Il segreto di Matteo Arpione : Aristocrazia II - 11

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— Mi scusi.... — ripigliò il vecchio umiliandosi, — vede che le dico
proprio tutta la verità, che le apro la mia anima, i miei segreti
come ad un confessore.... Io conosceva d’altronde tutti gli affari
del marchese Leonzio.... fuor quello che dovevo apprendere da questa
carta.... non mi pareva neppure indiscrezione la mia.... Del resto
queste cose me le dissi dopo, a spiegarmi il fatto, a scusarlo innanzi
a me stesso, perchè allora, in quel momento, le ripeto, fu un’azione
irriflessiva, subitanea.... Quando gettatovi lo sguardo sopra, vidi le
parole «a mio figlio Ernesto....»
Il marchese levò vivamente la testa.
— Come! — esclamò figgendo sul vecchio uno sguardo acuto, penetrante,
con un guizzo di fiamma.
Matteo si morse le labbra.
— Voglio dire, — s’affrettò a soggiungere, — che m’accorsi essere
diretto a Lei figliuolo del marchese Leonzio, capii che si trattava
forse di qualche cosa di particolare che aveva da rimaner segreto....
— E vi affrettaste a impadronirvene: — interruppe il marchese
amaramente ironico.
— No: — rispose con forza l’usuraio. — Vero com’è vero che siamo qui
tutt’e due, il mio subito pensiero fu di riporre là sopra quella carta,
senza neppur leggerla; ma a quel punto udii un passo che tornava
indietro, l’uscio che si riapriva, la voce del conte-presidente
che mi chiamava. Io era andato per vedere lo scritto fin presso ad
una mensola dove ardeva una lampada, mentre quella che stava sulla
scrivania era stata presa da un domestico: ero quindi troppo lontano
per rimettere il foglio al posto che aveva; non volendo assolutamente
che il conte Sangré scoprisse quel mio atto, non ebbi altro scampo che
ripiegare in fretta la carta e cacciarmela in tasca. Poi mi volsi e
vidi il conte-presidente che mi veniva incontro, ancora più affannato
e sgomento di prima. Egli era troppo turbato per accorgersi di nulla,
per pensar pure ad altra cosa qualunque che non fosse il malore del
cugino che egli amava come un fratello. «Matteo,» mi disse, «correte
voi stesso dal medico, e fate di condurcene subito subito uno, a
qualunque costo.» Risposi di sì, e mi avviai senz’altro; il conte
lasciò cadere lo sguardo su quel disordine di carte che c’era sul piano
della scrivania, pensò che non bisognava lasciarlo così al pericolo
di essere manomesso fors’anco dalla servitù; corse alla scrivania,
senza toccare altrimenti quei fogli, senz’accorgersi, agitato com’era,
della mancanza della carta scritta poco prima da lui stesso, abbassò in
fretta il coperchio a mezzo cilindro che serrava tutto, ne richiuse la
serratura colla chiave che stava nella toppa, ritirò la chiave, se la
mise in tasca e corse di nuovo presso al letto dove frattanto era stato
deposto il cugino. Io non tardai molto a ritornare col medico, il quale
dichiarò che il marchese era morto per un più forte accesso di quel
suo mal di cuore, da cui era da parecchi anni travagliato e da molti
mesi ridotto a un’assoluta impotenza. Quando a casa mia lessi quella
dichiarazione, compresi che l’emozione aveva dovuto in lui affrettare
la disgraziata crisi.
Tacque; Ernesto Respetti era tornato a coprirsi colle mani il volto e
gli occhi, e per un poco stette immobile e silenzioso; poi si scosse,
alzò il capo e domandò con accento severo e pieno d’un intimo dolore:
— E perchè non restituiste mai quella carta? Perchè non ne parlaste mai
nè al conte di Valneve nè a me?
— Non osavo palesare quell’azione, che ero certo il conte-presidente
m’avrebbe acerbamente rimproverata.
— E come il conte non s’accorse della sparizione di quella carta, o
accortosene, non pensò a rintracciarla?
— Il conte, che soffrì immensamente della morte del cugino, non pose
più il piede nella casa del marchese Leonzio, e non aprì più quella
scrivania che quando V. S. fu tornata, e, se non erro, andò con Lei a
esaminare tutte le cose della successione.
— Ah sì, è vero! — esclamò il marchese, cui assalirono in folla i
penosi ricordi.
