Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 07

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— Partirò: — rispose Giulio, reprimendo un singhiozzo. — Partirò, non
mi vedrai più...
Ella si staccò dalle braccia di lui.
— Ora lasciami... Coraggio!... Pensa che, per quanto tu soffra, soffro
anch’io e forse di più!... Va e perdonami!
Dieci minuti dopo Albina usciva colla sua governante, colla quale aveva
voluto andare alla messa, e dopo questa se ne faceva accompagnare alla
locanda in cui avevano preso stanza i marchesi Respetti-Landeri.
La marchesa Sofia era appunto sola e accoglieva, non senza un po’ di
meraviglia per quella visita mattiniera, la cugina che diceva aver
bisogno di parlarle in tutta confidenza. Le due cugine si ritirarono
nello stanzino da abbigliarsi della marchesa, mentre la sora Giustina
si fermava ad aspettare in salotto.


XVII.

La meraviglia della marchesa Sofia si accrebbe d’assai quando la
contessina Albina, senza punto preamboli, le disse:
— Sono venuta da te per un grande favore, quale non saprei a chi altri
domandare, e pel quale bisogna assolutamente che tu mi prometta il più
assoluto segreto e che non nieghi di accordarmelo.
Così dicendo la giovanetta aveva insieme e la mostra d’un’emozione
appena dominata e l’aspetto di risolutezza che era propria dei Sangré.
— Cara mia! — esclamò la marchesa abbracciando affettuosamente la
cuginetta: — tu non hai che da parlare, e m’impegno fin d’ora, senza
sapere di che cosa si tratti, che farò tutto quanto mi domandi.
— Grazie!... Ma non è cosa tanto semplice a farsi, come non è tanto
facile a dirsi...
Albina stette un momentino, come per raccogliere le sue forze; poi,
arrossendo fino alla radice dei capelli, disse con voce tanto bassa,
che appena se la cugina l’udì;
— Ho bisogno di una somma...
— Di denaro? — fece la marchesa stupita.
— Sì,... e una somma di qualche rilievo.
— Ah capisco... Forse qualche nuovo debito d’Ernesto?
— No; no: — interruppe vivamente la fanciulla. — Non è quel che tu
credi, davvero, davvero.
— E qual somma?
— Cinquanta mila lire.
— Possibile!.... Ma non è mica una bazzecola.... E sei venuta da me
perchè io te la procuri?
— Ci ho pensato tanto!... A chi altri avrei potuto rivolgermi?
— Ma io, come vuoi che?...
— Per mezzo di tuo marito...
— Certo il marchese non sarebbe menomamente impacciato a darmi questa
somma dall’oggi al domani; ma con che pretesto posso io domandargliela?
— Ho creduto che foste in tali rapporti insieme da poter tu ottenere da
lui questo piacere, anche senza dirgliene il motivo...
— Eh, mia cara, gli uomini sono più curiosi di quel che tu pensi...
Mio marito, senza dar soverchia importanza al denaro, usa pure tenerne
conto come di quel potente mezzo che è nel mondo: è difficile che si
contenti di sborsare una somma sì vistosa senza saperne l’impiego...
— Potresti dire che è per una tua amica.... ed è la verità: non sono
io anche tua affezionatissima amica?... la quale t’ha pregata, come
faccio davvero, del più rigoroso segreto... Bada che non sarebbe che un
imprestito di poco tempo.... Fra un mese al più tardi io sarò maritata,
e allora sulla mia dote m’affretterò a restituire...
— Zitta lì... questo non è discorso che ci vada. Se posso fare il tuo
desiderio, se trovo il modo di indurre Ernesto a darmi quel denaro ad
occhi chiusi, tu non avrai a pensare alla restituzione che con tutto
tuo comodo.
Albina prese di nuovo le mani della marchesa.
— Ma lo potrai? Lo troverai quel modo?
La moglie del Respetti sorrise commossa alla soave istanza di preghiera
che eravi in quelle domande.
— Spero di sì, — rispose stringendo anch’essa le mani della giovanetta,
— e se c’è premura...
— Oh sì! — interruppe Albina: — moltissima premura...
— Ebbene, oggi stesso gli darò l’assalto...
— Grazie! grazie! — esclamò Albina abbracciando strettamente la
marchesa. — Tu mi renderai uno di quei servizi che non si possono mai
compensare...
