Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 12

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Marte, e quello fecioro scolpire di macigno a cavallo e armato, e
poserlo sopra una colonna in quel tempio il qual noi chiamiamo oggi San
Giovanni, e in quello fu onorato di riverenzia e di sacrifici mentre
in questa cittá perseverò il paganesimo; poi, essendo qui seminata
la veritá evangelica, e lasciato da’ cittadini, divenuti cristiani,
l’error gentilizio, fu questa statua di Marte tratta dal detto tempio.
E, percioché pure ancora sentivano alcuna cosa del pristino errore,
non la volloro disfare né gittar via, ma, fatto sopra la coscia del
ponte Vecchio un pilastro, la vi poser suso. [Comeché Giovanni Villani
scriva questa non essere stata la prima pòsta della statua di Marte
quando fu tratta del tempio detto, ma che egli fu posto sopra un’alta
torre vicina ad Arno; e questo fu fatto, percioché temevano d’alcuni
vaticíni de’ loro antichi, nelli quali si leggeva questa statua esser
fatta sotto costellazione che, qualora in meno che onorevole luogo
tenuta fosse, o fattole alcuna violenza, gran danno ne seguirebbe alla
cittá; e in su quella torre dimorò insino al tempo che Attila disfece
la cittá. E allora, o che la torre, sopra la quale era, cadesse, o
che per altra maniera sospinta fosse, questa statua di Marte cadde in
Arno, e in quello dimorò tanto, quanto la cittá si penò a redificare;
poi, riedificata al tempo dello ’mperio di Carlo magno, fu ripescata e
ritrovata, ma non intera, percioché dalla cintola insú la immagine di
Marte era rotta, e quella parte non si ritrovò mai; e, cosí diminuita,
dicono che fu posta, come di sopra è detto, sopra ad un pilastro in
capo del ponte Vecchio. Del quale poi, essendo negli anni di Cristo
milletrecentotrentatré, oltre al ricordo d’ogni uomo, non giá per molte
gran piove, ma per qual che cagion si fosse, cresciuto Arno, e tutta la
cittá avesse allagata, e giá i due inferiori ponti menatine, similmente
ne menò via il ponte Vecchio e il pilastro e la statua, la qual mai poi
né si ritrovò né si ricercò.]
Adunque in questa guisa tratta del tempio predetto la detta statua, fu
il tempio consecrato al vero Iddio, sotto il titolo di San Giovanni
Battista, ed esso san Giovanni fu assunto in lor padrone e protettore
da’ cittadini: e cosí fu «il primo padrone», cioè Marte, trasmutato in
san Giovanni.
«Ond’e’ per questo», essere stato Marte lasciato per san Giovanni,
«Sempre con l’arte sua la fará trista». In queste parole e nelle
seguenti tocca l’autore una opinione erronea, la qual fu giá in molti
antichi, cioè che, per la detta permutazione, Marte con guerre e con
battaglie, le quali aspettano all’«arte sua», cioè al suo esercizio,
abbia sempre poi tenuta questa cittá in tribulazione e in mala ventura.
[La qual cosa non è solamente sciocchezza, ma ancora eresia a credere
che alcuna costellazion possa nelle menti degli uomini porre alcuna
necessitá; né sarebbe della giustizia di Dio che alcuno, lasciando un
malvagio consiglio e seguendone un buono, dovesse per questo sempre
essere in fatica e in noia; ma si dee piú tosto credere che di molti
pericoli n’abbia la divina misericordia tratti, ne’ quali noi saremmo
venuti, se questa buona e santa operazione non fosse stata fatta da’
nostri passati. Poi séguita, continuandosi a quel che cominciato ha
a dire di questa iniqua opinione, dicendo:] «E se non fosse che ’n
sul passo d’Arno», cioè in sul pilastro sopra detto, «Rimane ancor
di lui», cioè di Marte, «alcuna vista», alcuna dimostrazione: e ben
dice «alcuna», percioché [come di sopra dissi,] questa statua [era
diminuita dalla cintola in su, senza che essa tutta] era per l’acque
e per li freddi e per li caldi molto rósa per tutto, tanto che quasi,
oltre al grosso de’ membri, né dell’uomo né del cavallo alcuna cosa
si discernea; e per quello se ne potesse comprendere, ella fu piccola
cosa, per rispetto alla grandezza d’uno uomo a cavallo, e di rozzo e
grosso maestro; «Que’ cittadin che poi la rifondârno», Firenze, «Sovra
’l cener che d’Attila rimase, Avrebber fatto lavorare indarno», cioè
invano.