S’alzò, si diede a percorrere lo stanzino a lenti passi, il capo curvo,
le sopracciglia aggrottate.
Ora capiva certe cose, certe parole, certi atti che non era riuscito
prima a spiegarsi completamente del conte Sangré. Si ricordava che,
appena giunto, insieme colle più sincere e affettuose condoglianze,
aveva ricevuto dal conte-presidente certi conforti o meglio ammonimenti
che suonavano doversi essere generosi di pietà e di perdono verso
il defunto, perchè non il malo animo, ma l’imprudenza e la sventura
lo avevano indotto a cose ch’egli stesso deplorava col più acerbo
pentimento: egli allora aveva attribuito queste parole soltanto alla
sconsigliata leggerezza con cui il marchese Leonzio aveva dilapidato
il patrimonio, e ora ne scopriva finalmente il vero significato.
Si ricordava che quando s’era trattato di aprire quella scrivania,
il conte-presidente gli aveva detto di volergli essere compagno per
aiutarlo nello spoglio delle carte, per dargliene qualche spiegazione
che credeva necessaria. Si ricordava come aprendo la scrivania
avessero trovato tutte le carte alla rinfusa, e il conte avesse una
gran sollecitudine a pigliarle tutte lui primo una per una, e poi
passargliele. Raccolte ed esaminate tutte le carte, il Sangré aveva
mostrato un certo stupore come di chi non trova quello che s’aspettava,
aveva frugato e rifrugato per tutto, in ogni cassettino, e quando il
marchese suo figlioccio gli aveva domandato: che cosa cercasse, se
credesse che vi mancasse qualche cosa, aveva risposto di no, ma in modo
così impacciato che al giovane aveva fatto impressione.
Di certo, ora pensava, egli non aveva il coraggio di esporre un fatto
tanto grave a carico del cugino al figliuolo di costui, tanto più che
si trattava di cosa che riguardava il proprio fratello e il proprio
nipote; e taciuto allora, aveva creduto dover tacere sempre di poi.
Ricordava poscia la morte del conte-presidente. Questi aveva voluto
rimaner solo con lui, suo figlioccio, e pareva aver qualche importante
segreto da comunicargli; ma si limitava a raccomandargli specialmente
il nipote Giulio. Aveva certo in animo di rivelargli tutto; e poi,
anche in quel supremo momento, la bontà del suo animo lo aveva
trattenuto dal dare al cugino un sì doloroso colpo ed aveva preferito
morire portando seco il segreto della colpa del marchese Leonzio. Sentì
un nuovo intenerimento, uno slancio di gratitudine verso quell’anima sì
squisitamente nobile.
Si fermò improvviso innanzi all’usuraio, e lo interrogò:
— Il conte Sangré non vi domandò mai nulla in proposito?
— Sì signore, — rispose Matteo, — una volta, appunto subito dopo
l’arrivo di V. S.; ma come Ella può immaginare, non mi interrogò già
esplicitamente: cominciò per chiedermi se quella sera fatale in cui
il marchese Leonzio era morto, io mi trovassi davvero in casa di lui
e fossi di coloro che accorsero alla sua chiamata quando il marchese
cadde in quella sincope fatale; egli, sconvolto così profondamente in
quel punto, non aveva più esatta memoria di niente. Io m’aspettava
qualche cosa di simile; ben supponevo che il conte-presidente, non
trovando più quella carta, qualche cosa avrebbe fatto per rintracciarla
e facilmente si sarebbe rivolto a me, quindi m’ero preparato e contegno
e risposte. Dissi di sì, che anzi il conte medesimo m’aveva allora
mandato a chiamare il medico e io mi ci era subito affrettato. «Non
avete osservato,» mi domandò allora il conte, «che qualche carta fosse
caduta per terra o si trovasse su qualche mobile abbandonata?» Risposi
francamente, semplicemente di non aver visto nulla. Il presidente
non me ne parlò più; poco dopo, in grazia dell’opera di Lei, il conte
Sangré mi tolse in gran parte quella fiducia che aveva prima in me,
cessai di servirlo e non ebbi più che rare volte l’onore di vederlo.
— E come fu che non pensaste vendicarvi di me che avevo scoperto e
rivelato al conte le vostre gesta facendo allora quello che venite a
fare adesso?
— Finchè visse il conte-presidente non avrei fatto una cosa simile per
tutto l’oro del mondo. Ci tenevo a conservarmi quel poco di stima che
egli serbava ancora per me... Lui morto, non ci pensai più... E ne
avrei taciuto sempre, se non fosse nato ora un caso che mi spinse a
servirmene.
