Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 02
Giulio s’era fermato con rispettosa timidezza sulla soglia, quasi
pauroso di turbare colla sua presenza quel primo sfogo di domestici
affetti: e fu la contessa Adelaide la prima, non che lo vedesse, ma
che lo invitasse ad avanzarsi. Il giovane s’accostò alla zia, le baciò
ancor egli la mano, domandandole nuove della salute, e poi si volse
alla cugina, che Ernesto aveva lasciata libera del suo affettuosissimo
amplesso.
— Addio, Albina: — le disse: — tu stai bene?
Le parole erano le solite che sono in bocca anche dei più indifferenti;
ma nell’accento con cui erano pronunziate vibrava l’emozione di un
affetto così intenso, così pieno, così potente, che qualunque donna
l’avrebbe potuto avvertire; pensiamo un poco se non doveva accorgersene
Albina, la quale aveva una tanta finezza di percezione, tanta
delicatezza di sentimenti!
— Grazie! — ella rispose: — e tu pure?
La risposta era comune come la domanda; ma l’accompagnavano un sorriso,
uno sguardo e un porgersi della manina candida e sottile dalle lucide
unghie di lieve color roseo.
Giulio, impacciato, turbato, prese timidamente quella destra, la toccò
appena, non osò stringerla e la abbandonò in fretta, come se il raso
morbido di quella splendida epidermide gli scottasse la palma, anche
traverso la pelle del suo guanto.
— E dov’è Enrico? — domandò Ernesto.
— È nel suo quartiere, — rispose la madre. — Ci ha insieme Alfredo di
Camporolle.
— Ah! — esclamò vivamente Ernesto, — quel buon Alfredo!.... Lo vedrò
pur tanto volentieri.
Anche Giulio, a quel nome, si riscosse e mandò una piccola esclamazione
cui però riuscì a soffocare in gola; ma nè il suo riscuotersi, nè la
sua esclamazione non erano di contentezza. Lo sguardo di lui corse
subito, ratto, al volto di Albina, per esaminarne l’espressione: e
anche gli occhi di Ernesto si volsero alla giovinetta, ma i lineamenti
di costei non dissero nulla ed ella s’aggiustò con tutta indifferenza
le trine d’un polsino.
Ernesto continuava:
— Alfredo è dunque diventato amicissimo di mio fratello?
— Oh sono inseparabili: — rispose sorridendo lievemente la contessa
Adelaide.
— È perciò che si trova in casa nostra tanto di buon’ora? Credo che la
sia un’amicizia codesta che non possa far torto nè danno ad Enrico.
— Lo credo anch’io: — disse la madre. — Camporolle mi pare un giovane
proprio ammodo, un vero gentiluomo. E del resto tu che lo conosci
intimamente, Ernesto, tu che hai fatta con lui la campagna di Crimea,
puoi giudicare molto più rettamente dei suoi meriti.
— Se non l’avessi conosciuto degno di frequentare la casa della
contessa di Valneve, se non lo stimassi tale non avrei osato
presentarglielo, madre mia: — disse con accento serio il maggiore delle
guardie;. — Quando si fa insieme una campagna, e una come quella di
Crimea, lontano dalla patria e da ogni affezione, coll’immenso cielo
per vôlta sul capo, e la morte, sotto diverse forme, di _choléra_, di
palla o di mitraglia del nemico, in agguato ad ogni passo, si ha campo
di leggersi nel cuore, due che abbiano un po’ di cervello in capo, e
di stimarsi a vicenda l’anima per quel che la vale. Camporolle non è
dei caratteri più forti, ma è di indole retta, onesta e valorosa. Male
attorniato avrebbe potuto traviare... — Mandò un sospiro e aggiunse
amaramente: — È pure così facile alla gioventù di lasciarsi trascinare
a quelle che sembrano soltanto leggere follie e possono poi far capo
anche a gravi errori!... Ma a lui fu sorte faustissima l’essere venuto
a combattere laggiù. La disciplina militare e la filosofia pratica,
modesta, ma efficacissima delle privazioni e dei pericoli, degli
spettacoli dolorosi delle battaglie e delle stragi, hanno fatto più
robusta la sua tempra, afforzato il suo carattere, come invigorita
eziandio la fibra dei suoi muscoli. Io l’ho visto sotto il fischio
delle palle e il grandinar della mitraglia, l’ho visto assistere
all’agonia dei _cholerosi_, l’ho visto a battere i denti in un freddo
da Siberia alla trincea, e ho capito che la istintiva simpatia che
avevo subito sentito per lui al primo vederlo non aveva avuto torto.
La contessa Adelaide accennò gravemente col capo che approvava le
parole del figliuolo; Albina conservava inalterabile il suo contegno di
cortese, sempre aggraziata, un po’ altiera indifferenza; Giulio, a quel
panegirico, provava una contrarietà che, a dispetto della timidezza,
trovava modo di manifestarsi, nell’agitazione delle sue mani, nel
morsicchiarsi le labbra, nel rossore del viso, nel balenìo degli occhi.
La contessina fece sgusciare uno sguardo di sbieco fino a lui, e parve
che un lieve, finissimo sorriso increspasse un momento le sue labbra
color di rosa; ma gli occhi di lei videro più in là, sino all’uscio
della sala che, aprendosi, diede il passo all’altro suo fratello.
— Ecco Enrico! — diss’ella.
Ernesto mosse vivamente alcuni passi incontro al fratello, che da parte
sua corse sollecito verso di lui.
— Ernesto!
— Enrico!
Coll’esclamazione dei loro nomi, i due giovani confusero in un amplesso
l’emozione reciproca della loro verace, sincera, vivissima tenerezza
fraterna.
Lo sguardo della madre loro si posò con compiacenza, con una specie
d’orgoglio sul gruppo di quei due giovani leggiadri, valenti, buoni
e generosi, e poi risalì fino al ritratto del padre loro, quasi
ad additarglieli, quasi a fare omaggio alla memoria di lui delle
consolazioni ch’ella ne riceveva.
Enrico era di statura più alta che Ernesto, ma di complessione più
delicata ancora: somigliantissimo del resto al fratello, però con un
piglio più altezzoso, come pure con più superba e forse meno cortese
l’indole. Dalla coscienza che aveva della pura nobiltà del suo sangue,
egli non riceveva soltanto l’idea dei maggiori obblighi che gli
toccassero, ma eziandio quella d’una supremazia che gli competesse
naturalmente, d’una maggioranza che la Provvidenza gli avesse
dato sugli altri uomini. Non può dirsi che disprezzasse quelli che
appartenevano alle classi inferiori, perchè veramente non disprezzava
nessuno, ma li stimava tutti da meno, aveva un certo rancore contro la
borghesia che vedeva invadere ogni uffizio, ogni autorità, recarsi in
pugno ogni potere sociale e le preferiva anzi la plebe, detestava poi i
nuovi nobili, che gli parevano la caricatura della vera aristocrazia.
Finite le «accoglienze oneste e liete» col fratello, Enrico si volse
alla madre:
— Vengo a pregarla d’un favore, a nome d’un supplicante, che non osa
presentarsi.
— Chi? — disse la contessa volgendosi al secondogenito: — Camporolle
forse?
— Sì, madre. Egli desidererebbe associarsi con noi, oggi, all’omaggio
che rendiamo alla santa memoria di nostro padre, benchè non ci sia
congiunto per sangue, benchè non l’abbia neppure conosciuto da vivo;
ma egli dice che ha tanto affetto per la nostra famiglia, che in quel
tempo appunto quando ci capitò cotanta sventura, egli strinse amicizia
con Ernesto, che dalla lettera con cui Ernesto gli annunziava il nostro
dolore, egli ebbe efficace aiuto a salvarsi da una crisi tremenda della
sua vita, così bene che gli pare quasi d’avere un po’ di ragione da
chiedere parte alla nostra domestica commemorazione.