Vuole adunque questo spirito mostrare quella pietra essere stata di
tanta potenza che, per l’esserle quella particella d’onor fatto,
cioè d’esser riservata e posta sopra quel pilastro, che ella abbia
conservata in essere la cittá nostra, poi che ella fu reedificata, la
quale altramenti, da che che caso si fosse avvenuto, sarebbe stata
disfatta e disolata. [Ma, come davanti è detto, a creder questo è
grandissima sciocchezza e peccato, percioché a Domeneddio appartiene la
guardia delle cittá, e non alle pietre intagliate, o ad alcun pianeto
o stella: e, se Domeneddio si ritrarrá dalla guardia d’alcuna, tutto
il cielo, né quanti pianeti sono o stelle, non la potranno conservare
un’ora.]
[Ma, percioché dice: «Sovra ’l cener che d’Attila rimase», è da sapere
che, essendo Attila, re de’ goti, passato in Italia, in esterminio e
ultima distruzione del nome romano, ed avendo molte cittá in Lombardia
e in Romagna giá guaste e disfatte, secondo che piace a Giovanni
Villani, esso passò in Toscana, dove similmente piú ne disfece, e tra
l’altre Firenze, la quale dice che occupò in questa maniera, che,
avendola per molto tempo assediata, e non potendola per forza prendere,
volse l’ingegno agl’inganni, e con molte e false promessioni prese gli
animi de’ cittadini, li quali, troppo creduli, sperando quello dovere
loro essere osservato che era promesso, il ricevettoro dentro alla
cittá, e per sua stanza gli assegnarono il Capitolio, nel quale esso
dopo alcuno spazio di tempo fece convocare un dí i maggiori cittadini
della terra, e quegli facendo passare d’una camera in un’altra, ad
uno ad uno tutti gli fece ammazzare, e i corpi loro gittare in una
gora, la quale dal fiume d’Arno dirivata, passava sotto il Capitolio.
Né di questo inganno alcuna cosa si sentia per la cittá, né per
avventura sarebbe sentita, se l’acqua della gora, al rimettere in
Arno, non si fosse veduta vermiglia del sangue degli uccisi: per che
giá facendone romore i cittadini, e Attila sentendolo, mandata fuori
del Capitolio certa quantitá di sua gente armata, comandò loro che ad
alcuno grande né piccolo, maschio né femmina perdonassono; e cosí,
quantunque molti chi qua e chi lá ne fuggissono, fu il rimanente de’
fiorentini crudelmente ucciso, e tra gli altri il vescovo di Firenze,
chiamato Maurizio, uomo di santissima vita. E, fatta questa occisione,
comandò che la cittá fosse tutta disfatta e arsa, e cosí fu ogni cosa
convertita in cenere e in favilla. E, secondo dice lo scrittore di
questa istoria, questo fu fatto il dí ventotto di giugno, l’anno di
Cristo quattrocentocinquanta, e, poi che ella era stata edificata,
cinquecentoventi anni.]
[Poi piú volte tentarono i discendenti de’ cittadini fuggiti di
doverla reedificare; ed essendo le lor forze piccole, sempre furono
impediti da’ fiesolani e da certi nobili uomini d’attorno, li quali
estimavano la reedificazion di quella doversi in lor danno convertire,
sí come poi avvenne. Ma pure, perseverando essi antichi cittadini in
questo volere, essendo imperador Carlo magno, mandarono chi supplicasse
in lor nome, e allo ’mperadore e al popolo di Roma, che con la lor
forza la cittá antica si potesse rifare. Ottennero la dimanda loro,
e, oltre a ciò, scrive Giovanni Villani che i romani mandarono molti
nobili della lor cittá a doverla riabitare; e cosí con la forza dello
’mperadore e de’ romani, e ancora de’ discendenti degli antichi
cittadini, che tutti a ciò concorsero, fu «sopra il cenere», cioè sopra
l’arsioni rimase d’Attila, reedificata Firenze, e abitata l’anno di
Cristo ottocentodue, all’entrata del mese d’aprile.]