Il marchese aprì la bocca per parlare, ma poi tosto se ne astenne;
tornò a camminare un poco su e giù, e quindi andò di nuovo a sedersi
sul seggiolone.
— Venite qui, Arpione, avvicinatevi e discorriamo un poco di quel
documento.
L’usuraio si accostò di mala voglia, sentendosi a crescere nell’animo
quel disagio, quella paura che lo avvertivano aver egli posto il piede
su terreno molto sdrucciolevole, e che bisognava camminare con molte
cautele per non cadere.


XXVI.

— Quello scritto, — così cominciò Ernesto Respetti, — io l’ho qui tutto
innanzi alla mente che non mi potrebbe essere di più se lo avessi in
effetto sotto gli occhi. Esso comincia così: «Ernesto, figliuol mio,
tu riparerai la colpa di tuo padre». Questa frase fa supporre che non
cominciasse qui lo scritto, e siccome quello che avete voi non è che
una metà del foglio, c’è da credere come cosa sicura, che nell’altra
metà, in quella che manca, ci fosse più diffusamente e con maggiori
spiegazioni narrata la cosa. Voi stesso poc’anzi vi siete lasciato
sfuggire di aver letto in capo al foglio le parole: «A mio figlio
Ernesto...»
Matteo interruppe:
— Scusi, è stato un modo di dire... la lingua che mi si è voltata...
Ho voluto dire che le prime parole erano quelle che ha ripetuto Lei
adesso: «Ernesto, figliuol mio...»
Il marchese non si diede per inteso di questa interruzione e continuò
col medesimo tono:
— Or dunque codesta altra metà del foglio dov’è andata? Dove l’avete?
Che cosa ne faceste?
— Ma le assicuro, signor marchese, che non c’era altro, che questo
foglio era tal quale....
Respetti continuava sempre nello stesso modo:
— Dietro la vostra medesima narrazione, niuno al mondo può averlo preso
fuori di voi; dacchè ve ne impadroniste, questo documento non è mai più
uscito dalle vostre mani. Dunque?...
— Che vuole ch’io le dica? Più che assicurarla...
Una specie d’ispirazione balenò alla mente del marchese. Il fatto delle
cinquantamila lire mandate da Albina a Giulio, fatto che la comparsa
della moglie era venuta a richiamargli, doveva fare supporre che la
contessina conoscesse il segreto, e come lo avrebbe conosciuto se non
per mezzo di Matteo? Il Respetti interruppe bruscamente le proteste
dell’usuraio e disse:
— Dunque voi l’avete sempre, e voi dell’altra metà di questo foglio vi
siete servito per minacciarne altri...
Matteo non fu tanto padrone di sè che un leggero turbamento non
comparisse sulla sua faccia; il marchese lo travide.
— E quest’altri è la stessa contessina Albina.
Il vecchio s’era già ricomposto.
— Ella può credere tutto quel che vuole, — rispose freddamente, —
ma io le affermo e le posso giurare che questo segreto riguardante
l’illustrissimo fu signor marchese, suo signor padre, non è conosciuto
che da me e ora da Lei.
— E se io interrogassi mia cugina?
Un nuovo balenìo di paura passò negli occhi dell’usuraio; ma fu ratto,
proprio come un lampo.
— Faccia pure, — rispose tranquillamente; — ma non ne avrà altro
effetto che di far conoscere a persona che ignora ciò che è meglio
continui ad ignorare.
Il marchese fu sul punto di parlare del denaro inviato misteriosamente
a Giulio; ma pensò tosto essere miglior prudenza il tacerne. Era un
bandolo per cui poteva riuscire a dipanar la matassa, e Matteo, se
messo in sull’avviso, poteva riuscire colle sue arti a farlo smarrire
e a ingarbugliar peggio le fila. Appoggiò di nuovo il gomito al
bracciuolo del seggiolone, la fronte alla mano, e stette raccolto in sè
e pensieroso.
