Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 16

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Il vecchio ebbe uno stringimento alla gola come per un singulto, che
riuscì a reprimere.
— Meglio, — rispose con voce piena di dolore e di mortificazione: —
meglio, grazie... E... voi?
Anche nella sua bocca era un altro, di più affettuosa espressione, il
pronome che avrebbe voluto suonare, ma poi non aveva osato venire.
— Oh! io sto benissimo: — disse Alfredo sforzandosi a dare alla voce un
po’ di tenerezza, ma riuscendoci malamente.
Matteo si sollevò a sedere puntandosi col gomito sui cuscini.
— Che cosa fate? — gli domandò il giovane.
— Bisogna pure che m’alzi, — rispose. — Me ne andrò a casa mia... Credo
di essere forte abbastanza... vi ho già dato troppo incomodo...
E buttò le gambe giù dalla sponda delle materasse per scendere di
letto: ma in quel movimento sentì una debolezza maggiore di quel che
avrebbe creduto, vide gli oggetti intorno vacillare e girare, e gli
parve d’essere sul punto di cadere di nuovo in isvenimento.
— Restate, restate, — gli disse Alfredo che se ne accorse: —
rimettetevi a giacere... Perchè volete alzarvi?... Perchè parlate di
andarvene di qui?... Non è questa eziandio casa vostra?
Queste parole fecero bene al vecchio: casa sua la casa di suo figlio,
era pur vero; e il figlio lo riconosceva, glie lo diceva! Si ridistese
nel letto con un sentimento di maggior benessere nella profonda
lassitudine da cui era pur preso, le sue labbra abbozzarono un sorriso,
gli occhi stavano fissi sul giovane con un luciore di tenerezza,
d’orgoglio e di riconoscenza.
In Alfredo invece le parole medesime avevano ridestato un nuovo accesso
di idee penose, mordenti, crudeli. Sì, quella era più casa dell’usuraio
che sua, poichè tutto ciò che v’era in essa, tutto quello sfarzo e
quelle agiatezze che vi si ammiravano, di cui egli aveva goduto fino
allora, tutto era frutto dello scellerato denaro guadagnato, raccolto,
fatto moltiplicare, da quell’uomo.
Questa è casa vostra, — ripetè, — tutto quello ch’io ho creduto di
possedere finora è vostro. Non siete voi il mio ospite, ma io lo sono
stato sempre di voi.
— Ma no, ma no: — diceva Matteo con premura quasi affannosa. — Io non
ho nulla, non voglio aver nulla... Io non so nulla... Che volete che mi
faccia io della roba?... Io non ho bisogno che di un cantuccio e d’uno
stramazzo per andarvi a morire.
— Non parlate, così, ve ne prego, tranquillatevi... Ora non è momento
di parlare di codeste cose... Il nostro avvenire lo regoleremo di
poi... Ora badate soltanto a ristabilirvi presto.... Bevete questa
cucchiaiata del cordiale che v’ha ordinato il medico: è tempo, e da qui
una mezz’ora vi sarà portata una minestrina, come consigliò anche il
dottore.
— E voi? — domandò il giacente, il cui sguardo rivelò tutta
l’inquietudine che si nascondeva dietro questa semplice domanda.
— Io uscirò un momentino per prendere un po’ d’aria: — rispose
freddamente Alfredo, — chè me ne sento davvero il bisogno.
Matteo lasciò sfuggire un grido.
— Ah, mio Dio!... Tu vai a batterti?
— No, — rispose con forza il giovane: — non mi batterò.
Tacque un istante, e poi con voce grave, quasi solenne, come di chi
pronuncia un giuramento, soggiunse:
— Tranquillatevi, _padre mio_; ho pensato, ho riflettuto, mi sono
travagliato coll’animo e colla mente. Ora la mia decisione è presa,
ferma, irrevocabile. Non voglio nè uccidere, nè morire.