Ultimamente questo spirito, avendo dimostrato di qual cittá fosse,
dice di che morte s’uccidesse, dicendo: «Io fe’ giubbetto», cioè
forche, «a me delle mie case»,—e cosí mostra s’impicasse per la gola
nella sua medesima casa: la quale dice avere a sé fatto «giubbetto»,
percioché cosí si chiama a Parigi quel luogo dove i dannati della
giustizia sono impiccati. Né è costui dall’autor nominato, credo per
l’una delle due cagioni: o per riguardo de’ parenti che di questo
cotale rimasero, li quali per avventura sono onorevoli uomini, e
perciò non gli vuole maculare della infamia di cosí disonesta morte;
ovvero, percioché in que’ tempi, quasi come una maladizione mandata da
Dio, nella cittá nostra piú se ne impiccarono, accioché ciascun possa
apporlo a qual piú gli piace di que’ molti.


II
SENSO ALLEGORICO

[Lez. LII]
«Non era ancor di lá Nesso arrivato», ecc. Avendo la ragione nel
superior canto mostrato all’autore qual sia la colpa di coloro, li
quali violenza usano nel prossimo o nelle sue cose, piú avanti per
lo settimo cerchio procedendo, gli dimostra a qual pena dannati son
coloro, li quali in se medesimi crudelmente adoperano, e le lor cose
bestialmente gittano e consumano, discrivendogli primieramente quegli
che contro a sé, uccidendosi, hanno bestialmente adoperato, essere
a perpetua pena dannati. E la pena è questa, che essi, dalla divina
giustizia gittati in inferno, quivi diventano salvatiche piante, e
che delli loro rami e frondi l’arpie schiantando si pascono: di che
intollerabile dolor sentono, il quale per quelle rotture con dolorosi
lamenti mandan fuori; dicendo ancora esse arpie sopra li loro rami fare
i nidi loro; e in accrescimento della lor doglia mostra loro essere
nella loro opinione privati della speranza di doversi di lor corpi
rivestire al dí del giudicio, come tutte l’altre faranno.
È adunque da sapere, accioché si conosca qual ragione movesse l’autore
a fingere l’anime di questi dannati convertirsi in piante, l’anime
nostre avere tre potenzie principali, delle quali è la prima potenzia
«vegetativa», la quale ne dá la natura come generati siamo, in quanto
cominciamo per questa potenza a prender nutrimento, per lo quale
l’esser nostro si conserva e aumenta: e in questa potenza comunichiam
noi con l’erbe e con gli alberi e con ogni altra creatura insensibile.
La seconda potenza è la «sensitiva», la quale l’anima nostra, avanti
che noi nasciamo, riceve dalla natura, in quanto noi cominciamo a
sentire e a muoverci nel ventre della nostra madre, comeché questa
potenzia non ci sia nel principio conceduta perfetta, ma poi in
processo di tempo, dopo il nostro nascimento, riceve perfezione; e in
questa potenzia comunichiamo noi con gli animali bruti, cioè con le
bestie e con gli uccelli e co’ pesci e con qualunque altro animale
ha sentimento. La terza e ultima potenzia è la «razionale», la quale
da Dio n’è infusa, e di singular grazia donata, dotata di ragione,
di volontá e di memoria, e gli effetti veri di questa potenzia non
appariscono in noi se non nella perfetta etá, percioché allora sono gli
organi, per li quali le sue virtú si dimostrano, compiuti ed espediti;
e in questa siamo simiglianti a Dio e con gli angeli comunichiamo.