— Aspetta almeno a ringraziarmi quando abbia ottenuto qualche cosa....
E intanto per questa sera medesima ti prometto una parola di risposta.
La contessina di Valneve se ne tornò a casa colla sora Giustina; e la
marchesa Sofia, piena d’interessamento per la giovane cugina, mantenne
la parola, e forse meno d’un’ora dopo quel colloquio faceva al marito
la strana domanda.
Il vero è che il caso parve volerla favorire e venne a porgergliene una
certa occasione.
Ernesto Respetti-Landeri era rientrato alla locanda con una lieta
animazione, e non aveva indugiato pure un momento a dirne il motivo
alla moglie, colla quale duravano sempre, anzi eran più vive, la
affezione e la confidenza. La guerra contro l’Austria, coll’aiuto
delle armi francesi, era oramai certa, e certa del pari se ne riteneva
la vittoria: il marchese, per sottrarre la moglie ai pericoli che
ci potevano essere a Milano in quegli ultimi tempi in cui avrebbero
comandato gli Austriaci minacciati, poi assaliti, aveva deciso di
lasciare la marchesa a Torino e aveva domandato francamente per lei
l’ospitalità della contessa Adelaide di Valneve, la quale non è a
dirsi con quanto lieto animo si fosse affrettata ad accordarla. Fra
pochi giorni adunque egli, il marchese Ernesto, sarebbe ripartito per
Milano, dove ci aveva appunto qualche importante missione da compiere,
affidatagli, come sappiamo, dal Cavour, e avrebbe lasciato in casa
dei Valneve la marchesa Sofia, cui sarebbe venuto a raggiungere o
riprendere appena gli avvenimenti lo avessero permesso.
La marchesa non accettò così di piano questo disegno; non voleva
separarsi dal marito, desiderava parteciparne i pericoli, diceva la
sua ansietà sarebbe maggiore da lontano, le sembrava mancare al proprio
dovere separandosene. Ma egli insistette e la vinse, massime affermando
che l’inquietudine da cui sarebbe agitato se ella si trovasse esposta
a quei rischi, gli avrebbe fatto assai male, lo avrebbe impacciato e
reso inabile nel compiere quegli uffici che aveva assunti. E alla fine
soggiunse:
— E chi sa che questa non sia occasione che, in qualunque modo volgan
le cose, mi decida a ristabilire la nostra dimora a Torino. Questa
città è ora ben cambiata da quando credetti conveniente abbandonarla, e
ora son certo che ci potremmo vivere assai meglio. Se l’Austria vince,
sicuro che non sarà opportuno consiglio tornare a Milano; se vinciamo
noi, sarà pure utile e piacevole venirci a stabilire alla capitale.
Così bene, che di questi giorni dovendo esigere una vistosa somma, ho
pensato bene di investirla qui a Torino...
— Tu hai da esigere una grossa somma? — proruppe vivamente la marchesa.
— Sì.
— E allora potrai darmi senza il menomo tuo incomodo una cinquantina di
mila lire che mi occorrono.
Il marchese guardò stupito la moglie.
— Cinquanta mila lire! — esclamò. — Che ne vuoi fare?
Sofia disse dell’amica, del segreto, eccetera. Ernesto rispose con
fredda galanteria:
— Mia moglie può domandarmi qualunque cosa, e sarà sempre sicura
d’ottenerla, se è in poter mio. Domani stesso avrai le cinquanta mila
lire, ma mi permetterai ch’io non ti taccia il mio stupore e il mio
dispiacere per la mancanza di fiducia che tu mi dimostri facendomi un
segreto della destinazione di questa somma.
La nobiltà del tratto e delle parole vinse la marchesa più che non
avrebbe fatto qualunque insistenza di domanda; si gettò al collo del
marito e gli disse tutto quello che Albina le aveva detto, facendo a
lui pure giurare, ci s’intende, il più assoluto segreto.
Quella sera medesima la marchesa Sofia andata al palazzo dei Sangré,
susurrò all’orecchio d’Albina queste parole:
— Domani avrai quello che desideri.


XVIII.