Matteo credette aver riguadagnato il terreno che aveva sentito perduto;
gli disse sommesso, con voce lenta, quasi insinuante:
— Creda a me, signor marchese, è proprio meglio che ce la intendiamo
fra noi, così alla buona. Lei che gode, e meritamente, di tanta
autorità presso tutti i Sangré, può senza molto contrasto ottenere
quello che le domando... di cui la prego, la supplico. La contessina
è già dalla parte del conte di Camporolle; se ci si mette anche
Vossignoria, la vittoria è certa, e il giorno in cui i due sposi
partiranno pel viaggio di nozze io darò nelle stesse di lei mani questa
carta, di cui nessuno fuori di noi due tra i vivi conoscerà mai, nè
avrà mai conosciuta l’esistenza.
Respetti non si era mosso affatto mentre l’altro parlava; quando
il discorsetto fu finito, egli alzò il capo e volse la faccia verso
l’usuraio, con un’espressione, con uno sguardo di sì beffardo disprezzo
che il vecchio sentì un freddo venirgli nelle ossa e si conobbe vinto.
— E così, — disse il marchese con accento eguale all’espressione dello
sguardo e del volto, — voi per ammenda d’uno sventurato fallo di mio
padre, venite a propormi di commettere io una vigliacca, colpevole,
indegna azione: di tradire la fiducia de’ miei nobili parenti, di
aiutare un miserabile ad ingannarli, di vendere la sorte, la felicità
d’una adorabile fanciulla! Ma che cosa vi credete? Ma per chi mi
pigliate? Non sapete che motto della nostra famiglia e mio si è:
«Fa quel che devi, avvenga che può?» Io soffrirò, avrò qualche onta
nel confessare la debolezza di mio padre; ma avrei onta maggiore,
ma soffrirei di più nel macchiarmi dell’ignominia che mi proponete.
Or dunque, fate pur voi tutto quel che vi pare di quella carta onde
vi siete impadronito con una azione compagna delle tante vostre
scellerate, io compirò ad ogni modo il mio dovere.
Matteo fu invaso da un gran tremore interno; una vera disperazione gli
occupò l’animo; ma pure finse un contegno fermo e anzi fiero.
— È questa l’ultima sua parola, signor marchese?
— La è.
— Ci pensi bene... Deve sapere che io sono poi inesorabile.
Il marchese non rispose: Matteo camminò lentamente verso l’uscio.
— Se mi lascia uscire da questa stanza, — soggiunse, — avrà forse da
pentirsene amaramente.
Metteva già la mano, malvoglioso, sulla maniglia della serratura: il
marchese sorse in piedi, scattando, superbo, imponente, minaccioso e
con voce terribile gli disse:
— Ebbene, no, non vi lascierò uscire senza prima dirvi, che mentre
voi credete poter dominare la mia volontà perchè possedete un mio
segreto, sono io che ho in pugno voi conoscendo tal cosa che dareste le
vostre ricchezze perchè rimanesse celata, che può perdere il conte di
Camporolle.
Matteo impallidì.
— Come? — balbettò. — Che vuol dire?
E il marchese sempre più terribile:
— Diceste di voler essere inesorabile?... Sarò tale anch’io: e
pubblicherò che Alfredo non è solamente usurpatore d’un nome che non è
il suo, non è solamente figliuolo di nessuno.... è peggio: è figliuolo
d’un sordido usuraio, d’un vile ricattatore, d’una spia e d’un
falsario... è vostro figliuolo!
Il colpo fu sì forte pel vecchio che, mandato un grido soffocato, egli
barcollò e cadde mezzo svenuto sopra la sedia più vicina.
— Non è vero! Non è vero! — balbettò poi Matteo, facendosi forza per
riaversi: — sono menzogne, sono invenzioni, sono calunnie.... Ci sono
carte in regola.... ci sono documenti....
Il marchese lo interruppe a ripetergli quanto aveva udito dal Pancrazi.