Ora, percioché chi se medesimo uccide appare assai manifestamente aver
cacciato da sé e perduto ogni ordine di ragione e di sana volontá,
non pare che animale razional si possa chiamare, conciosiacosaché
l’animal razionale con ogni sollecitudine curi di conservare il suo
essere e di farlo sempre migliore, e a suo potere in piú lunghezza
di tempo distenderlo; come che d’alcuni si legge essersi giá uccisi,
non, _prima facie_, come bestiali, ma mossi da alcuna ragione, sí come
ne scrive Valerio Massimo, _De institutis antiquis_, di quella donna
antica, la qual diceva nel suo tempo non aver veduta contra di sé la
fortuna turbata, e però con volontaria morte volea pervenire a non
doverla vedere. Alcuni altri _ex proposito_ si sono uccisi per tedio
della presente vita, sperando di trapassare a migliore, sí come di
Catone uticense leggiamo, il quale, prima feditosi, e, sentito da’ suoi
servidori, aiutato e fasciato e ancora toltagli ogni materia da potersi
uccidere; leggendo nel mezzo del silenzio della notte quel libro, nel
quale Platone scrive _Della eternitá dell’anima_, sfasciatosi e con le
mani proprie ampliata la piaga, constrinse lo spirito ad abbandonare
il misero corpo. Alcuni altri ancora, non per tedio della presente
vita, ma per disiderio e con isperanza di migliore s’uccisono, sí
come si legge di coloro li quali, udita la dottrina di Ferecide in
Egitto, nella quale esso con tanta efficacia di sermone dimostrava
la beatitudine della vita futura, corsono inconsideratamente alla
morte. Ma con che cagione si muovesse qualunque si fosse, stoltamente
e bestialmente adoperarono: percioché, secondo ne dimostra Tullio nel
_Sogno di Scipione_, lo spirito «è da rendere e non da cacciare».
Puote adunque apparere, quelli cotali, che se medesimi uccidono, aver
perduto quello per che chiamati debbiamo essere «animali razionali».
Oltre a questo, percioché ogni animale non razionale ma sensibile,
quanto puote naturalmente fugge non solamente la morte, ma ogni passion
nociva, sí come contraria e nimica al senso; non pare che colui, il
quale contro a questa universal natura delle cose sensibili adopera, sí
come color fanno li quali se medesimi feriscono e uccidono, si possa
o si debba giustamente dire «sensibile animale». E percioché pure
animale è, resta ad essere animale di quella spezie, la qual non ha né
ragione né sentimento, cioè vegetativo. E perciò l’autore in forma di
vegetativo in questo luogo dimostra coloro che se medesimi uccisono,
cioè in forma d’albero: il qual discrive noderoso e avvolto e pieno di
stecchi, volendo per questo significare il nudrimento della potenzia
vegetativa essere stato in cosa del tutto trasvolta dalla ragione, e
contro ad ogni diritto sentimento aspra e spinosa.
Che l’arpie sieno loro cagione di doglia e di tormento, può esser
questa la ragione. Viene tanto a dire in latino questo vocabolo
«arpia», quanto «rapacitá» o «rapina»; e, percioché la cagione
della perdizion di queste anime è la rapina, la quale a se medesime
fecero della presente vita, uccidendosi; conoscendo esse ciò, e
rammemorandosene, se ne dolgono e attristano con perpetui guai; e cosí
questa rapina le fa dolorose, e ancora le costrigne a rammaricarsi
e a far sentire il suo rammarichío. E non solamente gli attristano
di questo, ma ancora, col toccar loro, gli rendon brutti e fetidi:
intendendo per questo l’abominevole atto della uccisione aver del tutto
ogni lor fama maculata e renduta orribile e biasimevole nel cospetto
delle genti. E in quanto fanno i nidi sopra le lor dolorose piante,
vuole mostrare cosí il lor dolore doversi continuamente aumentare,
come la quantitá de’ tormentatori s’accresce nidificando e figliando.
[Della loro erronea opinione è assai detto nella esposizion testuale.]
E questo sia detto quanto al senso allegorico di coloro che se medesimi
uccisono.