Ma quella medesima sera, pure in casa i Sangré, il marchese Ernesto
Respetti apprese una notizia che gli spiacque assai, quella che
ogni idea di matrimonio fra Albina e Giulio era messa in disparte, e
s’erano invece già intesi gli sponsali della contessina con Alfredo
di Camporolle. Siccome quest’ultimo era presente a quel punto, il
Respetti non potè manifestare tutta la sua sgradevole meraviglia, nè
domandare le spiegazioni che desiderava. Seppe, interrogando, che il
fratello maggiore d’Albina, prima di partire, aveva accettato questo
partito e che era comune desiderio delle due parti di affrettare più
che si potesse la conclusione del maritaggio; si limitò a manifestare
il suo poco aggradimento con una freddezza che si conteneva appena nei
limiti della cortesia; e rimasto poco tempo nel salotto della contessa
Adelaide, prese commiato, dicendo d’essere chiamato altrove per qualche
bisogna e che sarebbe venuto più tardi a riprendere sua moglie.
Uscendo s’informò di Enrico e apprese che il giovane cugino nei due
ultimi giorni era stato quasi sempre assente di casa, appena se
lasciandosi vedere alle ore de’ pasti, e che a quell’ora sarebbe
stato facile trovarlo al _Club del Whist_. Il marchese congetturò
subito che quest’allontanarsi d’Enrico fosse cagionato dalla
disapprovazione ch’egli pure dava a quel maritaggio e pensò di andar
subito a parlargliene. Lo trovò diffatti al _Club_ e fin dalle prime
parole vide che egli aveva congetturato il vero circa le disposizioni
d’animo d’Enrico per quel matrimonio; ma in pari tempo molto si stupì
nell’apprendere che ciò aveva voluto Albina ad ogni costo, dichiarando
essa di esser pronta a fare qualunque cosa per isposare Alfredo. Il
marchese si ricordò della somma che Albina era venuta a chiedere in
segreto a Sofia e che egli aveva promesso di darle; pensò che forse vi
fosse qualche attinenza fra questi due fatti, ma per quanto studiasse
non seppe trovar quale; si propose di stare attento, di vegliare e
tentare così di penetrare il mistero che sentiva esserci lì sotto.
Intanto si guardò bene dal dir nulla di questo al fratello d’Albina;
e anzi, siccome lo trovò irritatissimo verso il Camporolle, fece a
temperarne lo sdegno, ammonendolo, la violenza essere pessimo mezzo ad
aggiustare simili faccende, con essa non farebbe che recar dispiacere
alla madre, e contristare e danneggiare sua sorella medesima: soggiunse
che tuttavia egli sperava ancora di poter impedire codesta unione,
perchè grazie al conte di Cavour confidava di potere al giusto scoprire
tutto il passato di quel giovane, e se in esso vi fosse, come egli ne
aveva il presentimento, qualche cosa di meno accettevole, anche Albina
avrebbe rinunziato a quel matrimonio. Lo esortava quindi a non voler
far nulla di proprio capo, lasciando completamente a lui il provvedere,
e finiva con assicurarlo, che forse del domani stesso avrebbe potuto
tentar qualche cosa ed efficacemente.
Il domani, per tempo, la marchesa Sofia recava ella stessa ad Albina
la somma richiesta in tanti biglietti di banca; e la giovanetta la
ringraziava con viva effusione, ripromettendo che fra non molto essa
glie l’avrebbe restituita.
Appena rimasta sola, la contessina scriveva colla mano sinistra poche
parole sopra un fogliolino di carta senza stemma, senza cifra, metteva
il foglio insieme con quei biglietti di banca in una busta semplice
del pari, chiudeva questa con cera lacca senza impronta di suggello e
chiamava a sè il vecchio Tommaso.
— Bisogna far pervenire quest’involtino nelle mani del cavalier Giulio,
senza ch’egli sappia menomamente da chi gli viene mandato, nè abbia
alcun modo di scoprirlo mai.
— Come ho da fare? — domandò il vecchio servo.
— Il modo lo devi trovar tu, e mi sono apposta rivolta a te.
— Il servo fidatissimo ci pensò un poco sopra e poi disse:
— Potrei fare così. Vado e cerco d’un facchino o d’un lustrascarpe
che non mi conosca e non conosca neppure il cavalierino, e lo mando al
palazzo a portarglielo.
— Bada che si tratta di carte importantissime e che mi piacerebbe
vedessi tu stesso quando saranno consegnate nelle proprie mani di lui.