La contessa Adelaide corrugò un poco le sopracciglia e guardò il
primogenito, come per vedere nell’aperto di lui volto le impressioni
che queste parole gli facevano.
— È vero, — disse il maggiore con qualche vivacità. — Forse, se io non
gli avessi scritto allora, avrebbe potuto lasciarsi trascinare in un
abisso. Egli ebbe in me la più intiera fiducia, e riuscii a persuaderlo
che altrove da quel ch’egli credeva stava la difesa del suo onore e la
giusta vendetta dei suoi oltraggiatori.
— Se tu, Ernesto, ne lo credi degno, se vedi che ciò sia conveniente,
io non nego il mio consenso all’ammissione fra di noi del conte di
Camporolle.
— E io vado subito a dargli questa buona notizia, — esclamò Enrico; — e
ritorno sollecito qui con lui.
Uscì senz’altro: e Giulio, che tormentava da un poco il guanto della
mano sinistra, ne strappò un bottone.
Il vecchio Tommaso spalancò l’uscio e annunziò:
— Il signor marchese e la signora marchesa Respetti-Landeri.
La contessa Adelaide volse il capo con premura verso l’entrata: Ernesto
ed Albina mossero solleciti incontro ai cugini, che, arrivati da Milano
fin dalla sera precedente, si presentavano, con iscrupolosa esattezza,
all’ora posta, nel salone del palazzo Sangré.
IV.
La marchesa Sofia era sempre leggiadra, graziosa e buona. Dopo
l’avventura del duello fra il cugino Ernesto e von Klernick, ella
avea acquistato ancora un altro merito agli occhi dei liberali
milanesi, che vuol dire di quasi tutta quella società, e più ancora
di suo marito: quello di avere chiuso l’uscio di sua casa a tutti gli
ufficiali austriaci e aver tolto affatto a chi frequentava le sue sale
il pericolo d’incontrarvi l’abborrita assisa dei soldati stranieri.
La conversazione quindi in casa di lei era venuta in gran favore;
vi accorrevano premurosamente tutte le individualità più distinte di
Milano per censo, per ingegno, per dottrina, scienziati, scrittori,
artisti, e siccome la padrona di casa, insieme coll’avvenenza,
possedeva spirito, tatto, eleganza, vi si piacevano assai e avevano
messo il salotto della marchesa così alla moda, che l’esservi ammesso
era il desiderio di quanti, uomini e donne, aspiravano a venir
giudicati persone di garbo.
Il marchese avea continuato a lavorare, recare vantaggi all’agricoltura
e arricchire il suo patrimonio. Studiando i bisogni assai trascurati
della coltivazione de’ campi in Italia, aveva incontrato sul suo
cammino anche i bisogni, che son troppi e troppo negletti ancor
essi, de’ coltivatori, e non se n’era sviato con indifferenza o
coll’impaziente leggerezza dell’egoismo non ancora direttamente
minacciato; ma ci si era messo intorno di buon animo e aveva penetrato
forse più che non altri nella questione sociale agraria, meno
immediatamente pericolosa e urgente, ma non meno grave e terribile di
quella operaia. Aveva pubblicato un libro indarno alle condizioni della
proprietà agricola in Lombardia, e benchè ci fosse e apparisse evidente
il proposito di non toccare la quistione politica, tuttavia, trattando
delle imposte e dei provvedimenti amministrativi che direttamente
e mediatamente influivano sulle cose e gl’interessi de’ campi e de’
campagnuoli, saltava fuori luminosamente provato, anche sotto questo
rispetto, il danno della dominazione straniera; con effetto anzi tanto
maggiore in quanto che i ragionamenti che conducevano irrefragabilmente
a tal conclusione, parevano ed erano più alieni da ogni soffio di
passione, da ogni influsso di preoccupazione politica. Questo libro
aveva prodotto un grande effetto nelle sfere governative, in quella
degli intelligenti studiosi, e in generale in tutto il pubblico, il
quale, senza leggere le pagine poco divertenti di quel trattato,
udendo che era uno scritto liberale, avverso all’Austria, si pose
a batter le mani, a gridar bravo all’autore e a proclamare il libro
un capo d’opera. Il Governo, impensierito, imbizzito di questa nuova
popolarità del nobile piemontese, della quale capiva il significato
di opposizione, posto ancora in sospetto verso il marchese dalle gite
assai più frequenti d’un tempo, che egli faceva in Piemonte, pensò
un momento di dargli addirittura lo sfratto; ma poi non osò mostrare
tanta paura di tale, cui nessuno poteva accusare di avere attinenze
coi rivoluzionari, e che si sapeva pure essere costretto a quei viaggi
al di qua del Ticino dall’amministrazione ch’egli aveva assunta ed
esercitava con zelo dei beni e degli interessi di un giovane parente,
il cavaliere Giulio Sangré. In realtà però avveniva che i rapporti del
marchese Respetti col partito nazionale esistessero davvero e fossero
maggiori di quanto l’Austria sospettasse, e ciò per mezzo del capo
medesimo di quel partito da Vienna così odiato, il conte Camillo di
Cavour, ministro del re Vittorio Emanuele II. Non ci fu mai volta in
cui Ernesto Respetti-Landeri venisse in Piemonte, senza che il Cavour,
il quale lo conosceva già da tempo, non trovasse modo di avere con lui
una più o meno lunga, sempre vivace conversazione. Talvolta gli era
incontrandolo sotto i portici di via di Po, nella passeggiata che il
ministro ci faceva quotidianamente.
— Oh oh Respetti! Lei qui? — gli gridava col suo accento, di solito
allegro, il ministro; e pigliandolo famigliarmente pel braccio
lo traeva seco, mentre quelli che l’accompagnavano, passavano
discretamente di dietro in seconda linea.
Un’altra volta era trovandolo la sera in qualche salotto, o spettacolo,
o convegno qualunque del mondo elegante; ei lo traeva con sè,
così, senza apparenza nessuna di malizia in un angolo appartato,
nella strombatura d’un finestrone, in un più riposto gabinetto, e
discorrevano animatamente, mentre tutti ci mettevano la migliore
attenzione del mondo a non interromperli, a non disturbarli, a nemmanco
accorgersene. Cavour era abilissimo a interrogare. Il Respetti aveva
un gran desiderio di rispondere; e così avveniva che dopo mezz’ora
di colloquio quel di Lombardia avesse detto tutto quel che per lui si
sapesse dello stato degli animi e delle cose in quel paese, e l’accorto
ministro del Piemonte avesse imparato assai di quanto a quel proposito
gli poteva importare.
Questa fiata, arrivato la vigilia a ora tarda, il marchese Ernesto non
aveva ancora avuto occasione d’incontrare il Cavour; ma egli sperava di
averla quel giorno medesimo ed era deciso di andarla a cercare, perchè
gli pareva avere informazioni importantissime da dire al ministro e
immaginava che questi, a sua volta, avrebbe avuto grande interessamento
ad ascoltarle e fors’anco assai desiderio di comunicare a lui cose di
molto rilievo.
Ora intanto ed egli e la moglie erano tutti coll’anima e col cuore alla
mesta commemorazione celebrata dai loro amici e congiunti, i Sangré.