Resta a vedere della pena di coloro li quali bestialmente consumaron
le lor sustanzie, la qual dice che è l’essere i miseri da nere cagne
seguitati e sbranati e lacerati; la cui significazione è assai leggiere
a poter vedere, conciosiacosaché coloro li quali di ricchezza, per
lor male adoperare, vengono in estrema povertá, sia n continuamente
afflitti e stimolati, anzi nelle coscienze loro stracciati da
amarissime rimorsioni del lor bestialmente aver gittato quello che
dovea, quanto la lor vita durasse, sostentare e aiutare: e son questi
cotali o da tante cagne morsi, o in tante parti sbranati, quante sono
le passioni le quali lor sopravvengono per la loro inopia, sí come è
la fame, la sete, la indigenzia del vestimento, del calzamento, le
infermitá, i disagi, i rimproveri, le beffe, le quali di sé o veggono
o odon fare, o credon che fatte sieno. E son queste cagne tutte nere,
cioè tutte piene di tristizia, la qual per lo color nero è significata;
correnti e velocissime, in quanto subitamente, in qualunque parte
si sieno, gli giungono e affliggono, in tanto che esse fanno loro
spessissimamente disiderare e chiamar la morte. E questo basti alla
parte seconda.

CANTO DECIMOQUARTO
I
SENSO LETTERALE
«Poi che la caritá del natio loco», ecc. Assai è manifesta la
continuazione di questo canto col precedente, in quanto nella fine
del superiore scrive come pregato fosse da quello spirito, che diceva
aver fatto giubbetto a sé delle sue case, che esso raccogliesse i
rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano
lacerato Giacomo di Santo Andrea; e nel principio di questo mostra
come le raccogliesse. E poi, seguendo, dimostra in questo settimo
cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, li quali contro a Dio e
contro alle sue cose violenzia fecero. E dividesi il presente canto
in otto parti: nella prima discrive la qualitá del luogo, nel qual
dice sé esser venuto; nella seconda dice sé aver veduti greggi d’anime
dannate, e dimostra la pena loro; nella terza domanda d’alcun di que’
dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte; nella quarta
Virgilio piú pienamente gli dichiara chi è colui e di cui domandato
avea; nella quinta l’autore dice dove, ammonito da Virgilio, divenisse;
nella sesta Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali; nella
settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve;
nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio come dietro a lui vada.
La seconda comincia quivi: «O vendetta di Dio»; la terza quivi: «Io
cominciai:—Maestro»; la quarta quivi: «Poi si rivolse a me»; la quinta
quivi: «Or mi vien’ dietro»; la sesta quivi: «Tra tutto l’altro»; la
settima quivi: «Ed io ancor:—Maestro»; la ottava quivi: «Poi disse:
—Omai».
Dice adunque primieramente cosí: «Poi che la caritá», cioè l’amor,
«del natio loco», cioè della patria; percioché igualmente eravamo
amenduni fiorentini; «Mi strinse», ché altra cagione non v’era,
«ragunai le frondi sparte» per l’impeto delle cagne, le quali avevan
lacerato Giacomo da Santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del
precedente canto; «E rende’ le», secondo che pregato avea, «a colui»,
cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, «ch’era giá fioco», per
lo gridare e trar guai. «Indi», fatto questo, «venimmo al fine, onde si
parte Lo secondo giron dal terzo», che è all’uscire di questo bosco;
ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dello
’nferno; «e dove Si vede di giustizia orribil arte», cioè crudele e
rigida.
«A ben manifestar le cose nuove», se medesimo piú distintamente
parlando dichiara, e dice: «Dico che arrivammo ad una landa», cioè in
una parte di quella regione, dove erano, «Che dal suo letto», cioè dal
suo suolo, «ogni pianta rimuove»: e in questo dimostra sé esser uscito
del bosco e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del
settimo cerchio. «La dolorosa selva», della quale di sopra è detto,
«l’è ghirlanda», cioè circunda quella parte nella qual pervenimmo,
«Intorno, come il fosso tristo ad essa»; cioè, come la selva è
circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel
qual la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva
circunda il luogo, nel quale dice pervennero.
