Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 16

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la ordinaria regola della natura e ancora delle leggi canoniche, si
congiungono insieme. Commettesi ancora quando con alcuno animal bruto
o l’uomo o la femmina si pone; la qual cosa non solamente a Dio, ma
ancora agli scellerati uomini è abominevolissima. E però dobbiam
credere che, secondo che in questo piú e men gravemente si pecca, cosí
i peccatori dalla divina giustizia essere piú e men gravemente puniti,
e distintamente. E, percioché ser Brunetto vide venir gente, o piú o
meno peccatori che si fosser di lui, dice che con loro esser non dee.]
E, dovendosi partire dall’autore, ultimamente gli dice: «Sieti
raccomandato il mio _Tesoro_», cioè il mio libro, il quale io composi
in lingua francesca, chiamato _Tesoro_: e questo vuole gli sia
raccomandato in trarlo innanzi, e in commendarlo e onorarlo, estimando
quello alla sua fama esser fatto nella presente vita, che al suo
libro si fa. E in questo possiam comprendere quanta sia la dolcezza
della fama, la quale, ancorché in inferno siano dannati i peccatori,
né sperino mai quassú tornare, né d’inferno uscire, è pure da loro
disiderata. E séguita la cagione perché, dove dice: «Nel quale io
vivo ancora»; volendo per questo dire che, dove perduto fosse questo
libro o non avuto a prezzo, niun ricordo sarebbe di lui. E per questo
possiam vedere la fama essere una vita di molti secoli, e, quasi,
dalla presente, nella quale secondo il corpo poco si vive, separata,
e similmente dalla eterna, nella quale mai non si muore. [E questo
fa direttamente contro a molti, li quali scioccamente dicono che la
poesia non è facultá lucrativa: percioché in questo dimostrano due loro
grandissimi difetti, de’ quali l’uno sta nello sciocco opinare che non
sia guadagno altro che quello che empie la borsa de’ denari; e l’altro
sta nella dimostrazion certissima che fanno, di non sentire che cosa
sia la dolcezza della fama. E perciò m’aggrada di rintuzzare alquanto
l’opinione asinina di questi cotali.]
[Empiono la borsa o la cassa l’arti meccaniche, le mercatanzie, le
leggi civili e le canoniche; ma queste, semplicemente al guadagno
adoperate, non posson prolungare, né prolungano un dí la vita al
guadagnatore, sí come quelle che dietro a sé non lasciano alcuna
ricordanza o fama laudevole del guadagnatore. Ricerchinsi l’antiche
istorie, ispieghinsi le moderne, scuotansi le memorie degli uomini,
e veggasi quello che di colui, il quale ha atteso ad empiere l’arche
d’oro e d’argento, si truova. Truovasi di Mida, re di Frigia, con
grandissimo suo vituperio; truovasi di Serse, re di Persia, con molta
sua ignominia; truovasi di Marco Crasso, con perpetuo vituperio del
nome suo: e questo basti aver detto dell’antiche. Delle piú ricenti non
so che si truovi. Stati sono, per quel che si crede, nella nostra cittá
di gran ricchi uomini: ritruovisi, se egli si può, il nome d’alcuno che
giá è cento anni fosse ricco. Egli non ci se ne troverá alcuno, e, se
pure alcun se ne trovasse, o in vergogna di lui si troverá, come degli
antichi, o lui per le ricchezze non esser principalmente ricordato. Per
la qual cosa appare questi cotali avere acquistata cosa che insieme col
corpo e col nome loro s’è morta e convertita in fummo, quasi non fosse
stata.]