Scambiati colla maggior effusione gli affettuosi convenevoli fra
i Respetti ed i Valneve, il marchese Ernesto che, allora pure per
la prima volta, dopo il suo arrivo a Torino, vedeva il suo giovane
protetto Giulio, notò in costui la pallidezza maggiore, l’aria afflitta
e contrariata, il turbamento dell’anima cui la ingenua fisonomia del
giovanetto non sapeva dissimulare; onde, prendendolo amichevolmente pel
braccio e trattolo un poco in disparte, senza che paresse, gli domandò
sotto voce:
— Che cos’hai Giulio?... Stai poco bene o ti è capitato qualche
dispiacere?
Il giovane cominciò per arrossire fino alla radice de’ capelli e poi
rispose con penoso imbarazzo:
— Io no.... non ho niente....
Ernesto Respetti avrebbe forse insistito; ma a salvare il povero Giulio
da ulteriore interrogazione, sopraggiunsero in quella Enrico di Valneve
e Alfredo di Camporolle.
Il primogenito dei Sangré aveva avuto ragione dicendo che la campagna
di Crimea era stata di gran giovamento ad Alfredo, afforzandone la
tempra e rinvigorendone le membra. Quel morbosamente delicato che
notammo in lui, quando lo vedemmo la prima volta a Bologna innamorarsi
dell’avventuriera che doveva essergli tanto fatale, quel femmineo che
lo aveva fatto chiamare beffardamente la _ragazza_ dal fu duca di
Parma, era affatto sparito da lui. La carnagione gli si era un po’
più abbronzata, i tratti avevano prese linee più precise e ferme,
lo sguardo più sicurezza e la fisonomia un’espressione più ardita
e virile. Da ciò il suo volto erasi ancora abbellito, e se la Zoe
l’avesse visto ora, forse avrebbe trovato anche maggiore in lui quella
potenza dello sguardo che le aveva ricordato vivamente un uomo amato e
perduto ed era stata la prima cagione della loro attinenza.
Tornato dalla spedizione di Crimea, Alfredo non s’era stabilito subito
a Torino, benchè fosse quello il suo massimo desiderio. L’immagine di
Albina, si era impressa così fattamente nel cuore di lui, che sempre
e nella campagna e poi egli l’aveva presente; ma aveva pur capito che
questo suo amore, il quale ingigantiva ogni giorno, così diverso da
quello statogli prima ispirato dalla Zoe, non avrebbe potuto avere
per allora fortunato successo. La fanciulla era troppo giovane perchè
si consentisse già ad accasarla, ed egli era troppo poco noto a lei
stessa e alla famiglia per venirne accettato fin da quei punto quale
pretendente alla mano di Albina.
Aveva fatto erigere il modesto monumento sulla tomba di sua madre,
ma non aveva potuto andarci lui a farlo mettere a posto nè tampoco a
vederlo di poi, perchè la polizia parmense l’aveva respinto ai confini
e ricordatogli l’intimazione di non introdursi mai più nel territorio
del ducato; e s’era dovuto, a sua gran malavoglia, servire per ciò
dell’opera di Matteo Arpione che fece eseguire ogni cosa per mezzo
dell’Antonia e del Battistino. S’era quindi recato a Lugo, e là aveva
rintracciate alcune notizie dei Corina suo padre e suo avo, le quali
s’accordavano perfettamente colle informazioni dategli da Matteo.
Congiunti suoi, appartenenti alla sua famiglia, amici della medesima
neppure, non ve n’esistevano più: ed egli, dopo passato alcun tempo
nel suo vasto possedimento da cui prendeva il titolo nobiliare, in
una solitudine che gli si fece presto amaramente uggiosa, aveva finito
per venirsi a stabilire a Torino, dove il cuore lo spingeva sempre a
recarsi, dove da un anno abitava, e introdotto nella migliore e più
alta società, erasi fatto intimo amico anche del secondogenito dei
Sangré e famigliarissimo di questa nobile famiglia.
V.
Alfredo di Camporolle si avanzò sollecito, colla garbata agiatezza di
portamento che ha un gentiluomo avvezzo al lustro dei saloni e al fuoco
degli sguardi delle più eleganti assemblee; prima di salutare nessun
altro, prima di pur mostrare d’accorgersi della presenza di altri, andò
premuroso verso la contessa, ne prese la mano ch’essa gli porgeva e la
baciò, con una galanteria piena di reverenza.
— Signora contessa, — diss’egli poi con accento compagno a quell’atto;
— le sono riconoscente, proprio dal profondo del cuore, della grazia
ch’Ella mi fa di lasciare che anch’io, in questo giorno per loro così
sacro, venga a recare il piccolo tributo del mio culto alla memoria di
quell’uomo impareggiabile, che s’io non ebbi la fortuna di conoscere di
persona, ho pure il bene di poter apprezzare ed ammirare nella famiglia
in cui le virtù di lui sopravvivono.
La contessa Adelaide, prima di rispondere, volse uno sguardo al
ritratto dell’estinto, come per consultarlo: di mezzo alla cornice
dorata, la figura grave e pensosa del fu conte-presidente pareva
rivolgere benevola il suo serio sorriso sulla cervice chinata di
Alfredo.
— Signor conte, — rispose poi la vedova Sangré, con voce alquanto
commossa: — son io anzi che la ringrazio, noi che la dobbiamo
ringraziare del suo gentile pensiero. Dicerto tutti quelli che si
associano a noi per onorare la memoria di quel caro che abbiamo
perduto, possono contare sulla nostra simpatia, sulla nostra
gratitudine.
— Ah, signora contessa! — esclamò Alfredo con calore contenuto e con
evidente commozione: — che cosa non farei per rendermi degno almeno
della prima!
Si volse e si trovò innanzi Ernesto di Valneve, che gli tendeva
sorridendo le mani; si abbracciarono come due buoni e amorosi fratelli.
Il marchese Respetti, che nelle sue gite a Torino non aveva ancora mai
avuto il caso d’incontrare il Camporolle, domandò piano chi fosse quel
giovane al povero Giulio che si mordeva sempre più le labbra e aveva
strappati tutti gli altri bottoni dei suoi guanti.
Giulio rispose come se avesse qualche amara medicina in bocca:
— Alfredo di Camporolle, un conte.... di Lugo.
Albina in quel momento rispondeva tranquilla, aggraziata come sempre,
gentile al solito, al saluto che le rivolgeva Alfredo commosso.
— E ora, Ernesto, — disse la contessa Adelaide al suo primogenito, —
presenta il conte di Camporolle ai nostri buoni cugini.
La presentazione ebbe luogo in tutte forme; ma Alfredo sentì che
nessuna corrente di simpatia si stabiliva fra lui e il marchese, e che
questi aveva una certa diffidenza e fors’anco un certo mal animo nello
sguardo con cui l’osservava.
E ora tutti si sono rivolti al ritratto del morto; la contessa in
mezzo nel suo seggiolone, sola seduta, a’ suoi lati, a destra Albina,
a sinistra la marchesa Sofia, poi in semicerchio gli uomini, così che
Ernesto ed Enrico ai due capi chiudono la piccola schiera.
Succede un momento di silenzio.
È il primogenito dei figli che lo rompe.
— Padre mio, — dice con voce contenuta, in cui vibra tuttavia una
profonda emozione, — ho fede che tu sei qui con noi, che tu ci leggi
in cuore. Guarda nel mio, scrutalo nei suoi più nascosti recessi; oso
sperare che il tuo sguardo di spirito non ci potrà incontrar nulla
che sia la traccia d’un affetto, di un sentimento indegno di te, del
nostro nome. A te vivente, io, disgraziato, fui cagione di non lievi
dispiaceri, e tu generoso, m’hai perdonato: oh vedi ora se del tuo
perdono mi son fatto meritevole!