Uscì lasciando in maggior pace il cuore del padre, il quale ebbe fede
assoluta in queste di lui parole.
La notte era discesa del tutto; i lampioni venivano accendendosi man
mano, e in quell’ora, in cui quasi tutti si trovavano ritirati nel
seno della famiglia, pochi erano i passeggeri per la strada. È ciò che
piaceva ad Alfredo; egli anzi prese le vie meno frequentate, quelle
dei rioni più poveri, dove era meno facile incontrare persone di sua
conoscenza; aveva vergogna di sè, gli pareva di portare sul capo un
peso d’ignominia che tutti gli vedessero, che l’obbligava a camminare
curvo, schiacciato.
Ma mentre camminavano le gambe anche la mente si pose in moto, e prese
presto il galoppo addirittura. Riandò tutto il passato, per deplorarne
ogni fase, ogni vicenda: lui fanciullo senza carezze materne, giovane
senza affetti domestici. Quanto sarebbe stato più felice, se una madre
l’avesse amato, se un padre lo avesse protetto e onorato colla sua
virtù, anche nella mediocrità delle fortune, anche nella povertà! E
l’avvenire? Nessun amore per lui, nessuna gioia!
Si riscosse a un bagliore di maggior luce che gli colpì lo sguardo
venendo da un palazzo. Da quanto tempo camminasse non sapeva più, per
dove fosse passato nemmeno; ciò di cui s’accorse a quel punto fu che
le gambe, a insaputa della sua volontà, l’avevano portato in faccia al
palazzo Sangré di Valneve, sotto le finestre delle stanze abitate da
Albina. Sollevò lo sguardo: quelle stanze erano oscure; ma più in là
splendevano di viva luce le finestre che egli sapeva esser quelle del
gran salone. Si capiva facilmente che là vi era adunanza, forse qualche
festosa solennità; un presentimento lo avvisò che vi doveva aver luogo
tal cosa che era nuova affermazione, nuova consecrazione per così dire
della sua sciagura. Al presentimento venne a dare conferma un fatto.
Il portone era aperto; il custode in gran livrea, col cappello a due
becchi gallonato e la gran mazza del pomo d’argento, stava pronto
ad aprire lo sportello alle carrozze che sarebbero arrivate. E una
sopraggiunse appunto in quel momento, forse la prima: Alfredo potè
scorgere in essa la faccia trionfalmente felice del cavaliere Giulio
Sangré in cravatta bianca. Quella gioia, quella superba contentezza
che raggiava dai lineamenti, dagli sguardi del giovane, era tutta
una rivelazione. Alfredo soffocò un grido, curvò più basso il capo,
timoroso di essere visto, e fuggì perdutamente.


XXXV.

Albina, arrossendo leggermente, aveva detto alla madre e ai fratelli:
— Sono stata io a dare a Giulio l’annunzio per lui doloroso; lasciate a
me pure in compenso di quella pena, il piacere di dirgli ciò che penso
debba essere anche per lui una gioia.
Acconsentirono sorridendo al desiderio della giovanetta, ed ella mandò
al cugino queste sole parole scritte:
«Vieni; ogni tempesta è passata, dileguata ogni nube: sorride di nuovo
e più lieto il sole nel nostro cielo.»
Giulio, tratto di colpo da morte a vita, non istette a indugiarsi
per nulla a fantasiare sugli avvenimenti che gli capitavano e di cui
non comprendeva la ragione. Albina gli aveva annunziata la sventura
dicendogli non dovesse cercare nemmanco il perchè, ed egli s’era
curvato con muta disperazione di dolore; ora gli scriveva che la
sventura era vinta, che faceva ritorno per loro la felicità ed egli
s’abbandonava senz’altro all’impeto della gioia e sollecito accorreva
alla chiamata di lei.
Si riabboccarono nel gran salone, di nuovo sotto lo sguardo serio e
benigno, innanzi al sorriso severo e gentile del ritratto del padre di
Albina.