Arpione si coprì colle mani la faccia. L’uomo insensibile, apatico,
inaccessibile ad ogni commozione, era questa volta colpito nella sua
parte più viva. L’opera della sua vita intiera, quella a cui aveva
consacrato ogni sua forza, ogni sua intelligenza, ogni sacrifizio
di sè, a un tratto era minacciata di distruzione; quando egli aveva
creduto di giungere al più eccelso trionfo, a tale che non aveva
neppure osato sognare, era appunto allora che ogni cosa stava per
rovinare, senza possibile rimedio. Ogni sua audacia in quel momento fu
persa; si sentì impotente a lottare, un inesprimibile accasciamento lo
prese; oh come avrebbe voluto potere colla sua morte distrurre quelle
prove inesorabili che gli si drizzavan contro! Si umiliò fino alla
vigliaccheria, pregò, supplicò in ginocchio; giurò che Alfredo, lui,
non sapeva nulla, era innocente di tutto; era un’anima nobile lui, era
degno di ogni stima, d’ogni rispetto, d’ogni distinzione lui; perchè
punirlo così crudelmente? Egli avrebbe trovato modo di farlo partire,
di allontanarlo anche per sempre; ma per carità ignorasse il giovane,
ignorasse sempre!... Il giovane, che pur era innocente, avrebbe
sofferto troppo, si sarebbe ucciso.... A lui, vecchio, tristo, reo,
imponesse qualunque espiazione, qualunque maggior pena, ma salvasse il
giovane.... Confessò quel che aveva fatto per imporre la sua volontà
ad Albina; diede al marchese la metà del foglio che ancora riteneva,
sottoscritta dal padre di lui; partì avendone promessa che per fatto
del Respetti nulla avrebbe trapelato di quanto egli aveva tanto
desiderio e bisogno di tener nascosto.
Quando fu solo, il marchese Ernesto Respetti-Landeri si lasciò andare
abbandonatamente sul seggiolone, vinto da un grandissimo dolore. Fino
allora, in presenza dell’avversario, nella lotta, egli non aveva avuto
neppur tempo a misurare, per così dire, la propria ferita: ma ora,
da solo, in faccia alla brutta realtà che aveva appresa, fissando
quella carta che teneva spiegata innanzi agli occhi con mano tremante,
sentiva tutta la gravità e la profondità del colpo ricevuto. Suo padre
aveva potuto commettere tal colpa! Non bastava adunque la nobiltà
dell’ambiente in cui si è nati, si è stati educati, si è vissuti, per
salvare da simili cadute? Suo padre, ch’egli aveva creduto leggero,
imprevidente, di poco senno, ma aveva stimato generoso, leale, di
rettitudine inappuntabile, di delicatezza veramente aristocratica,
suo padre aveva potuto scendere a tale bassezza! Sentiva un amaro
sconforto, una specie di esautorazione di tutto quello che aveva più
rispettato fino allora, un doloroso scetticismo venirlo a far dubitare
delle cose più sante e perfino di sè stesso. Un’ira intensa lo assalse;
dubitò della giustizia e della provvidenza; pensò le più sacrileghe
imprecazioni e bestemmie; poi a un tratto una nobile figura gli sorse
dinanzi, e il severo e sereno di lei sorriso lo tranquillò, lo assennò,
lo intenerì. Era la figura del conte-presidente, quale egli l’aveva
vista in tutti gli avvenimenti più gravi della vita, quale eragli stata
impressa in quell’ultimo colloquio avuto con lui, quale aveva baciato
religiosamente in fronte, pacata e sorridente sul letto di morte.
Questa figura pareva essergli stata evocata dalla scrittura franca,
un po’ grossa, chiara, a lettere staccate, che aveva dinanzi in quella
carta fatale; e gli sembrava udire amorevoli parole venirgli da quelle
labbra sempre atteggiate a serietà, eppure con espressione benigna.
— No, la nobiltà del sangue non basta a difenderci dal male, a vincere
le tentazioni; non dobbiamo mettere l’orgoglio a ritenerci superiori
alle fragilità dell’umana natura, sibbene a conservarci, colla
forza del volere, colla onestà della coscienza, sempre al di sopra
delle cedevolezze, che cominciano dall’errore e menano alla colpa.
L’educazione deve afforzare la tradizione per uniformare la nostra vita
alla vera nobiltà dell’anima, dei costumi e dell’intelletto. Siamo
orgogliosi del bene, superbi di rettitudine, rispettiamo in tutti il
valore dell’animo e dell’ingegno, riconosciamo in tutti quella che è la
vera nobiltà del merito, e perdoniamo a chi cade.
Perdoniamo! Questa santa, mite parola del perdono suonò proprio al
suo orecchio, come pronunziata al di fuori di lui, da una voce che gli
penetrava nel cuore, — quella di suo padre che implorava, quella del
conte-presidente che consigliava.