«Quivi fermammo i passi a randa a randa», cioè in su l’estrema parte
della selva e in su il principio della rena. «Lo spazzo», cioè il suolo
di quel luogo nel quale pervennero, «era una rena». È la rena una
terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanzia o grassezza
della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e,
secondo alcuni, è detta «arena» da «_areo ares_», che sta per «esser
secco e asciutto»; e da questo verbo mostra qui l’autor volere che
venga quella rena della quale fa menzione qui, percioché le pone per
adiettivo «arida». Altri dicono che ella viene da «_haereo haeres_»,
il quale sta per accostarsi, e, come i superiori, cosí costoro ancora
dicon bene; ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono
della rena bagnata, la quale, mentre è molle, s’accosta e appicca. Ma,
come detto è, quella della quale l’autore intende qui, è della spezie
prima. «Arida e spessa»; «arida» è l’uno degli aggettivi della rena,
come dicemmo, ma aggiugne «spessa», a dimostrare che in tutto il suolo
di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di
terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua. E, oltre a ciò, dice
che era «Non d’altra foggia fatta, che colei», cioè che quella rena,
«Che fu da’ piè di Caton giá soppressa».
Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale
dopo la sua morte fu cognominato «uticense», da una cittá di Barberia
chiamata Utica, nella quale esso se medesimo uccise. Fu adunque costui
romano uomo, d’alta e di singular virtú, ed ebbe maravigliosamente
in odio le maggioranze de’ cittadini; ed essendo giá nate tra Cesare
e Pompeo le discordie cittadine, seguí in quelle le parti di Pompeo,
non perché lui amasse, ma percioché il vide seguire al senato. Ed
essendo per avventura in Affrica, in un paese chiamato Cirene, il
quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo,
figliuolo di Pompeo magno, li quali in quelle contrade ragunavano
quegli li quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo stato giá
vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navili sopra i quali Pompeo
era andato in Egitto: e, avendo veduto uccider Pompeo, Cornelia, sua
moglie, e Sesto Pompeo, suo figliuolo, verso quella parte s’erano
rifuggiti. Da’ quali Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era
intervenuto: e perciò, ancora che il tempo fosse malvagio, Gneo si mise
con parte della gente, la quale avevano, in mare; e Catone, considerata
la qualitá del tempo, ché sopravveniva il verno, e ancora il mare
che era da navicare, che non era altro che secche, sí come ancora è
la costiera di Barberia; volendo pervenire in Numidia, dove sapeva
essere il re Giuba, il quale era pompeano; con tutti quelli delle parti
pompeane che con lui quivi rimasi erano, non essendo lor sicuro l’andar
troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene
di Libia. Le quali non solamente sono sterili e solitarie e piene di
serpenti e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono, per
lo calore del sole soprastante a quelle contrade, cocentissime e molto
malagevoli a dover camminare, percioché non senza gran fatica vi si
posson su fermare i piè di chi va. Or nondimeno la virtú di Catone fu
tanta, che, quantunque le rene fossero molto cocenti e piene d’ogni
disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito, dopo il
secondo mese, nella cittá di Letti in Barberia, e quivi vernò con esso.
Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante e buone
e vere; ma, percioché di lui pienamente si scriverá nel primo canto
del _Purgatorio_, qui a piú dirne non mi distendo. Fu adunque
ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò,
alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò.
[Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per
tutti si tenga, ogni cosa, la quale è infra ’l cielo della luna e la
terra, essere stata dalla natura prodotta ad uso e utilitá dell’umana
generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare,
considerata la qualitá del paese arenoso poco avanti discritto;
percioché quello ad alcuno uso non è abile né utile quanto è agli
uomini, percioché egli è sterile, né pianta né criatura vi vive, se
giá serpenti non fossero, li quali sono nemici degli uomini. A questa
opposizione, comeché alla nostra materia non paia che appartenga, si
potrebbe per avventura cosí rispondere: esser vero nulla cosa essere
stata dalla natura prodotta se non ad utile uso dell’umana generazione;
ma di queste alcune per vari accidenti esserne divenute disutili, poi
che prodotte furono, sí come è la predetta regione arenosa, e alcune
altre in Asia simiglianti a quella: e però quello, che per accidente
addiviene, non è difetto della natura, sí come ne’ nostri medesimi
corpi noi possiam vedere, li quali il piú la natura produce sani e in
buona abitudine, e noi poi, col disordinatamente vivere, corrompiamo e
facciamo infermi.]