— È dunque vero? È proprio vero? — disse Giulio, prendendo le due
mani della cugina, guardandola fiso con occhi che scintillavano un
po’ umidi, le labbra agitate, un legger tremito di commozione in tutta
la persona, una soave vibrazione di profonda tenerezza nella voce. —
Questa volta la felicità la tengo per davvero! La tengo per le mani e
non mi sfugge più?
E stringeva con dolce pressione le mani sottili, morbide, tepide,
frementi anch’esse, della fanciulla, e la divorava cogli occhi.
— Sì, è vero, Giulio, com’è vero che siamo qui ambedue fronte a fronte,
come credo vero il tuo amore per me.
— Oh questo!... — gridò il giovane con espressione che fece sorridere
la fanciulla.
— Il cielo ha avuto compassione di noi, — continuava essa, — non
ha voluto che si compisse il sacrificio che io imponeva a te e a me
stessa; dileguò a un tratto un crudele inganno che ci faceva credere
alla necessità d’essere disuniti.
— Ah! un inganno crudele davvero! — interruppe Giulio. — E posso io ora
conoscerlo?
— No: — rispose Albina con amorevole serietà. — Il segreto non è mio,
non posso quindi comunicartelo. Bisogna che tu abbi pazienza.
— Pazienza facile ad aversi! — esclamò il giovane. — Ottengo
soddisfatto il mio più ardente desiderio: che m’importa il resto?
E la ragazza scherzosa:
— Non t’importa forse neppure il sapere quando e come si compiranno le
solennità per cui rimarranno uniti i nostri destini?
— Oh questo sì! — proruppe vivacemente Giulio, mentre s’accresceva
nelle sue pupille il lieto scintillìo. — Quando? quando?
— Non so se a te piacerà quello che piacerebbe a me ed anche ai miei...
— Tutto, tutto....
— E allora, senza perder più tempo, si farebbe la scrittura di nozze
questa sera medesima.
Giulio impallidì per l’emozione; le sue mani, che tenevano sempre
quelle di Albina, si strinsero per moto di contrazione nervosa.
— Questa sera medesima! — ripetè egli, quasi balbettando.
— O che ti par troppo presto? — disse vivamente la fanciulla con
ischerzosa malizietta.
— No.... Oh no!... No di certo! — gridò Giulio, il cui pallore di
poc’anzi lasciava il posto ora ad un lieve rossore, — E poi? E poi?
— E poi... se a Lei signor cavaliere sarà di aggradimento.... la
settimana ventura il matrimonio.
— La settimana ventura!... E perchè non subito?
— Questo lo domanderai a mia madre e ad Ernesto che sono stati loro a
dire così, e te ne sapranno spiegare la ragione.... Ho voluto essere io
ad intender teco la cerimonia di questa sera. Non ti dispiace?
— Sì, questa sera.... Corro ad avvertire il notaio.... Ad invitare
quelli che possiamo desiderare presenti, ci penseranno tua madre e i
tuoi fratelli, non è vero?
— E saranno pochi. Desidero che vi sia il minor numero possibile di
testimoni....
— Anch’io, anch’io... gl’indifferenti guastano.
— E dopo la parola che ci siamo data, che ci avvince per tutta la vita,
avrà acquistata nuova irrevocabilità.
— Per me, non ha bisogno di nessun’altra funzione per essere
irrevocabile fin d’ora. Non sai che perdendo te la mia vita era
terminata?
— E riacquistandomi?
— Ricomincia più splendida e più bella.
— Sì, splendida e bella per ambedue... Pensare che saremo sempre
insieme, sempre l’uno per l’altro, un sol cuore, una sola anima, una
sola esistenza! Il tuo pensiero sarà il mio, e i miei desideri saranno
i tuoi; non è vero? Sentiremo insieme: tutto quello che commuoverà te
si ripercoterà nella tua compagna: sarà una vita addoppiata, doppia
ogni gioia, e il dolore, invece, non doppio ma condiviso....