Ah prima di cedere alla tentazione, suo padre aveva pur sofferto
molto di certo! E quanto non doveva avere sofferto di poi, malato,
vedendo avvicinarglisi la morte, il pensiero del suo fallo davanti
a sè incessantemente e nell’impossibilità di ripararlo! Qual doveva
essere stato il suo spasimo quella sera in cui aveva fatto la terribile
confessione all’onestà e rettitudine incarnata del severo magistrato e
aveva voluto che questi scrivesse la dichiarazione che trasmetteva al
figliuolo il sacro legato di riparare al fallo paterno! Spasimo tale
che sotto la stretta di esso l’infelice era morto! Le lagrime vennero
alle ciglia sino allora asciutte, anzi riarse del marchese, si serrò
con ambe le mani la testa, ed esclamò fra sè con accento pieno di
pianto:
— Povero padre mio!
Sentì in quel punto due mani soavemente calde posarsi sulle sue,
cingergli con amorosa pressione il capo, due labbra posarglisi sulla
fronte, e una voce più soave, più amorevole di quell’ideale che aveva
sognato di udire, susurrargli dolcemente:
— Ernesto, tu hai un dispiacere: ti è piombato addosso un dolore? Oh
dammene la mia parte.
Il marchese sollevò il capo: gli stava dinanzi la sua degna compagna,
la marchesa Sofia.
A tutta prima, Ernesto Respetti pensò dissimulare ogni suo turbamento,
nascondere tutto alla moglie; ma ella gli vedeva pure ancora le lagrime
negli occhi, aveva pure udito l’esclamazione sfuggitagli dalle labbra;
impossibile persistere nel semplice diniego. Dire a quell’amorevole
creatura, che fino allora aveva partecipato ogni cosa di lui, e
avvenimenti e disegni e pensieri, a cui aveva sempre lasciato leggere
nel cuore, nella mente e nelle vicende della sua esistenza; dirle: è
un segreto che non ti voglio, che non ti posso comunicare, pareva anche
a lui poco meno di una colpa. Ma suo padre che avrebbe detto se avesse
saputo che il segreto confidato a suo figlio, questi avesse rivelato ad
altri? Altri! Ma no che non era altri costei sempre al fianco di lui,
vivente della medesima vita. Se il padre l’avesse conosciuta, buona,
savia, amorosa com’era, se avesse saputo quanta virtù, quanto affetto,
quanta delicatezza era in lei, l’avrebbe amata e ritenuta come una
figlia anch’essa; a lei pure, e forse ancora più volonteroso, avrebbe
aperto il suo animo.
Il marchese non esitò più, trasse a sè la moglie, se la fece sedere
presso presso, e poi tenendola abbracciata, la guancia appoggiata alla
spalla di lei, le labbra che quasi ne toccavano l’orecchio, le susurrò
tutta la storia dolorosa che aveva appreso poc’anzi.
La marchesa Sofia lo ascoltò attentamente, senza dir nulla, senza
interrompere mai, neppure con un gesto; quando egli ebbe finito, essa
lo abbracciò stretto stretto e lo baciò teneramente su quegli occhi,
che da tanti anni certo non avevano pianto e ora avevano versata una
lagrima sul fallo paterno.
— Hai ragione, — diss’ella; — povero padre!... Povero nostro padre!
Egli ha espiato col dolore.... a noi l’adempiere il suo mandato e
restituire....
Decisero di comune accordo che si confiderebbe tutto ai Sangré, anche
per levare d’ogni pena la povera Albina, e che insieme coi cugini si
sarebbe provveduto ad aggiustare nel miglior modo le faccende.
Respetti voleva recarsi subito quella stessa sera nel palazzo dei
Valneve, ad averci quella difficile e dolorosa spiegazione; ma la
marchesa, che lo vedeva già così abbattuto, così affranto per le troppo
forti emozioni sostenute, ne lo dissuase amorevolmente, lo pregò a
differire fino al domani, quand’egli avrebbe riavute le sue forze e
avrebbe potuto affrontare la pena d’un simile colloquio senza troppo
soffrirne. E nel difendere tal partito, l’amorosa donna seppe trovare
un argomento che più d’ogni altro valse a persuadere il marito. Per
fatti così importanti come quelli che stavano avvenendo, per una
spiegazione così grave qual’era quella che doveva aver luogo, poteva
dirsi una necessità che fosse presente il primogenito dei Sangré, il
vero capo attuale della famiglia. La presenza di lui veniva richiesta
eziandio dal minacciato duello fra Enrico e il Camporolle, ed egli,
Ernesto di Valneve, avrebbe avuto ogni ragione di dolersi che a lui non
si fossero tosto annunziate cose sì gravi e sì urgenti. Il Respetti
telegrafò al Maggiore delle Guardie a Genova, e il conte Ernesto
col primo treno del mattino successivo, inquieto e sollecito, volò a
Torino, arrivando a quell’ora in cui quindici giorni prima era giunto
per l’anniversario della morte del padre.