— La cosa si fa più difficile... Aspetti!... Si potrebbe appostare
quel commissioniere vicino al palazzo del cavalier Giulio perchè
lo aspettasse in quelle ore che egli è solito a tornare a casa: io
guarderei quando egli s’accosta, lo additerei all’uomo, mi nasconderei
in qualche porta per vedere se la commissione è fatta a dovere senza
che il cavaliere mi potesse scorgere, e poi verrei subito da Lei a
dirle com’è andata.
— Sì, così mi pare che sia il meglio. Va dunque subito, e ricordati
bene che anima al mondo non ha da saper nulla di ciò.
Verso il mezzogiorno il marchese Respetti si presentava in casa del
cavalier Giulio, e poichè questi si trovava in casa, n’era subito
ricevuto. Nella camera del giovane una valigia mezzo riempita indicava
delle intenzioni di prossimo viaggio.
Ernesto Respetti-Landeri prendeva alle braccia il cugino e tenendolo
fermo innanzi a sè per guardarlo bene entro gli occhi e discendergli
nell’anima, gli disse:
— Tu dunque vuoi fuggire? abbandonare la partita, andartene chi sa dove
a goderti il tuo crepacuore, o a far chi sa che pazzia? E ciò senza
consultarmi, senza dirmi niente, senza pensar nemmeno a chi ti ha pur
mostrato di volerti bene, ed ebbe dal nostro zio presidente l’incarico
di vegliare su di te?
— Caro Ernesto, — rispose Giulio con un aspetto che rivelava una
gran confusione, — non voglio già partire... cioè sì, ma non per far
pazzie come credi... Sì certo dapprima volevo andarmene fin laggiù
in America... dov’è morto mio padre... ma poi ho cambiato idea...
per adesso... Non voglio che andare a Genova... me lo ha consigliato
l’altro Ernesto... Sangré... Vado da lui... Là poi vedrò quello che mi
conviene di meglio... Dicono tutti che ci dev’essere la guerra; sarebbe
una follia andare fin laggiù, mentre uno può farsi ammazzare qui pel
suo paese.
Respetti scosse leggermente il giovane per le braccia, dicendogli con
affettuoso rimprovero:
— Tu dunque non hai più nessun attaccamento alla vita fuori del tuo
amore per Albina? E in questo hai perduta davvero ogni speranza?
Giulio chinò dolorosamente il capo.
— Sì: — rispose.
— Ma se io riuscissi ancora a mandare in aria quel matrimonio?
— No.... non lo devi.... Ho parlato con Albina; mi ha detto ella stessa
che esso deve compiersi a ogni modo.
— E tu l’accusi?... Tu non le perdoni?
— Chi? — domandò Giulio con calore. — Albina?... Oh no certo! Essa è
sempre un angelo, la stimo e l’adoro più che mai.
— Ma t’ha detto almeno la ragione per cui essa vuole sposare colui?
— No...
— Non t’ha detto, come a sua madre, che essa lo ama?
— Non interrogarmi.... non ti posso rispondere... non so nulla, eccetto
che una cosa: che Albina è pura d’ogni colpa, è superiore ad ogni
sospetto e ch’io l’amo più che mai.
— Insomma, in tutto questo noi siamo circondati da non so qual mistero.
— Sì, è un mistero che io darei non so che cosa per poter penetrare. A
proposito, poc’anzi ecco capitarmi un’altra misteriosa straordinaria
avventura; tu appunto potrai forse aiutarmi a venire in chiaro di
qualche cosa.
— Che avventura? sentiamo un poco.
— Venivo a casa, quando sulla cantonata ho visto accostarmi una
specie d’operaio o facchino che fosse, con una faccia a me affatto
sconosciuta, il quale domandatomi umilmente se ero il cavaliere Giulio
Sangré, e rispostogli io di sì, mi porse una busta di carta suggellata,
dicendomi che aveva da consegnare nelle mie proprie mani quel plico.
Domandai chi lo mandasse, mi rispose che non sapeva nulla e s’affrettò
ad allontanarsi senza volere ascoltare più nemmanco una parola.
Guardai la soprascritta: il ricapito era proprio il mio, ma scritto con
calligrafia evidentemente contraffatta. Aprii la busta: sai che cosa ci
ho trovato dentro?
— Non saprei indovinarlo davvero.
— Cinquanta biglietti da mille lire ciascuno....
— Eh? — fece il Respetti trasalendo, chè la sua mente era subito corsa
alla somma uguale in uguali biglietti di banca, da lui data quella
stessa mattina alla moglie perchè la recasse ad Albina.
— E insieme questo sgorbio di lettera.