— Dolore! — interruppe Giulio, colla baldanza d’un giovane che vede
sorridergli il destino e gli pare impossibile che esso si muti.
— Ma ne avremo noi di dolori?... Sapremo pur che cosa sia il dolore?
Come potrà questo penetrare nella cerchia fatata della nostra felicità,
in cui sarà mantenuto eterno l’incanto, il sorriso, la luce, dalla
forza del nostro amore?
Albina sorrise caramente, ma pure prese un aspetto di gravità gentile.
— Oh! il dolore in questo mondo entra dappertutto: — disse con accento
serio; — ma è pur vero che l’amore lo combatterà efficacemente. E io
nella durata dell’amor nostro ho piena fede, Giulio.
— Abbila: — esclamò con forza il giovane. — L’ho anch’io. Il nostro
amore, vedi, cresciuto con noi nell’infanzia, nell’adolescenza, s’è
fatto sangue nostro, nostra natura, parte essenziale del nostro essere
più intimo. Io non posso neppur pensare più di vivere senza di esso.
Parlarono ancora a lungo del loro avvenire, fecero disegni,
fantasticarono vicende, gioirono in anticipazione col pensiero le più
care e modeste consolazioni della famiglia; separandosi Giulio sfiorò
colle labbra la fronte alabastrina, purissima della fanciulla. Poi
colla contessa Adelaide e con Ernesto si determinò ogni particolare
degli sponsali e della celebrazione del matrimonio. Dopo questo, invece
del viaggio solito a farsi dal maggior numero, gli sposi sarebbero
partiti per la villa dei Sangré.
Quel segreto che Albina non aveva voluto comunicare al suo sposo,
perchè non se ne credeva in diritto, appartenendo agli altri, Giulio
venne a conoscerlo quel giorno medesimo per opera del marchese
Respetti. Questi pensò debito di delicatezza il rivelar tutto al
figliuolo del cavaliere Armando; e poichè i denari mandati al giovane
erano usciti dallo scrigno di lui Respetti, egli si trovava appunto
aver già pagato, senza saperlo, il debito che gli incombeva. Giulio
aveva fatto molte difficoltà per decidersi a ritenere quella somma: e
vi si era acconciato solamente quando la zia e il cugino Ernesto, alla
parola dei quali egli dava un reverente ossequio, gli ebbero affermato
che così doveva fare.
Venne intanto quella sera ben augurata, a cui anelavano con tanto
desiderio i cuori leali dei due nobili giovani. Benchè pochissimi
fossero gli inviti, il salone era illuminato come nelle maggiori
occasioni delle più importanti solennità. Albina abbigliata con
ricca semplicità di una veste di seta color grigio perla, con una
collana a più giri di perle, con perle ai polsi e nei capelli, la cui
abbondante massa di un bel biondo cinerino, sotto a quel piovere di
calda luce aveva riflessi miti e tinte soavi, era in tutto lo sfoggio
della sua eletta, nobile, pura bellezza. Modesta la gioia nel raggio
degli occhi cilestrini e profondi, nel sorriso delle labbra piccole
e rosate: dignità graziosa, semplice, elegante, piena di naturalezza
nell’aspetto, nel contegno, nelle parole, con cui rispondeva ai
complimenti, con cui accoglieva regali ed amplessi dei congiunti
invitati. Giulio aveva il pallore delle grandi emozioni; si conteneva
di tal guisa, ricacciava così nell’intimo la sua gioia, che sembrava
quasi freddo e indifferente; ma i suoi occhi non si staccavano dalla
leggiadra figura della sposa; la guardava e guardava, le sue pupille
balenavano, parevano tremolare per soverchio commovimento.