XXVII.

Per prima cosa Ernesto di Valneve apprese dal vecchio Tommaso la sfida
corsa fra il conte Alfredo e il cavaliere Enrico; interrogato subito
costui, n’ebbe tosto dalle risposte informazione compiuta del come
era avvenuta la contesa fra di loro e di tutto quanto riguardava quel
giovane, compresovi l’influsso esercitato da Matteo Arpione in modo
così misterioso sull’animo d’Albina, da indurla a consentire a quel
matrimonio ad ogni patto. Subito il Maggiore delle Guardie si occupò
del duello di Enrico: fu da coloro che avevano accettato di essergli
padrini, e seppe che di comune accordo fra loro e i rappresentanti
dell’avversario s’era stabilito che lo scontro non dovesse aver luogo
prima che si fosse appurata nettamente la condizione del sedicente
Camporolle: perchè era opinione di tutti e quattro quei gentiluomini,
che se vere fossero le accuse lanciate a quel giovane dal cavaliere
Enrico Sangré di Valneve, questi non doveva, non poteva accettare
come suo avversario in quella che si dice _quistione d’onore_ un uomo
simile; che se invece le si scoprissero false, allora il cavaliere,
mostrando la buona fede in cui era ammettendole per fondate, ne
esprimesse all’oltraggiato il suo rincrescimento e poi glie ne desse
riparazione e soddisfazione col duello. Allora Ernesto, rassicurato a
questo riguardo e promettendosi di entrarci anche lui nello svolgimento
di tale quistione e nel determinarne le conseguenze, cercò di venire
in chiaro del mistero che appariva aver legato la volontà della sorella
Albina a quelle del Camporolle e dell’Arpione. Andò dalla giovane e con
ogni arte, con ogni amorevolezza, con ogni lusinghevole supplicazione
la interrogò; resistendo ella sempre, minacciò di andar egli stesso
dall’Arpione e colla violenza, se occorreva, strappargli quel segreto
che la sorella non aveva tanta fiducia in lui da confidargli, come era
pure di lei dovere.
Albina si spaventò.
— No, no, per carità, — disse, — non tentarlo... Quell’uomo è
tristissimo, è inesorabile; può farci del male... ce lo farà certo...
Oh te ne prego in nome di nostra madre, a cui si darebbe un gran
dolore!
— Un male da quell’uomo a noi! — esclamò Ernesto. — Un gran dolore a
nostra madre!... Ma come? Ma quale?... Non capisci, Albina, ch’io ho
appunto il diritto di saper tutto per combattere... per impedire?...
T’ho pregata finora; ma adesso, coll’autorità del capo di famiglia,
ti ordino di parlare, te l’ordino in nome di nostro padre, e devi far
conto che sia egli stesso qui, ora, a comandartelo.
La povera fanciulla, agitatissima, turbata, smarrita, si coprì colle
mani la faccia.
— Nostro padre! — ripetè con accento di angoscia infinita: — ma è
appunto per lui... di lui...
S’interruppe sgomenta e pentita di aver detto troppo.
Ernesto insistè con ardore.
— Si tratta di nostro padre?...
— No, no: — gridò essa vieppiù conturbata.
— Sì, t’è sfuggita... È cosa che riguarda quella santa memoria: e tu
taci?.... Taci con me!...
— Ma se non posso parlare!... Se ho giurato!
— E io ti sciolgo da ogni giuramento, ne ho il diritto... Un giuramento
a quello scellerato d’Arpione, non può aver forza contro un sacro
dovere che t’incombe, contro una reale autorità che ti comanda.
— O mio Dio! O mio Dio! — gemette la fanciulla disperata.
Ma era al termine delle sue forze di resistenza: tanti giorni di
segreto affanno, di lotta con sè stessa, di violenza fatta ai suoi
sentimenti, l’avevano ormai sfinita; Ernesto insistendo sempre più
caldamente, ebbe alla fine ragione di quell’ultima resistenza e le
strappò il segreto.
Fu dapprima in lui un violento scoppio di sdegno — non contro la
sorella debole per ingenua e inesperta giovinezza, — ma contro Arpione
e anche contro Alfredo che in quel subito impeto sospettò complice
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