Prese il foglio che accompagnava quella somma e la porse al Respetti
che lesse:
«Questi denari sono una restituzione — una sacra restituzione; non
cercate di chi; sappiate solamente che è affatto roba vostra e pregate
per chi ve la manda.»
— È strano davvero, — disse il marchese pensieroso ed esaminando
attentamente quella carta e quella mano di scritto, che quantunque
falsata gli parve di riconoscere. — Non c’era segno nessuno sui
suggelli?
— No.
— Eh! si capisce.
Annusò ancora il leggero profumo che esalava da quel foglio e gli parve
riconoscere anche quello come aveva riconosciuta la calligrafia.
— Lasciami un po’ vedere quei biglietti: — disse; e Giulio subito glie
li pose fra le mani.
Fra quelli dati da lui stesso alla moglie, ce n’era uno su cui
erano scritte a mano due iniziali: lo trovò in mezzo agli altri così
stranamente ricevuti da Giulio. Pel marchese non rimase più dubbio
alcuno: quella somma era stata mandata al giovane da Albina. Ma perchè?
— L’anonimo e misterioso pagatore di tal somma, — disse il Respetti
al cugino, — afferma essere questa una restituzione che ti fa. Bisogna
credergli, perchè non si dànno senza una buona ragione cinquanta mila
lire a un altro; ma, pensandoci bene, non puoi tu congetturare da che
parte e per qual titolo ti possa venire una siffatta restituzione?
— Io no: — rispose Giulio. — Ci ho già pensato tanto! Per un fatto mio,
già non è sicuro, perchè io, dacchè vivo, non ho mai avuto con nessuno
attinenza d’affari nè d’altro da cui mi potesse nascere un credito
simile. Potrebbe darsi che fosse qualche cosa che riguardasse mio
padre....
— Sì, certo; dev’essere così.... Tuo padre.... oh lo so bene, io mi
ricordo ancora un poco di lui, e poi tuo zio, il conte-presidente,
mi ha parlato tante volte di suo fratello.... tuo padre era la
generosità in persona, e con questo una imprudenza, una leggerezza, una
sventataggine che erano fatte apposta per lasciarlo cader vittima di
scrocconi e gente di malafede.
— E forse qualcuno di questi o qualche suo erede può essersi pentito, e
spinto dal rimorso, aver voluto fare a me la restituzione del maltolto?
— È la supposizione più probabile. Ma fra quante carte provenienti
da tuo padre io abbia mai avuto tra mani, poichè per desiderio di tuo
zio moribondo presi l’amministrazione delle cose tue, non mi avvenne
di trovare un menomo indizio di simil cosa, un cenno qualunque che
potesse recar lume in questo mistero. Hai tu da parte tua, o nella
corrispondenza di tuo padre, o in qualche altro scritto, hai tu mai
trovato alcun elemento che possa servirci di bandolo?
— Io no.... Le carte che ho di mio padre sono così poche!... La
maggior parte delle lettere rimase colaggiù dov’egli morì e andò certo
distrutta....
— Chi sa, — disse lentamente il marchese, come desideroso che il
giovane mettesse una speciale attenzione a queste sue parole: — chi sa
che alcun simile documento sia rimasto presso il tuo primo tutore, lo
zio?
— Oh no: — s’affrettò a rispondere Giulio: — i cugini me lo avrebbero
detto, me lo avrebbero subito comunicato.
— Ad ogni modo converrà parlarne con essi.... Non è impossibile
che sieno in grado di darci qualche informazione che ci metta sulla
traccia. Io, ne’ tuoi panni, ci andrei senza indugio....
— In casa della zia? — interruppe Giulio quasi spaventato. — Oh
no.... non ci metterò più i piedi, non lo posso.... ho promesso a me
stesso.... e ad altri di non comparirci più.
— Ebbene, se me lo permetti, farò io le tue parti.
— Sì, fa tu.... già io mi affido pienamente in te, per ogni cosa.
— Ci andrei subito, se non avessi ora un convegno di grande importanza,
il quale assai facilmente avrà delle conseguenze non infauste anche per
te: un colloquio col conte di Cavour.
— Ed in che modo ci posso entrar io?
— Questo te lo dirò dopo. Frattanto accetta il mio consiglio, sospendi
ogni proposito di partenza e aspetta tranquillo qui le notizie che
spero non indugierò molto a portarti.