Quando il notaio ebbe finito di leggere la scritta, Albina, a cui fu
presentata la penna, firmò con mano ferma, e poi si volse allo sposo
e gli porse a sua volta quella penna medesima con cui essa aveva
scritto, accompagnando l’atto con un sorriso lieve, ma in cui Giulio
credette in quel punto scorgere a balenare una visione di paradiso. Le
due destre dei giovani, sguantate, s’incontrarono, al tocco di quelle
fine epidermidi si riscossero ambedue; si sorrisero, arrossirono, e il
giovine s’affrettò a sottoscrivere ancor egli. Allora la fanciulla, che
aveva seguitato collo sguardo ogni movimento di Giulio, fece un passo
verso di lui, e con atto di franca, nobile risolutezza gli tese quella
sua mano che era ancor nuda del guanto. Egli la prese colla destra
nuda altresì, la strinse, poi la portò alle labbra e vi depose un
bacio caldo e rispettoso; poi passò il braccio di lei nella piegatura
del suo, e così uniti camminarono in mezzo ai gruppi degl’invitati,
ricevendo congratulazioni e complimenti.
Era una bella serata della fine di marzo, e all’aere tepente
primaverile si erano aperti il balcone e le finestre che guardavano
verso il giardino, perchè quel vasto salone, posto nel centro del
palazzo, si estendeva per tutta la larghezza dell’edificio, e aveva
da una parte finestre e balconi sulla strada, e dall’altra un lungo
balcone e finestre sul giardino. I due sposi, mentre i domestici in
gran livrea servivano su vassoi d’argento confetti e gelati, mentre
i pochi accolti a testimoniare gli sponsali stavano divisi a gruppi
chiaccherando; i due sposi, dico, tenendosi così a braccio, con una
ineffabile, dolcissima voluttà, s’avviarono verso il balcone dalla
parte del giardino, vi andarono e appoggiatisi alla ringhiera, vicini
vicini, stretti l’un all’altro, il cuore innondato di delizia, separati
così dall’adunanza, lasciati liberi con affettuosa compiacenza,
stettero lì, rapiti, a gustare la immensa loro felicità, senza trovar
nemmeno parola da dirsela; ma pure manifestandosela reciprocamente
con cara eloquenza, mercè rotte, bisbigliate paroline indifferenti,
mercè i sospiri, gli sguardi. La luce rossigna che usciva a onde dal
salone, prima di perdersi nelle masse oscure degli alberi fatti neri
dalla notte, contornava d’un’aureola infuocata quelle due teste bionde,
chinate una verso l’altra, con espressione di infinito amore, di
infinita dolcezza, di felicità infinita.
E mentre essi trovavansi sollevati in tanto paradiso, di sotto, quasi
ai loro piedi, si rodeva, si tormentava, soffriva orribilmente un
infelice piombato a dirittura nell’inferno più crudele del dolore,
della disperazione.


XXXVI.

Alfredo era fuggito da quel palazzo in festa, nel quale aveva visto
entrare con gioia sì trionfante il suo rivale, ora al colmo di quella
felicità che egli aveva tanto desiderata e che già si credeva di avere
raggiunta. Ma non erasi di molto allontanato, prima che una forza
invisibile lo arrestasse e, riluttante, dopo una breve resistenza,
lo trascinasse di bel nuovo alla luce per lui beffarda, oltraggiosa,
che raggiava dagli alti finestroni della casa dei Sangrè. Una voglia
dissennata, una vera smania da mente impazzita lo assalì: vederla,
vedere quella donzella cui da tanti anni egli pure adorava, vedere
Albina nello splendore della sua bellezza, nell’irraggiamento della sua
gioia, stamparsene ancora una volta nella memoria l’immagine, che pure
aveva sì profondo impressa nella mente e nel cuore, per poterla portar
seco, lontano, per sempre, là dove sarebbe andato a lasciare estinguere
la sua vita di venticinque anni, senza poterla, cogli occhi del corpo,
quella cara fanciulla, rivedere più mai.