La madre lo interruppe.
— Sì, figliuol mio; in nome di lui io te lo dichiaro, io, a cui non hai
dato più colla tua condotta che motivi di consolazione e d’orgoglio.
Ernesto Sangré si coprì con tuttedue le mani la faccia, come per non
lasciare scorgere la soverchia emozione che vi si dipingeva, come per
frenarla e cancellarne le mostre, e rimase immobile e muto.
Il marchese Respetti prese lui a parlare.
— Non poteva essere altrimenti di chi ha nelle vene il sangue del
conte-presidente di Valneve. A quell’uomo egregio che fu amico intimo,
quasi fratello a mio padre, che fu mio amoroso padrino, mio assennato
consigliere, che cosa non devo io pure? Mentre io era assente, a mio
padre infermo egli diede la più amorosa assistenza, fu di lui, reso
immobile, la mano, il braccio, il pensiero; lo tenne al suo seno
amoroso negli ultimi spasimi dell’agonia, gli chiuse con amorosa destra
gli occhi... Oh! l’anima santa di Ernesto Sangré, conte di Valneve,
vedrà pure che l’omaggio ch’io rendo qui con voi alla sua memoria è il
più sincero, il più commosso che possano dare il cuore e la mente d’un
uomo.
La contessa Adelaide si rasciugò gli occhi e tese la mano al Respetti.
— Grazie, mio buon Ernesto, — gli disse. — Come mi riesce caro
chiamarvi col nome che aveva, il mio buon compagno, che ha il mio
figliuolo!... Grazie, del vostro affetto. L’emozione che voi mi date
mi è soave, mi solleva. Nulla mi è più gradito che udire ricordati lo
sposo mio e i meriti suoi. — E volgendosi al ritratto soggiunse: — Tu
lo vedi, mio diletto, tu lo vedi ora, meglio che quando eri fra noi,
di quanto amore, di quanta venerazione facciamo omaggio alla tua virtù,
alla tua bontà, alla tua memoria! Ora fra di noi non c’è più che la tua
immagine; in questo giorno son cinque anni che tu ci hai abbandonati;
ma noi ci stringiamo intorno a questa immagine tua, come ci stringevamo
intorno a te, e ti preghiamo di amarci, di ispirarci, di guidarci per
le vie del mondo... Sì, perchè tu, anch’io ne son certa, tu sei qui con
noi, e come vegli sulle nostre esistenze, ora sorridi al nostro affetto
e benedici alla nostra tenerezza.
Si coprì gli occhi col fazzoletto e pianse silenziosamente; tacite
lagrime rigavano le guancie di tutti.
Ernesto Sangré si riscosse dopo un momento; fece un passo verso la
contessa e disse con accento supplichevole:
— Madre nostra!... Colui che non è più, il capo della nostra famiglia,
il padre, oggi stesso, cinque anni sono, ci benediceva morendo;
ora ci ripeta Lei quella benedizione, o madre, se le sembra che la
meritiamo; ci benedica e parrà ai figli suoi di udire dalla sua bocca
le benedizioni del padre che abbiamo perduto.
— Oh sì, mamma, — esclamò Albina, piegandosi verso la contessa: —
scenda su di noi, per le sue labbra, la benedizione del padre nostro!
— E possiamo, noi, — aggiunse Enrico, — venir sempre più degni di Lei e
di Lui che certo veglia su noi dal cielo.
La madre tese le braccia verso i figli che vennero a inginocchiarsele
ai fianchi: essa li abbracciò, poi mise le mani sul capo dei maschi e
quindi sulle chiome di Albina.
— Sì, — disse, — vi benedico, e vi benedice vostro padre di lassù.
Voi siete l’unico mio conforto nella vita, l’unica mia consolazione
nel dolore. Iddio vi darà anni molti e felici, perchè onorate i vostri
genitori, e io lo prego che vi conceda dei figli che sieno a voi quello
che foste pel padre e per la madre vostra.
Poi li baciò un dopo l’altro lungamente sulla fronte.
Un quarto d’ora dopo, un discreto grattare all’uscio indicava che
alcuno domandava permesso di entrare.
Il primogenito dei figli interrogò collo sguardo la madre, la quale
fece col capo un segno di assentimento.
— Avanti! — disse la voce franca e vibrata del maggiore delle guardie.
L’uscio si aprì adagino e comparve il vecchio domestico Tommaso, con
due lacchè dietro le spalle.
— Signora contessa, le carrozze sono in ordine: — disse Tommaso.
La vedova Sangré s’alzò.
— I nostri cappelli e mantelli: — disse.
Le cameriere, che erano pronte cogli oggetti domandati nella sala
vicina, accorsero e vestirono le due signore. La contessa Adelaide
prese il braccio del marchese Ernesto Respetti-Landeri.
— Conte di Camporolle: — diss’ella poi: — se ci vuole accompagnare alla
messa funebre, offra il braccio alla marchesa Sofia.
Il giovane fece un profondo inchino e obbedì.
Giulio stava lì interito, guardando dietro Alfredo con occhio punto
benigno, allorchè sentì una mano lieve lieve passare nella ripiegatura
del suo braccio.
— E tu, Giulio, sii il mio cavaliere: — gli disse la voce soave di
Albina.
Egli arrossì, poi impallidì, e mosse i primi passi quasi vacillando.
I lacchè aprirono gli usci a due battenti per dar passaggio alla
comitiva. Tommaso restò l’ultimo lasciando passare innanzi tutti,
curvo in atto di reverenza; quando fu solo nel salone, andò innanzi al
ritratto, pose la pezzuola sopra una seggiola, vi salì sopra tanto che
la sua bocca arrivasse fino all’altezza della mano dipinta del morto
padrone, e su quella mano posò un leggero rispettosissimo bacio, poi
discese e corse in chiesa anche lui.
VI.
Occupandosi con zelo degli interessi di Giulio, secondo la
raccomandazione fattagliene dal conte-presidente moribondo, il marchese
Respetti aveva eziandio accresciuta l’affezione verso il giovane e
poneva assai premura in tutto quello che lo riguardasse. Quindi s’era
impensierito non poco dell’aspetto sofferente e più che malinconico
del cugino, e avutolo in disparte quel giorno stesso, aveva saputo
interrogarlo così bene da riuscire a trargliene fuori il segreto:
l’amore cioè che nutriva per Albina e la gelosia, che a lui pure pareva
ragionevolissima, ispiratagli dal conte di Camporolle.
Mosso dal suo vivo interessamento per Giulio, il marchese erasi
posto subito a investigare chi fosse quel forestiero, ed appresone
il poco che era conosciuto dalla società elegante torinese, aveva
trovato, al di là di quelle superficiali informazioni, un qualche
cosa di misterioso, una specie di barriera che separava un passato,
non si sapeva quale, da uno stadio relativamente recente. Egli pensò
interessante non solo, ma necessario penetrare al di là di quella
barriera e stava immaginandone il come, quando alla sera, in sul tardi,
ricevette un bigliettino in cui erano scritte in fretta le seguenti
parole: «Domattina, alle cinque, il sottoscritto attende a casa sua
il marchese R. L... Cavour.» Tutto quel giorno il Respetti era stato
preso dalle meste funzioni di quella dolorosa solennità famigliare e
non aveva potuto, malgrado il suo vivo desiderio, adoprarsi in modo da
incontrare, secondo il solito, qua o colà il ministro. Anche questi
evidentemente, saputo che il marchese era a Torino, desiderava assai
vederlo; perchè, non contentandosi più di aiutare il caso che li faceva
trovare, gli assegnava un preciso ed urgente convegno. Determinando
pauroso di turbare colla sua presenza quel primo sfogo di domestici
affetti: e fu la contessa Adelaide la prima, non che lo vedesse, ma
che lo invitasse ad avanzarsi. Il giovane s’accostò alla zia, le baciò
ancor egli la mano, domandandole nuove della salute, e poi si volse
alla cugina, che Ernesto aveva lasciata libera del suo affettuosissimo
amplesso.