[Ma a veder resta quello che della poesia si guadagni, la quale essi
dicono non essere lucrativa, credendosi con questo vituperarla e
farla in perpetuo abominevole. La poesia, la qual solamente a’ nobili
ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è appresa, non
dirizza l’appetito ad alcuna ricchezza, anzi quelle, sí come pericoloso
e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle
celestiali invenzioni ed esquisite composizioni, in quelle con ogni
sua potenzia, che l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome
del suo divoto componitore. E, se eterno far noi puote, gli dá almeno
per premio della sua fatica quella vita, della qual di sopra dicemmo,
lunga per molti secoli, rendendolo celebre e splendido appo i valorosi
uomini, sí come noi possiamo manifestissimamente vedere e negli antichi
e ancor ne’ moderni. E’ son passati oltre a duemila secento anni che
Museo, Lino e Orfeo vissero famosi poeti; e, quantunque la lunghezza
del tempo e la negligenzia degli uomini abbiano le loro composizioni
lasciate perire, non hanno potuto per tutto ciò li loro nomi occultare
né fare incogniti, anzi in quella gloriosa chiarezza perseverano, che
essi, mentre corporalmente vivean, faceano. Omero, poverissimo uomo e
di nazione umilissima, fu da questa in tanta sublimitá elevato, ed è
sempre poi stato, che le piú notabili cittá di Grecia ebbero della sua
origine quistione: i re, gl’imperadori, e’ sommi prencipi mondani hanno
sempre il suo nome quasi quello d’una deitá onorato, e infino a’ nostri
dí persevera, con non piccola ammirazione di chi vede e legge i suoi
volumi, la gloria della sua fama.]
[Io lascerò stare i fulgidi nomi d’Euripide, d’Eschilo, di Simonide,
di Sofocle e degli altri che fecioro nelle loro invenzioni tutta Grecia
maravigliare, e ancor fanno; e similmente Ennio brundisino, Plauto
sarsinate, Nevio, Terenzio, Orazio Flacco, e gli altri latini poeti,
li quali ancora nelle nostre memorie con laudevole ricordazion vivono;
per non dire del divin poeta Virgilio, il cui ingegno fu di tanta
eccellenzia, che, essendo egli figliuolo d’un lutifigolo, con pari
consentimento di tutto il senato di Roma, il quale allora alle cose
mondane soprastava, fu di quella medesima laurea onorato che Ottavian
Cesare, di tutto il mondo imperadore. E di tanta eccellenzia furono e
sono l’opere da lui scritte, che non solamente ad ammirazion di sé,
e in favore della sua fama, li prencipi del suo secolo trassero, ma
esse hanno con seco insieme infino ne’ dí nostri fatta non solamente
venerabile Mantova, sua patria, ma un piccol campicello, il quale i
mantovani affermano che fu suo, e una villetta chiamata Piectola,
nella quale dicon che nacque, fatta degna di tanta reverenzia, che
pochi intendenti uomini sono che a Mantova vadano, che quella quasi un
santuario non visitino e onorino.]
[E, accioché io a’ nostri tempi divenga, non ha il nostro carissimo
cittadino e venerabile uomo, e mio maestro e padre, messer Francesco
Petrarca, con la dottrina poetica riempiuta ogni parte, dove la lettera
latina è conosciuta, della sua maravigliosa e splendida fama, e messo
il nome suo nelle bocche, non dico de’ prencipi cristiani, li quali i
piú sono oggi idioti, ma de’ sommi pontefici, de’ gran maestri, e di
qualunque altro eccellente uomo in iscienzia? Non il presente nostro
autore, la luce del cui valore per alquanto tempo stata nascosa sotto
la caligine del volgar materno, è cominciato da grandissimi letterati
ad esser disiderato e ad aver caro? E quanti secoli crediam noi
che l’opere di costoro serbin loro nel futuro? Io spero che allora
perirá il nome loro, quando tutte l’altre cose mortali periranno.
Che dunque diranno questi nostri, che solamente alloccano il denaio?
Diranno che la poesia non sia lucrativa, la quale dá per guadagno
cotanti secoli a coloro che a lei con sincero ingegno s’accostano, o
diranno che pur l’arti meccaniche sien quelle delle quali si guadagna?