Stette un poco sulla strada, lo sguardo fisso sulle finestre
illuminate, come sbalordito, come in un dolente torpore di cervello;
gli sembrò vedere ne’ passeggeri volti di conoscenza che lo guardassero
con istupore; trasalì, si levò di là, svoltò la cantonata, s’immerse
nell’ombra della strada vicina, in cui radi i lampioni e quasi deserta.
Andò, senza proposito determinato, senza quasi accorgersene, lungo le
mura del palazzo, poi lungo quello che cingeva l’annesso giardino.
Colà era silenzio e tenebre: sola luce quella delle scarse e poche
fiammelle di gaz nei lampioni municipali e quella delle stelle nel
cielo, solo rumore lo stormire del venticello primaverile in mezzo alle
prime fogliuzze e ai fiori degli alberi del giardino. Nell’oscurità
della notte, al di sopra delle piante, vedeva per l’aria un rossigno
chiarore: era il riflettersi della luce del gran salone. Camminava
senza volontà determinata, senza meta, lungo quel muro, e cercava e
aspettava, e non sapeva neppur egli che cosa aspettasse e cercasse.
Il caso sembrò venire in aiuto alla sua incertezza; trovò a un punto
nel muro di cinta una porticina coll’uscio aperto, forse per oblio del
giardiniere, non esitò neppur un momentino, entrò, e a passi sospesi e
guardinghi si avviò verso il palazzo, da cui veniva, a guidarlo, quel
bagliore di luce.
Giunse così, inavvertito, fin dinanzi al lungo balcone della gran
sala, e là, dietro una macchia piuttosto folta di piante sempre
verdi, s’appostò, s’appiattò, gli sguardi sempre fissi a quelle ampie
aperture, traverso cui vedeva lo splendore de’ candelabri, la seta
degli arazzi, le frange e i ricami delle tende, le ombre dei raccolti
andare e venire. Trasalì più volte, scorgendo passare una figura alta
e sottile di donna, vedendo disegnarsi sul fondo chiaro e sparire le
linee flessuose d’un bel corpo femminile, udendo il fruscio d’una veste
di seta. Finalmente due figure si staccarono in nero dall’ambiente
infuocato del salone e s’avanzarono nella penombra del poggiolo
sulla cui ringhiera vennero ad appoggiarsi. Alfredo sentì un freddo
di terzana corrergli per le vene, e poi subito una vampa di fuoco
salirgli alla testa. Erano essi, gli sposi: era lei, colla sua grazia,
colla malìa del suo portamento, collo splendore divino de’ suoi occhi
cilestri. Come gli parve ancor più bella, ancora più nobile, ancora più
sublime, di quanto l’avesse vista mai, egli che pure aveva sempre visto
in quella leggiadria di fanciulla tutto quanto vi poteva essere di più
bello, di più nobile, di più sublime al mondo! Vedendole al fianco lo
sposo, a cui essa sorrideva, che raggiava da tutto l’aspetto la gioia
superba, ineffabile d’un supremo trionfo, sì, l’invidia lo morse, ma
più ancora il dolore. Eccogli dinanzi la meta più alta e più cara a
cui egli aveva agognato: grandezza, elevatezza, felicità umana erano
per lui tutte incarnate in quella dominatrice, virtuosa, intelligente
bellezza di vergine. Era stata una temerità in lui lo aspirarvi; lui
nato nel fango, così lontano da quella stella del cielo. Un altro la
otteneva, un altro la doveva possedere, ed egli sparire dalla sfera in
cui ella splendeva; sparire nell’oscurità, nella bassezza del volgo,
onde non avrebbe dovuto uscir mai.
La guardava e soffriva; la guardava, guardava, e lagrime silenziose gli
colavano giù per le guancie. Era certo l’ultima volta che la vedeva.