— Addio, Albina: — le disse: — tu stai bene?
Le parole erano le solite che sono in bocca anche dei più indifferenti;
ma nell’accento con cui erano pronunziate vibrava l’emozione di un
affetto così intenso, così pieno, così potente, che qualunque donna
l’avrebbe potuto avvertire; pensiamo un poco se non doveva accorgersene
Albina, la quale aveva una tanta finezza di percezione, tanta
delicatezza di sentimenti!
— Grazie! — ella rispose: — e tu pure?
La risposta era comune come la domanda; ma l’accompagnavano un sorriso,
uno sguardo e un porgersi della manina candida e sottile dalle lucide
unghie di lieve color roseo.
Giulio, impacciato, turbato, prese timidamente quella destra, la toccò
appena, non osò stringerla e la abbandonò in fretta, come se il raso
morbido di quella splendida epidermide gli scottasse la palma, anche
traverso la pelle del suo guanto.
— E dov’è Enrico? — domandò Ernesto.
— È nel suo quartiere, — rispose la madre. — Ci ha insieme Alfredo di
Camporolle.
— Ah! — esclamò vivamente Ernesto, — quel buon Alfredo!.... Lo vedrò
pur tanto volentieri.
Anche Giulio, a quel nome, si riscosse e mandò una piccola esclamazione
cui però riuscì a soffocare in gola; ma nè il suo riscuotersi, nè la
sua esclamazione non erano di contentezza. Lo sguardo di lui corse
subito, ratto, al volto di Albina, per esaminarne l’espressione: e
anche gli occhi di Ernesto si volsero alla giovinetta, ma i lineamenti
di costei non dissero nulla ed ella s’aggiustò con tutta indifferenza
le trine d’un polsino.
Ernesto continuava:
— Alfredo è dunque diventato amicissimo di mio fratello?
— Oh sono inseparabili: — rispose sorridendo lievemente la contessa
Adelaide.
— È perciò che si trova in casa nostra tanto di buon’ora? Credo che la
sia un’amicizia codesta che non possa far torto nè danno ad Enrico.
— Lo credo anch’io: — disse la madre. — Camporolle mi pare un giovane
proprio ammodo, un vero gentiluomo. E del resto tu che lo conosci
intimamente, Ernesto, tu che hai fatta con lui la campagna di Crimea,
puoi giudicare molto più rettamente dei suoi meriti.
— Se non l’avessi conosciuto degno di frequentare la casa della
contessa di Valneve, se non lo stimassi tale non avrei osato
presentarglielo, madre mia: — disse con accento serio il maggiore delle
guardie;. — Quando si fa insieme una campagna, e una come quella di
Crimea, lontano dalla patria e da ogni affezione, coll’immenso cielo
per vôlta sul capo, e la morte, sotto diverse forme, di _choléra_, di
palla o di mitraglia del nemico, in agguato ad ogni passo, si ha campo
di leggersi nel cuore, due che abbiano un po’ di cervello in capo, e
di stimarsi a vicenda l’anima per quel che la vale. Camporolle non è
dei caratteri più forti, ma è di indole retta, onesta e valorosa. Male
attorniato avrebbe potuto traviare... — Mandò un sospiro e aggiunse
amaramente: — È pure così facile alla gioventù di lasciarsi trascinare
a quelle che sembrano soltanto leggere follie e possono poi far capo
anche a gravi errori!... Ma a lui fu sorte faustissima l’essere venuto
a combattere laggiù. La disciplina militare e la filosofia pratica,
modesta, ma efficacissima delle privazioni e dei pericoli, degli
spettacoli dolorosi delle battaglie e delle stragi, hanno fatto più
robusta la sua tempra, afforzato il suo carattere, come invigorita
eziandio la fibra dei suoi muscoli. Io l’ho visto sotto il fischio
delle palle e il grandinar della mitraglia, l’ho visto assistere
all’agonia dei _cholerosi_, l’ho visto a battere i denti in un freddo
da Siberia alla trincea, e ho capito che la istintiva simpatia che
avevo subito sentito per lui al primo vederlo non aveva avuto torto.
La contessa Adelaide accennò gravemente col capo che approvava le
parole del figliuolo; Albina conservava inalterabile il suo contegno di
cortese, sempre aggraziata, un po’ altiera indifferenza; Giulio, a quel
panegirico, provava una contrarietà che, a dispetto della timidezza,
trovava modo di manifestarsi, nell’agitazione delle sue mani, nel
morsicchiarsi le labbra, nel rossore del viso, nel balenìo degli occhi.
La contessina fece sgusciare uno sguardo di sbieco fino a lui, e parve
che un lieve, finissimo sorriso increspasse un momento le sue labbra
color di rosa; ma gli occhi di lei videro più in là, sino all’uscio
della sala che, aprendosi, diede il passo all’altro suo fratello.
— Ecco Enrico! — diss’ella.
Ernesto mosse vivamente alcuni passi incontro al fratello, che da parte
sua corse sollecito verso di lui.
— Ernesto!
— Enrico!
Coll’esclamazione dei loro nomi, i due giovani confusero in un amplesso
l’emozione reciproca della loro verace, sincera, vivissima tenerezza
fraterna.
Lo sguardo della madre loro si posò con compiacenza, con una specie
d’orgoglio sul gruppo di quei due giovani leggiadri, valenti, buoni
e generosi, e poi risalì fino al ritratto del padre loro, quasi
ad additarglieli, quasi a fare omaggio alla memoria di lui delle
consolazioni ch’ella ne riceveva.
Enrico era di statura più alta che Ernesto, ma di complessione più
delicata ancora: somigliantissimo del resto al fratello, però con un
piglio più altezzoso, come pure con più superba e forse meno cortese
l’indole. Dalla coscienza che aveva della pura nobiltà del suo sangue,
egli non riceveva soltanto l’idea dei maggiori obblighi che gli
toccassero, ma eziandio quella d’una supremazia che gli competesse
naturalmente, d’una maggioranza che la Provvidenza gli avesse
dato sugli altri uomini. Non può dirsi che disprezzasse quelli che
appartenevano alle classi inferiori, perchè veramente non disprezzava
nessuno, ma li stimava tutti da meno, aveva un certo rancore contro la
borghesia che vedeva invadere ogni uffizio, ogni autorità, recarsi in
pugno ogni potere sociale e le preferiva anzi la plebe, detestava poi i
nuovi nobili, che gli parevano la caricatura della vera aristocrazia.
Finite le «accoglienze oneste e liete» col fratello, Enrico si volse
alla madre:
— Vengo a pregarla d’un favore, a nome d’un supplicante, che non osa
presentarsi.
— Chi? — disse la contessa volgendosi al secondogenito: — Camporolle
forse?
— Sì, madre. Egli desidererebbe associarsi con noi, oggi, all’omaggio
che rendiamo alla santa memoria di nostro padre, benchè non ci sia
congiunto per sangue, benchè non l’abbia neppure conosciuto da vivo;
ma egli dice che ha tanto affetto per la nostra famiglia, che in quel
tempo appunto quando ci capitò cotanta sventura, egli strinse amicizia
con Ernesto, che dalla lettera con cui Ernesto gli annunziava il nostro
dolore, egli ebbe efficace aiuto a salvarsi da una crisi tremenda della
sua vita, così bene che gli pare quasi d’avere un po’ di ragione da
chiedere parte alla nostra domestica commemorazione.