[E che non opera della natura, ma d’accidente, fosse l’essere Libia
arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere, come altra
volta è stato detto. Estimano certi molto antichi che giá fosse tempo
che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo, non fosse, ma che,
per opera d’Ercule, in ponente un monte il quale era continuo insieme
d’alcun promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna,
e oggi è chiamato monte Gibeltaro, e d’un promontorio, il quale è
dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una cittá
chiamata Setta, si rompesse; e per quella rottura si desse la via al
mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e
avere occupato grandissima quantitá del mondo occidentale. Alla qual
cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere
convenuto che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si
sia riempiuto: convenne adunque che d’alcuna altra parte del mondo
piú rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e,
partendosi, lasciassero alcuna parte della terra, la qual coprivano,
scoperta, e alcuna parte del mare, la quale era molto profonda, meno
profonda. E di quelle parti della terra, che scoperte rimasero, si può
credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le
quali arenose si truovano, e cosí ancora di quelle d’Asia. E che ciò
possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che
Pomponio Mela scrive nella sua _Cosmografia_, nella quale, parlando
della provincia o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di
quello trovarsi molte conche marine, ed essersi giá trovate ancore
e altri strumenti nautici, sí come talvolta nel mare da’ navicanti
gittati si lasciano, per tempesta o per altri casi: le quali cose assai
ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare. E perciò,
venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella
contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione,
ma essere per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per
accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e
non atta all’uso umano.]
[Lez. LIII]
«O vendetta di Dio». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
nella quale, poiché l’autore ha discritta la qualitá del luogo nel
quale pervenne, dimostra sé aver vedute greggi d’anime dannate, e
dimostra similmente la pena loro. Dice adunque: «O vendetta di Dio».
[Questo vocabolo «vendetta» usa impropriamente l’autore, sí come molti
altri fanno; percioché vendetta propriamente è quella che gli uomini
disiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno, o par loro avere, da
alcun ricevuta; il qual disiderio non può cadere in Dio, percioché
Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenzia perfettissima,
stabile ed eterna, e perciò in esso non può alcuna passione aver
luogo. Ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e
assai son di quegli che scioccamente quello stiman di lui, che di se
medesimi fanno, cioè che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore,
che egli si vendichi. Ed egli non è cosí. È il vero che le nostre non
buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali
insurge la sua giustizia; e questa, di sua natura, non come commossa
da alcuna passione, secondo i meriti ritribuisce a ciascuno; e perciò,
se per le sue malvagie opere ad alcuno avviene men che bene, noi
diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la qual, propriamente parlando,
è l’operazion della divina giustizia. Vuolsi adunque questo vocabol
«vendetta» intendere in questo luogo «giustizia di Dio».]
«Quanto tu déi Esser temuta da ciascun che legge», nel presente libro,
«Ciò che fu manifesto agli occhi miei», de’ tuoi effetti! «D’anime nude
vidi molte gregge», cioè molte brigate, molte schiere, «Che piangien
tutte assai miseramente». Qui, posta la general pena di tutte, discende
alle particularitá, dicendo: «E parea posta lor», dalla giustizia,
«diversa legge».
E, venendo a dir quale, séguita: «Supin giaceva in terra alcuna
genta», cioè parte di queste molte; e dice giacevan «supine», cioè col
viso volto insú; «Alcuna», parte di questa molta gente, «si sedea tutta
raccolta», con le gambe raccolte sotto l’anche, «Ed altra», parte di
questa gente, «andava continuamente. Quella che giva intorno era piú
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