Addio, con quella bella persona, addio sogni di grandezza e di onore,
addio febbri di entusiasmo, addio per sempre o amore! E tuttavia nella
dolorosa stretta di quei momenti, pur sotto il morso della gelosia,
dell’invidia, dell’acre passione, egli sentiva che nel suo petto c’era
valore, nel suo cervello pensieri, nel cuore ispirazioni, e ispirazioni
non indegne di lei. Era nato di plebe, era sangue d’un abbietto,
eppure osava dire a sè stesso l’anima sua non impari a qualunque di più
titolato. Ma che giovava ciò? Albina Sangré di Valneve mai non avrebbe
amato il figliuolo dell’usuraio!
Gli sposi, chinati sempre più l’uno verso l’altro, le braccia
intrecciate, i capelli biondi che si toccavano, che si frammischiavano,
che si accarezzavano quasi, gli occhi negli occhi, si sussurravano
parolette, si sorridevano seriamente. Qualcheduno degli invitati era
andato al pianoforte e suonava con maestria e sentimento la romanza
del tenore nella _Contessa d’Amalfi_ del Petrella; quelle note di
melodia amorosa e soave si diffondevano dolcemente per la notte,
parevano avvolgere come una carezza le teste dei due sposi, farci
intorno un’aureola di tenerezza e di voluttà e andare a morire, come
un sospiro amoroso nei recessi del giardino. Alfredo sentiva ancora
egli invadersi da un languore, da una specie di dolcezza che pur gli
era un tormento. Il corpo debole per le veglie, pel digiuno, lo spirito
affranto dalle torture e dagli spasimi sofferti lo facevano acconcio
alle allucinazioni: sotto l’impressione di quella musica ebbe come
un vaneggiamento, come un sogno da sveglio. Era lui lo sposo, era
lui che doveva essere là su quel balcone al fianco di quella bella
visione d’angelo, era lui che quella fanciulla splendente di perle
credeva d’aver vicino ed a cui voleva sorridere. Una malìa lo teneva
lì inchiodato e aveva dato ad un altro il posto che a lui spettava; ma
a momenti quell’incanto sarebbe stato rotto, al seno di lui fremente
si sarebbe slanciata la amorosa fanciulla, intorno al suo capo avrebbe
spirato quell’alito d’amore. La musica si faceva sempre più dolce,
sempre più appassionata; egli tese le braccia verso quell’apparizione,
volle mandare un grido di richiamo, di protesta, d’amore, dirle: «son
qui io; sono io il tuo sposo;» ma per fortuna le fauci contratte non
lasciarono uscire la voce.
Anche i due amanti, anche i due felici fidanzati, vinceva il languore
della tenerezza tramandato da quella soavità di suoni; le ciocche dei
capelli della fronte si confusero vieppiù insieme, un più vivo balenìo
corse nelle pupille e due labbra tremanti si posarono sopra una guancia
morbida come il velluto.
Allora un rantolo potè uscire dalla gola di Alfredo e i cespugli
s’agitarono sotto la stretta delle sue mani contratte. I due giovani
sul balcone si riscossero al rumore, interrogarono collo sguardo
l’oscurità del giardino, nulla videro nè avvertirono, ma tuttavia
entrarono solleciti nel salone.
Quando Alfredo si ridusse a casa, era già verso il mattino: dove avesse
girato fino a quell’ora, dopo uscito di furia dal giardino Sangré,
egli non lo avrebbe saputo dire a niun modo. Aveva la sembianza d’uno
spettro più che d’un uomo. Suo padre, che lo aveva aspettato con
un’ansia che è più facile immaginare che descrivere, ne fu spaventato.
Ma egli non tollerò domande, nè preghiere, nè consigli, nè le più
semplici osservazioni. Disse a Matteo che avrebbegli parlato fra poco
per definire i loro reciproci rapporti, e si chiuse in camera, dove
stette parecchie ore. Finalmente chiamò a sè il padre e per prima cosa
gli domandò:
— Voi avete continuato ad avere relazioni o almeno corrispondenza con
vostro nipote e mio cugino Pietro?