La contessa Adelaide corrugò un poco le sopracciglia e guardò il
primogenito, come per vedere nell’aperto di lui volto le impressioni
che queste parole gli facevano.
— È vero, — disse il maggiore con qualche vivacità. — Forse, se io non
gli avessi scritto allora, avrebbe potuto lasciarsi trascinare in un
abisso. Egli ebbe in me la più intiera fiducia, e riuscii a persuaderlo
che altrove da quel ch’egli credeva stava la difesa del suo onore e la
giusta vendetta dei suoi oltraggiatori.
— Se tu, Ernesto, ne lo credi degno, se vedi che ciò sia conveniente,
io non nego il mio consenso all’ammissione fra di noi del conte di
Camporolle.
— E io vado subito a dargli questa buona notizia, — esclamò Enrico; — e
ritorno sollecito qui con lui.
Uscì senz’altro: e Giulio, che tormentava da un poco il guanto della
mano sinistra, ne strappò un bottone.
Il vecchio Tommaso spalancò l’uscio e annunziò:
— Il signor marchese e la signora marchesa Respetti-Landeri.
La contessa Adelaide volse il capo con premura verso l’entrata: Ernesto
ed Albina mossero solleciti incontro ai cugini, che, arrivati da Milano
fin dalla sera precedente, si presentavano, con iscrupolosa esattezza,
all’ora posta, nel salone del palazzo Sangré.
IV.
La marchesa Sofia era sempre leggiadra, graziosa e buona. Dopo
l’avventura del duello fra il cugino Ernesto e von Klernick, ella
avea acquistato ancora un altro merito agli occhi dei liberali
milanesi, che vuol dire di quasi tutta quella società, e più ancora
di suo marito: quello di avere chiuso l’uscio di sua casa a tutti gli
ufficiali austriaci e aver tolto affatto a chi frequentava le sue sale
il pericolo d’incontrarvi l’abborrita assisa dei soldati stranieri.
La conversazione quindi in casa di lei era venuta in gran favore;
vi accorrevano premurosamente tutte le individualità più distinte di
Milano per censo, per ingegno, per dottrina, scienziati, scrittori,
artisti, e siccome la padrona di casa, insieme coll’avvenenza,
possedeva spirito, tatto, eleganza, vi si piacevano assai e avevano
messo il salotto della marchesa così alla moda, che l’esservi ammesso
era il desiderio di quanti, uomini e donne, aspiravano a venir
giudicati persone di garbo.
Il marchese avea continuato a lavorare, recare vantaggi all’agricoltura
e arricchire il suo patrimonio. Studiando i bisogni assai trascurati
della coltivazione de’ campi in Italia, aveva incontrato sul suo
cammino anche i bisogni, che son troppi e troppo negletti ancor
essi, de’ coltivatori, e non se n’era sviato con indifferenza o
coll’impaziente leggerezza dell’egoismo non ancora direttamente
minacciato; ma ci si era messo intorno di buon animo e aveva penetrato
forse più che non altri nella questione sociale agraria, meno
immediatamente pericolosa e urgente, ma non meno grave e terribile di
quella operaia. Aveva pubblicato un libro indarno alle condizioni della
proprietà agricola in Lombardia, e benchè ci fosse e apparisse evidente
il proposito di non toccare la quistione politica, tuttavia, trattando
delle imposte e dei provvedimenti amministrativi che direttamente
e mediatamente influivano sulle cose e gl’interessi de’ campi e de’
campagnuoli, saltava fuori luminosamente provato, anche sotto questo
rispetto, il danno della dominazione straniera; con effetto anzi tanto
maggiore in quanto che i ragionamenti che conducevano irrefragabilmente
a tal conclusione, parevano ed erano più alieni da ogni soffio di
passione, da ogni influsso di preoccupazione politica. Questo libro
aveva prodotto un grande effetto nelle sfere governative, in quella
degli intelligenti studiosi, e in generale in tutto il pubblico, il
quale, senza leggere le pagine poco divertenti di quel trattato,
udendo che era uno scritto liberale, avverso all’Austria, si pose
a batter le mani, a gridar bravo all’autore e a proclamare il libro
un capo d’opera. Il Governo, impensierito, imbizzito di questa nuova
popolarità del nobile piemontese, della quale capiva il significato
di opposizione, posto ancora in sospetto verso il marchese dalle gite
assai più frequenti d’un tempo, che egli faceva in Piemonte, pensò
un momento di dargli addirittura lo sfratto; ma poi non osò mostrare
tanta paura di tale, cui nessuno poteva accusare di avere attinenze
coi rivoluzionari, e che si sapeva pure essere costretto a quei viaggi
al di qua del Ticino dall’amministrazione ch’egli aveva assunta ed
esercitava con zelo dei beni e degli interessi di un giovane parente,
il cavaliere Giulio Sangré. In realtà però avveniva che i rapporti del
marchese Respetti col partito nazionale esistessero davvero e fossero
maggiori di quanto l’Austria sospettasse, e ciò per mezzo del capo
medesimo di quel partito da Vienna così odiato, il conte Camillo di
Cavour, ministro del re Vittorio Emanuele II. Non ci fu mai volta in
cui Ernesto Respetti-Landeri venisse in Piemonte, senza che il Cavour,
il quale lo conosceva già da tempo, non trovasse modo di avere con lui
una più o meno lunga, sempre vivace conversazione. Talvolta gli era
incontrandolo sotto i portici di via di Po, nella passeggiata che il
ministro ci faceva quotidianamente.
— Oh oh Respetti! Lei qui? — gli gridava col suo accento, di solito
allegro, il ministro; e pigliandolo famigliarmente pel braccio
lo traeva seco, mentre quelli che l’accompagnavano, passavano
discretamente di dietro in seconda linea.
Un’altra volta era trovandolo la sera in qualche salotto, o spettacolo,
o convegno qualunque del mondo elegante; ei lo traeva con sè,
così, senza apparenza nessuna di malizia in un angolo appartato,
nella strombatura d’un finestrone, in un più riposto gabinetto, e
discorrevano animatamente, mentre tutti ci mettevano la migliore
attenzione del mondo a non interromperli, a non disturbarli, a nemmanco
accorgersene. Cavour era abilissimo a interrogare. Il Respetti aveva
un gran desiderio di rispondere; e così avveniva che dopo mezz’ora
di colloquio quel di Lombardia avesse detto tutto quel che per lui si
sapesse dello stato degli animi e delle cose in quel paese, e l’accorto
ministro del Piemonte avesse imparato assai di quanto a quel proposito
gli poteva importare.
Questa fiata, arrivato la vigilia a ora tarda, il marchese Ernesto non
aveva ancora avuto occasione d’incontrare il Cavour; ma egli sperava di
averla quel giorno medesimo ed era deciso di andarla a cercare, perchè
gli pareva avere informazioni importantissime da dire al ministro e
immaginava che questi, a sua volta, avrebbe avuto grande interessamento
ad ascoltarle e fors’anco assai desiderio di comunicare a lui cose di
molto rilievo.
Ora intanto ed egli e la moglie erano tutti coll’anima e col cuore alla
mesta commemorazione celebrata dai loro amici e congiunti, i Sangré.
