrarne
il più intimo senso, le più riposte cagioni che lo avevan dettato.
Non poteva a meno di concluder sempre esser quella una promessa di
felicità. Conosceva troppo il carattere d’Ernesto per dubitare della
perfetta di lui lealtà e franchezza; il dirgli che considerasse come
non avvenuta la lettera precedente era un’assoluta ritrattazione
della lettera medesima, era dunque un accettare la sua proposta; il
soggiungere che dopo il loro colloquio sarebbero passati nel salotto
della contessa era un affermare che di quella sera medesima si voleva
tutto definire e stabilire. Era fin troppa ventura; era un passare
dall’eccesso del dolore all’eccesso della gioia, e questa opprimeva
perfino il cuore che invadeva.
Alla fine quelle benedette ore scoccarono e Alfredo di Camporolle, in
un’acconciatura severamente elegante, si presentava nell’anticamera di
casa Valneve. Non ebbe da mandare ambasciata; come visitatore atteso fu
subito condotto da un domestico nello studiolo del conte Ernesto.
Questi, appena il servo ebbe annunziato Alfredo, mosse incontro al
nuovo venuto colla solita, gentile sua agiatezza di maniere. Fumava un
grosso sigaro d’Avana che riempiva d’un piacevole profumo lo stanzino;
era vestito con abiti cittadineschi ed aveva il volto rallegrato dal
suo benevolo sorriso. Si tolse di bocca il sigaro per dire all’amico:
— Bravo! Esattezza da militare. Suonano adesso le otto.
E gli tese la destra con tutta la franchezza d’una vera amicizia.
Un freddo e acuto osservatore avrebbe forse potuto notare in lui, non
un impaccio, nè uno sforzo a dissimulare, — di questi egli colla sua
schietta natura non ne aveva mai, — ma una certa lieve preoccupazione;
Alfredo però, che non era acuto osservatore, e che in quel momento era
assai commosso egli stesso, non vide nulla, non notò nulla, occupato a
frenare il suo cuore che batteva di troppo.
— Sono venuto ansiosamente al tuo appello: — diss’egli con voce un po’
incerta: — e non ti nascondo che per me quest’ora ha tardato molto a
giungere.
Ernesto, per la mano che l’amico gli aveva data, lo trasse innanzi
fin presso il caminetto, dove ardeva ancora, benchè si fosse verso
la fine di marzo, un allegro fuoco, e fattolo sedere sopra una bassa
poltroncina, gli porse un elegante astuccio pieno di quei sigari
d’Avana con uno dei quali egli profumava la stanza.
— Vuoi fumare? — gli disse.
— No, grazie: — rispose Alfredo metà sorridendo e metà sul serio;
— il fumare distrae. Io voglio avere tutte le mie facoltà intente a
quello che stai per dirmi.... Parla, mio caro Ernesto, te ne prego.
L’impazienza, l’ansietà mi tormentano.... Senti, toccami, ho la febbre.
Ernesto gli strinse il braccio colla sua mano delicata e nervosa.
— Sì, davvero, povero Alfredo! — esclamò con interessamento. Or bene,
io ti leverò subito da questo travaglio. Del resto lo dovevi ben capire
che se ti ho scritto di quella guisa non era poi per dirti qui faccia a
faccia delle cose che ti dovessero spiacere.
— Sì, l’ho capito... cioè l’ho sperato; ma, tu sai pure che, quando si
agogna ad una tanta felicità, quando massime la si è vista dileguarsi
da noi, ci pare poi impossibile raggiungerla, se non la si tiene
proprio afferrata colle nostre mani.
— Ebbene, fa conto di averla afferrata fin d’ora. La mano d’Albina sarà
tua.
Alfredo sorse di scatto, mandando un grido, poi dalla emozione
impallidì e vacillò, si lasciò quasi cadere sul seno di Ernesto e gli
disse piangendo insieme e ridendo, poco meno che balbettando:
— Oh Ernesto!... è dunque proprio il paradiso sulla terra che tu
m’annunzi!... Oh amico mio! Oh fratello mio! Gli è a te, ne son certo,
che debbo tanta ventura... È perfino la vita che tu mi ridai... sì,
perchè senza di lei non posso più vivere, io sarei morto.
E lo abbracciava e lo baciava con forza, con passione, con trasporto.
— Via, via, — disse il fratello d’Albina facendo a rendere più
tranquillo il giovane: — non parliamo di morire. E non dare neppure a
me un merito ch’io non ho. Sai che sono schietto fino alla imprudenza
con tutti, e tanto più con quelli che stimo di meglio. Ti amo e stimo
così da essere perfino grossolano nella mia franchezza a tuo riguardo;
e dunque ti confesso che io non ho patrocinata menomamente la tua
causa, e che anzi ho desiderato la vittoria d’un altro. Che vuoi? A
Giulio, oltre ai vincoli del sangue, mi congiunge un affetto nato
fin dall’infanzia e sempre accresciuto colla domestica frequenza,
coll’esempio e col desiderio di mio padre che quel ragazzo tenne
seco ed amò proprio come suo figlio. Anche adesso penso con assai
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