— E di questi denari che cosa debbo farmene?
— Tenerli...
— Senza sapere da chi mi provengono e per qual titolo? No certo....
— Attendi almeno che le cose si chiariscano un poco. Se ciò non
avviene, se non potremo per nessun modo scoprire il mistero, avrai
sempre tempo di fare quel che t’ispirerà il cuore.


XIX.

Il conte di Cavour attendeva nel suo gabinetto al ministero il marchese
Respetti-Landeri, e questi fu introdotto presso di lui.
Parlarono lungamente delle cose politiche; ma quando tutto fu esaurito
quel tema, il Cavour medesimo, pel primo, uscì fuori con queste parole:
— Lei mi aveva richiesto di certe informazioni sopra un cotale....
— Il conte di Camporolle: — soggiunse vivamente il marchese.
— E io sono lieto di poter soddisfare per intiero o quasi la sua
curiosità. Ci abbiamo ora qui un famoso poliziotto; un cotale che
appartenne già alla polizia piemontese dei tempi del commissario
Tosi, e ci veniva dalla polizia papale; dopo la proclamazione dello
Statuto fu mandato a spasso e trovò aperte a raccoglierlo le braccia
della polizia austriaca, la quale lo regalò al fu duchino di Parma per
farsene un suo direttore di buon governo. Assassinato il duca.... nel
qual fatto forse costui ci ebbe qualche piccola parte.... la reggente
lo mandò via, ma contentandolo di denari: ed egli passò al nostro
servizio segreto....
— E V. E. si fida di codesta razza di gente? — non potè a meno
d’interrompere il marchese.
Cavour fece il suo malizioso sorriso.
— Non mi fido, — rispose, — ma me ne servo; e l’assicuro che, per chi
sa adoperarli, costoro sono utilissimi stromenti. Or dunque costui, che
appartenne oramai a tutte le polizie dei governi italiani, saprebbe
scovare in mezzo alle tenebre più fitte il segreto di non so chi;
nel caso nostro poi, la fortuna vuole che con quel signor conte di
Camporolle egli a Parma siasi trovato in importanti rapporti.... Breve:
io faccio venire quel tale, e dietro mio ordine egli dirà a Lei di quel
giovane quanto certo non direbbe a persona al mondo per nessun riguardo
e dietro nessun compenso.
Il marchese Respetti ringraziò vivamente.
Dieci minuti dopo entrava nel gabinetto del ministro un uomo attempato,
senza barba, dalla faccia color di rame, dagli occhi affondati, dalle
labbra sottili, senza luce di sguardo, senza espressione di fisonomia,
o, come i lettori hanno capito, il Pancrazi, già direttore della
Polizia parmense.
Questi, al comando del conte di Cavour, si diede ad esporre minutamente
tutta la storia che egli conosceva a perfezione di Alfredo Corina
conte di Camporolle: parlò con voce sorda, lenta, in modo ordinato,
con chiarezza, con esatta citazione di date e con assoluto rispetto
alla cronologia. Cominciò dalla fede di battesimo, in cui disse
esservi già un mistero. Il bambino battezzato col nome d’Alfredo era
stato registrato dal vecchio prete di campagna, sulla testimonianza
di Matteo Arpione piemontese e di Giovanni Carra parmigiano, come
figlio legittimo del nobile signor Alfredo Corina di Lugo premorto
e della signora Giuseppina Ressi di Macerata, uniti in legittimo
matrimonio, come provava l’atto autentico di cui si presentava copia;
ora il Pancrazi sapeva che nei registri della chiesa parrocchiale di
S. Giovanni in Macerata, sotto la data dell’ottobre 1832 eravi l’atto
mortuario di Giuseppina Corina nata Ressi, e quindi era impossibile
che costei potesse avere un figlio l’anno dopo in un villaggio presso
Parma. Il bambino, sempre col nome di Alfredo Corina, veniva allevato
come ricco: e invece a Lugo si sapeva che i Corina erano morti non
lasciando sostanza nessuna, e l’ultimo di essi, il supposto padre
di Alfredo, partitosi da Lugo nel 1831 con Matteo Arpione, era morto
l’anno seguente e non aveva potuto in sì breve tempo guadagnare una
fortuna. Più tardi l’Arpione, a nome di Alfredo, era venuto ricomprando
tutte le terre e il palazzo che erano stati dei Corina, e aveva quindi
ottenuto pel giovanetto il titolo di conte a suon di denaro. Detto