Scambiati colla maggior effusione gli affettuosi convenevoli fra
i Respetti ed i Valneve, il marchese Ernesto che, allora pure per
la prima volta, dopo il suo arrivo a Torino, vedeva il suo giovane
protetto Giulio, notò in costui la pallidezza maggiore, l’aria afflitta
e contrariata, il turbamento dell’anima cui la ingenua fisonomia del
giovanetto non sapeva dissimulare; onde, prendendolo amichevolmente pel
braccio e trattolo un poco in disparte, senza che paresse, gli domandò
sotto voce:
— Che cos’hai Giulio?... Stai poco bene o ti è capitato qualche
dispiacere?
Il giovane cominciò per arrossire fino alla radice de’ capelli e poi
rispose con penoso imbarazzo:
— Io no.... non ho niente....
Ernesto Respetti avrebbe forse insistito; ma a salvare il povero Giulio
da ulteriore interrogazione, sopraggiunsero in quella Enrico di Valneve
e Alfredo di Camporolle.
Il primogenito dei Sangré aveva avuto ragione dicendo che la campagna
di Crimea era stata di gran giovamento ad Alfredo, afforzandone la
tempra e rinvigorendone le membra. Quel morbosamente delicato che
notammo in lui, quando lo vedemmo la prima volta a Bologna innamorarsi
dell’avventuriera che doveva essergli tanto fatale, quel femmineo che
lo aveva fatto chiamare beffardamente la _ragazza_ dal fu duca di
Parma, era affatto sparito da lui. La carnagione gli si era un po’
più abbronzata, i tratti avevano prese linee più precise e ferme,
lo sguardo più sicurezza e la fisonomia un’espressione più ardita
e virile. Da ciò il suo volto erasi ancora abbellito, e se la Zoe
l’avesse visto ora, forse avrebbe trovato anche maggiore in lui quella
potenza dello sguardo che le aveva ricordato vivamente un uomo amato e
perduto ed era stata la prima cagione della loro attinenza.
Tornato dalla spedizione di Crimea, Alfredo non s’era stabilito subito
a Torino, benchè fosse quello il suo massimo desiderio. L’immagine di
Albina, si era impressa così fattamente nel cuore di lui, che sempre
e nella campagna e poi egli l’aveva presente; ma aveva pur capito che
questo suo amore, il quale ingigantiva ogni giorno, così diverso da
quello statogli prima ispirato dalla Zoe, non avrebbe potuto avere
per allora fortunato successo. La fanciulla era troppo giovane perchè
si consentisse già ad accasarla, ed egli era troppo poco noto a lei
stessa e alla famiglia per venirne accettato fin da quei punto quale
pretendente alla mano di Albina.
Aveva fatto erigere il modesto monumento sulla tomba di sua madre,
ma non aveva potuto andarci lui a farlo mettere a posto nè tampoco a
vederlo di poi, perchè la polizia parmense l’aveva respinto ai confini
e ricordatogli l’intimazione di non introdursi mai più nel territorio
del ducato; e s’era dovuto, a sua gran malavoglia, servire per ciò
dell’opera di Matteo Arpione che fece eseguire ogni cosa per mezzo
dell’Antonia e del Battistino. S’era quindi recato a Lugo, e là aveva
rintracciate alcune notizie dei Corina suo padre e suo avo, le quali
s’accordavano perfettamente colle informazioni dategli da Matteo.
Congiunti suoi, appartenenti alla sua famiglia, amici della medesima
neppure, non ve n’esistevano più: ed egli, dopo passato alcun tempo
nel suo vasto possedimento da cui prendeva il titolo nobiliare, in
una solitudine che gli si fece presto amaramente uggiosa, aveva finito
per venirsi a stabilire a Torino, dove il cuore lo spingeva sempre a
recarsi, dove da un anno abitava, e introdotto nella migliore e più
alta società, erasi fatto intimo amico anche del secondogenito dei
Sangré e famigliarissimo di questa nobile famiglia.
V.
Alfredo di Camporolle si avanzò sollecito, colla garbata agiatezza di
portamento che ha un gentiluomo avvezzo al lustro dei saloni e al fuoco
degli sguardi delle più eleganti assemblee; prima di salutare nessun
altro, prima di pur mostrare d’accorgersi della presenza di altri, andò
premuroso verso la contessa, ne prese la mano ch’essa gli porgeva e la
baciò, con una galanteria piena di reverenza.
— Signora contessa, — diss’egli poi con accento compagno a quell’atto;
— le sono riconoscente, proprio dal profondo del cuore, della grazia
ch’Ella mi fa di lasciare che anch’io, in questo giorno per loro così
sacro, venga a recare il piccolo tributo del mio culto alla memoria di
quell’uomo impareggiabile, che s’io non ebbi la fortuna di conoscere di
persona, ho pure il bene di poter apprezzare ed ammirare nella famiglia
in cui le virtù di lui sopravvivono.
La contessa Adelaide, prima di rispondere, volse uno sguardo al
ritratto dell’estinto, come per consultarlo: di mezzo alla cornice
dorata, la figura grave e pensosa del fu conte-presidente pareva
rivolgere benevola il suo serio sorriso sulla cervice chinata di
Alfredo.
— Signor conte, — rispose poi la vedova Sangré, con voce alquanto
commossa: — son io anzi che la ringrazio, noi che la dobbiamo
ringraziare del suo gentile pensiero. Dicerto tutti quelli che si
associano a noi per onorare la memoria di quel caro che abbiamo
perduto, possono contare sulla nostra simpatia, sulla nostra
gratitudine.
— Ah, signora contessa! — esclamò Alfredo con calore contenuto e con
evidente commozione: — che cosa non farei per rendermi degno almeno
della prima!
Si volse e si trovò innanzi Ernesto di Valneve, che gli tendeva
sorridendo le mani; si abbracciarono come due buoni e amorosi fratelli.
Il marchese Respetti, che nelle sue gite a Torino non aveva ancora mai
avuto il caso d’incontrare il Camporolle, domandò piano chi fosse quel
giovane al povero Giulio che si mordeva sempre più le labbra e aveva
strappati tutti gli altri bottoni dei suoi guanti.
Giulio rispose come se avesse qualche amara medicina in bocca:
— Alfredo di Camporolle, un conte.... di Lugo.
Albina in quel momento rispondeva tranquilla, aggraziata come sempre,
gentile al solito, al saluto che le rivolgeva Alfredo commosso.
— E ora, Ernesto, — disse la contessa Adelaide al suo primogenito, —
presenta il conte di Camporolle ai nostri buoni cugini.
La presentazione ebbe luogo in tutte forme; ma Alfredo sentì che
nessuna corrente di simpatia si stabiliva fra lui e il marchese, e che
questi aveva una certa diffidenza e fors’anco un certo mal animo nello
sguardo con cui l’osservava.
E ora tutti si sono rivolti al ritratto del morto; la contessa in
mezzo nel suo seggiolone, sola seduta, a’ suoi lati, a destra Albina,
a sinistra la marchesa Sofia, poi in semicerchio gli uomini, così che
Ernesto ed Enrico ai due capi chiudono la piccola schiera.
Succede un momento di silenzio.
È il primogenito dei figli che lo rompe.
— Padre mio, — dice con voce contenuta, in cui vibra tuttavia una
profonda emozione, — ho fede che tu sei qui con noi, che tu ci leggi
in cuore. Guarda nel mio, scrutalo nei suoi più nascosti recessi; oso
sperare che il tuo sguardo di spirito non ci potrà incontrar nulla
che sia la traccia d’un affetto, di un sentimento indegno di te, del
nostro nome. A te vivente, io, disgraziato, fui cagione di non lievi
dispiaceri, e tu generoso, m’hai perdonato: oh vedi ora se del tuo
perdono mi son fatto meritevole!