— Pietro?.... Che Pietro? — interrogò di rimando l’Arpione, che non
s’aspettava simile richiesta.
— Pietro Carra, — rispose freddamente Alfredo, — il figliuolo della
sorella di mia madre, quello che compì il delitto che avevo pensato io
pure...
— Eh via! — interruppe il vecchio: — colui non è più nulla nè per me,
nè tanto meno per te...
— Voi potete pensarla così... e la pensate male: — disse il figliuolo
con una certa severità: — io la penso diversamente. Quell’uomo che
fu l’assassino del duca, e quella disgraziata ballerina che fu la
ganza del duca medesimo, sono... dopo di voi... i soli parenti che
mi rimangono. È naturale, è mio dovere che io mi interessi delle cose
loro.
Matteo curvò il capo e non rispose: non trovava parole da dire. Alfredo
continuava:
— Della ballerina m’importa poco; ma le venture del cugino Pietro mi
piacerebbe conoscerle. Egli è partito per l’America, non è vero?
— Sì.
— E di là scrisse al governo di Parma, rivelandosi reo, perchè si
cessasse dal tormentare degli innocenti per iscoprire il colpevole?
— Sì.
— E voi, suo zio, lo lasciaste partire senz’aiuto, e non gli veniste
mai in soccorso colaggiù?
— Io ho fatto per lui quel che dovevo, e più di quel che dovevo: —
rispose vivamente il vecchio. — A me egli raccomandò la sua famiglia
prima di partire, io ho provveduto ad ogni bisogno di essa... Quando
poi Pietro si fu trovato colà non solamente di che vivere, ma di che
mantenere con onore tutti i suoi, sono stato io che ho fatto partire
moglie e figliuoli per andarlo a raggiungere...
— Dunque ne riceveste delle lettere?
— Sicuro!
— E ne avete il ricapito.
— L’avevo: ma dopo che la famiglia fu arrivata sana e salva ad unirsi
con lui, ed egli me ne scrisse l’annunzio, nè egli si fece mai più
vivo, nè io ebbi occasione di scrivergli, e non so più che sia di lui,
nè se continui a trovarsi dov’era.
— Voi le avete ancora le lettere che egli vi ha scritte?
— Sì.
— Me le lascierete vedere.
— Volentieri... Ma che vuoi farne? Qual proposito è il tuo?... Sarebbe
forse quello di andartene anche tu in quei lontani paesi?
— Chi sa!.... Forse!...
— Ma tu non hai per nessun modo bisogno di colui. Te l’ho già detto
anch’io. Sì, sarà buon partito lo andarsene: e non occorrerebbe neppure
correre tanto lontano. Io ti aveva suggerito la Francia, l’Inghilterra,
la Germania... Ma se ti piace di più lo allontanarti fino nel nuovo
mondo, sia pure: già colle tue ricchezze potrai vivere bene in
qualunque paese.
Alfredo ebbe un leggero sussulto.
— Le mie ricchezze: — interruppe con accento brusco. — Io non ho
ricchezze. Tutte quelle che avete raccolte sono vostre, di voi solo...
— Ma no! ma no! — gridò il padre, quasi spaventato. — Te l’ho detto: io
ho fatto tutto per te...
— Mi lasciereste dunque disporre liberamente di quelle sostanze che ora
figurano di appartenere ad Alfredo Corina?
— Ma sì: Ma sì!
— In qualunque modo che a me piacesse?
— Affatto, affatto.
— Ebbene, sentite quello che ho determinato di farne.


XXXVII.

Quella mattina, verso le dieci, il Conte Ernesto Sangré di Valneve
riceveva la lettera seguente:
«Signore,
»Ho pensato maturamente: una veglia angosciosa ha portato consiglio
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