brevemente dell’infanzia e dell’adolescenza d’Alfredo, il Pancrazi
si fermò più a lungo sul soggiorno di lui in Bologna; narrò come in
questa città egli conoscesse una famosa avventuriera che si faceva
chiamare la baronessa di Muldorff, se ne invaghisse perdutamente e ne
diventasse evidentemente l’amico e il compagno. Costei era niente meno
che un agente segreto della Polizia austriaca, e in Bologna era venuta
appunto per commissione di Vienna, ad esplorare gli umori e i disegni
della gioventù liberalissima di quella così importante città dello
Stato Pontificio; e qui il poliziotto non diceva chiaro, ma lasciava
capire che forse il giovane Alfredo aveva aiutato in quel còmpito la
maliarda che lo aveva stregato. Dopo Bologna ecco Alfredo, per ordine
preciso di quella trista donna, venirsene a Parma dove ella un po’ più
tardi lo raggiunse. A Parma furono lettere commendatizie procurategli
dall’avventuriera che lo introdussero e in Corte e presso i principali
personaggi del Governo; a lui stesso, che era direttore di polizia,
narrò essere venuta lettera di colei a favore di quel giovane. Il
duca di Parma lo prende a benevolere, lo tratta con famigliarità,
lo sollecita a venire a Corte, lo va a trovare famigliarmente nel
palchetto a teatro, lo fa segno di carezze e di oltraggi a seconda
del suo umore, come pratica con tutti i suoi favoriti. Una volta
fra le altre, — il Pancrazi diceva di non saperne il perchè, — in
presenza di tutti i cortigiani, il duca investì il giovane con ogni
fatta d’improperi, e l’obbligò per ultimo a mettersi in ginocchio e
domandargli perdono, e lui, Alfredo vi si piegò.
Il marchese Respetti a questo punto non potè frenare un’esclamazione e
un atto di disprezzo.
Quell’altro continuava:
— Calcolando sul desiderio di vendetta che aveva dovuto fargli nascere
codesta umiliazione, certuni che congiuravano contro la vita del duca,
pensarono che il Camporolle si farebbe volentieri loro complice e
mandarono a tentarlo. Egli accettò, fu ammesso alle segrete adunanze,
e anzi deve aver giurato di eseguire egli stesso il colpo; ma quando
tutto era preparato e la congiura doveva aver effetto, ecco presentarsi
al ministro W... quel tale Matteo Arpione, che è l’anima dannata di
questo Alfredo, e come era già venuto a rivelare a me che il conte
di Valneve e l’ufficiale austriaco dovevano battersi a Castel San
Giovanni, rivelava a sir Tommaso che il duca doveva essere ammazzato,
chiedendone in premio la salvezza di uno dei cospiratori, cioè di
Alfredo Camporolle.
— E ch’egli sapesse?... — proruppe il marchese: — Oh sarebbe troppa
infamia!
Il Pancrazi si strinse nelle spalle.
— Io questo non affermo, nè nego: — disse colla sua voce monotona,
piena d’indifferenza. — Certo dove il conte Sangré e l’austriaco si
dovessero battere, quell’Arpione non aveva potuto apprenderlo che
dal conte Alfredo, il quale era padrino del primo dei due campioni; e
l’esistenza della congiura mi pare impossibile l’abbia potuta conoscere
da altri. Io pensai bene ad ogni modo farli arrestare tuttedue...
— E il colpo così potè esser fatto da un altro? — disse maliziosamente
il Cavour battendosi le nocche delle dite con un tagliacarte.
— Ma allora, — disse facendo una smorfia molto significativa il
Respetti, — colui sarebbe niente meno che un rivelatore... o per
disgrazia o di proposito!
— No, non credo che si possa dire codesto di lui: — esclamò con qualche
vivacità il ministro. — Si ricordi, marchese, che quel tale andò
soldato volontario in Crimea e vi si battè valorosamente, e ciò non è
da anima bassa.
— Io non ho più nulla da aggiungere sul conto di quell’individuo: —
disse freddamente il Pancrazi, come per sollecitare il suo congedo; e
il ministro glie lo diede con un atto della mano a cui egli fu lesto
ad ubbidire, sparendo dietro la portiera, dopo aver fatto un profondo
inchino.
— Ed ora, caro marchese, — disse il Cavour, rimasto solo col Respetti,
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