La madre lo interruppe.
— Sì, figliuol mio; in nome di lui io te lo dichiaro, io, a cui non hai
dato più colla tua condotta che motivi di consolazione e d’orgoglio.
Ernesto Sangré si coprì con tuttedue le mani la faccia, come per non
lasciare scorgere la soverchia emozione che vi si dipingeva, come per
frenarla e cancellarne le mostre, e rimase immobile e muto.
Il marchese Respetti prese lui a parlare.
— Non poteva essere altrimenti di chi ha nelle vene il sangue del
conte-presidente di Valneve. A quell’uomo egregio che fu amico intimo,
quasi fratello a mio padre, che fu mio amoroso padrino, mio assennato
consigliere, che cosa non devo io pure? Mentre io era assente, a mio
padre infermo egli diede la più amorosa assistenza, fu di lui, reso
immobile, la mano, il braccio, il pensiero; lo tenne al suo seno
amoroso negli ultimi spasimi dell’agonia, gli chiuse con amorosa destra
gli occhi... Oh! l’anima santa di Ernesto Sangré, conte di Valneve,
vedrà pure che l’omaggio ch’io rendo qui con voi alla sua memoria è il
più sincero, il più commosso che possano dare il cuore e la mente d’un
uomo.
La contessa Adelaide si rasciugò gli occhi e tese la mano al Respetti.
— Grazie, mio buon Ernesto, — gli disse. — Come mi riesce caro
chiamarvi col nome che aveva, il mio buon compagno, che ha il mio
figliuolo!... Grazie, del vostro affetto. L’emozione che voi mi date
mi è soave, mi solleva. Nulla mi è più gradito che udire ricordati lo
sposo mio e i meriti suoi. — E volgendosi al ritratto soggiunse: — Tu
lo vedi, mio diletto, tu lo vedi ora, meglio che quando eri fra noi,
di quanto amore, di quanta venerazione facciamo omaggio alla tua virtù,
alla tua bontà, alla tua memoria! Ora fra di noi non c’è più che la tua
immagine; in questo giorno son cinque anni che tu ci hai abbandonati;
ma noi ci stringiamo intorno a questa immagine tua, come ci stringevamo
intorno a te, e ti preghiamo di amarci, di ispirarci, di guidarci per
le vie del mondo... Sì, perchè tu, anch’io ne son certa, tu sei qui con
noi, e come vegli sulle nostre esistenze, ora sorridi al nostro affetto
e benedici alla nostra tenerezza.
Si coprì gli occhi col fazzoletto e pianse silenziosamente; tacite
lagrime rigavano le guancie di tutti.
Ernesto Sangré si riscosse dopo un momento; fece un passo verso la
contessa e disse con accento supplichevole:
— Madre nostra!... Colui che non è più, il capo della nostra famiglia,
il padre, oggi stesso, cinque anni sono, ci benediceva morendo;
ora ci ripeta Lei quella benedizione, o madre, se le sembra che la
meritiamo; ci benedica e parrà ai figli suoi di udire dalla sua bocca
le benedizioni del padre che abbiamo perduto.
— Oh sì, mamma, — esclamò Albina, piegandosi verso la contessa: —
scenda su di noi, per le sue labbra, la benedizione del padre nostro!
— E possiamo, noi, — aggiunse Enrico, — venir sempre più degni di Lei e
di Lui che certo veglia su noi dal cielo.
La madre tese le braccia verso i figli che vennero a inginocchiarsele
ai fianchi: essa li abbracciò, poi mise le mani sul capo dei maschi e
quindi sulle chiome di Albina.
— Sì, — disse, — vi benedico, e vi benedice vostro padre di lassù.
Voi siete l’unico mio conforto nella vita, l’unica mia consolazione
nel dolore. Iddio vi darà anni molti e felici, perchè onorate i vostri
genitori, e io lo prego che vi conceda dei figli che sieno a voi quello
che foste pel padre e per la madre vostra.
Poi li baciò un dopo l’altro lungamente sulla fronte.
Un quarto d’ora dopo, un discreto grattare all’uscio indicava che
alcuno domandava permesso di entrare.
Il primogenito dei figli interrogò collo sguardo la madre, la quale
fece col capo un segno di assentimento.
— Avanti! — disse la voce franca e vibrata del maggiore delle guardie.
L’uscio si aprì adagino e comparve il vecchio domestico Tommaso, con
due lacchè dietro le spalle.
— Signora contessa, le carrozze sono in ordine: — disse Tommaso.
La vedova Sangré s’alzò.
— I nostri cappelli e mantelli: — disse.
Le cameriere, che erano pronte cogli oggetti domandati nella sala
vicina, accorsero e vestirono le due signore. La contessa Adelaide
prese il braccio del marchese Ernesto Respetti-Landeri.
— Conte di Camporolle: — diss’ella poi: — se ci vuole accompagnare alla
messa funebre, offra il braccio alla marchesa Sofia.
Il giovane fece un profondo inchino e obbedì.
Giulio stava lì interito, guardando dietro Alfredo con occhio punto
benigno, allorchè sentì una mano lieve lieve passare nella ripiegatura
del suo braccio.
— E tu, Giulio, sii il mio cavaliere: — gli disse la voce soave di
Albina.
Egli arrossì, poi impallidì, e mosse i primi passi quasi vacillando.
I lacchè aprirono gli usci a due battenti per dar passaggio alla
comitiva. Tommaso restò l’ultimo lasciando passare innanzi tutti,
curvo in atto di reverenza; quando fu solo nel salone, andò innanzi al
ritratto, pose la pezzuola sopra una seggiola, vi salì sopra tanto che
la sua bocca arrivasse fino all’altezza della mano dipinta del morto
padrone, e su quella mano posò un leggero rispettosissimo bacio, poi
discese e corse in chiesa anche lui.
VI.
Occupandosi con zelo degli interessi di Giulio, secondo la
raccomandazione fattagliene dal conte-presidente moribondo, il marchese
Respetti aveva eziandio accresciuta l’affezione verso il giovane e
poneva assai premura in tutto quello che lo riguardasse. Quindi s’era
impensierito non poco dell’aspetto sofferente e più che malinconico
del cugino, e avutolo in disparte quel giorno stesso, aveva saputo
interrogarlo così bene da riuscire a trargliene fuori il segreto:
l’amore cioè che nutriva per Albina e la gelosia, che a lui pure pareva
ragionevolissima, ispiratagli dal conte di Camporolle.
Mosso dal suo vivo interessamento per Giulio, il marchese erasi
posto subito a investigare chi fosse quel forestiero, ed appresone
il poco che era conosciuto dalla società elegante torinese, aveva
trovato, al di là di quelle superficiali informazioni, un qualche
cosa di misterioso, una specie di barriera che separava un passato,
non si sapeva quale, da uno stadio relativamente recente. Egli pensò
interessante non solo, ma necessario penetrare al di là di quella
barriera e stava immaginandone il come, quando alla sera, in sul tardi,
ricevette un bigliettino in cui erano scritte in fretta le seguenti
parole: «Domattina, alle cinque, il sottoscritto attende a casa sua
il marchese R. L... Cavour.» Tutto quel giorno il Respetti era stato
preso dalle meste funzioni di quella dolorosa solennità famigliare e
non aveva potuto, malgrado il suo vivo desiderio, adoprarsi in modo da
incontrare, secondo il solito, qua o colà il ministro. Anche questi
evidentemente, saputo che il marchese era a Torino, desiderava assai
vederlo; perchè, non contentandosi più di aiutare il caso che li faceva
trovare, gli assegnava un preciso ed urgente convegno. Determinando
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