Vergogninsi questi cotali di por la bocca alle cose celestiali da lor
non conosciute, e intorno a quelle s’avvolghino, le quali appena dalla
bassezza del loro ingegno son da loro conosciute! e negli orecchi
ricevano un verso del nostro venerabil messer Francesco Petrarca:
_Artem quisque suam doceat, sus nulla Minervam._
Ora, come io ho detto de’ poeti, cosí intendo di qualunque altro
componitore in qualunque altra scienza o facultá, percioché ciascuno
meritamente nelle sue opere vive.] E questa è quella vita nella quale
ser Brunetto Latino dice che ancor vive, cioè nella composizion del suo
_Tesoro_, avendo per morte quella vita nella quale vive lo spirito suo.
Poi segue: «e piú non cheggio»;—quasi dica: questo mi sará assai.
«Poi si rivolse»; detto questo, «e parve di coloro, Che corrono a
Verona ’l drappo verde Per la campagna». Secondo che io ho inteso, i
veronesi per antica usanza fanno in una lor festa correre ad uomini
ignudi un drappo verde, al qual corso, per téma di vergogna, non si
mette alcuno se velocissimo corridor non si tiene; e, percioché,
partendosi ser Brunetto dall’autore, velocissimamente correa,
l’assomiglia l’autore a questi cotali che quel drappo verde corrono:
e, accioché ancora piú veloce il dimostri, dice: «e parve di costoro»,
cioè di quegli che corrono, «Quegli che vince», essendo davanti a tutti
gli altri, «e non colui che perde», rimanendo addietro.
L’allegoria del presente canto, cioè, come la pena, scritta per
l’autore che a questi che peccarono contra natura è data, si conformi
con la colpa commessa, si dimostrerá nel diciassettesimo canto, dove si
dirá di tutta questa spezie de’ violenti.


CANTO DECIMOSESTO

[Lez. LVIII]
«Giá era il loco, ove s’udia il rimbombo». ecc. Continuasi il
presente canto al superiore, in questa guisa: noi dobbiamo intendere
che, partito ser Brunetto, l’autore e Virgilio incontanente con piú
veloce passo cominciarono a continuare il lor cammino; il quale
continuando, mostra l’autore, nel principio del presente canto, loro
esser pervenuti in quella parte, dove il fiumicello, su per l’argine
del quale andavano, cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno; e quindi
séguita, discrivendo quello che, in quella parte, dove pervennero,
vedesse. E dividesi il presente canto in nove parti: nella prima per
alcun segno dimostra il luogo dove venissero; nella seconda dice come
tre ombre, di lontano correndo verso loro, gli chiamavano; nella terza
dice come Virgilio gl’impone che aspetti tre ombre le quali il venivan
chiamando; nella quarta scrive chi questi tre fossero; nella quinta
dimostra quello che esso alle tre ombre dicesse; nella sesta dimostra
una domanda fatta da loro e la sua risposta; nella settima pone un
priego fattogli da loro e la lor partita; nella ottava come, piú avanti
procedendo, trovarono la caduta di quel fiumicello; nella nona pone
come, per opera di Virgilio, la Fraude venisse alla riva, alla quale
essi erano pervenuti. E comincia la seconda quivi: «Quando tre ombre»;
la terza quivi: «Alle lor grida»; la quarta quivi: «Ricominciâr, come
noi»; la quinta quivi: «S’io fossi»; la sesta quivi:—«Se lungamente»;
la settima quivi:—«Se l’altre volte»; la ottava quivi: «Io il
seguiva»; la nona quivi: «Io avea una».
Comincia adunque cosí: «Giá era il loco», al quale pervenuti eravamo,
«ove s’udia il rimbombo Dell’acqua», cioè di quel fiumicello del
quale ha detto di sopra; e chiamiam noi «rimbombo» quel suono, il
quale rendono le valli, d’alcun suono che in esse si faccia; e questo
rimbombo, perché l’acqua di quel fiumicello «cadea nell’altro giro»,
cioè nel cerchio ottavo dello ’nferno; il quale rimbombo, dice
l’autore, era «Simile a quel che l’arnie fanno rombo», cioè era simile
a quel rombo che l’arnie fanno, cioè gli alvei o i vasi ne’ quali le
pecchie fanno li lor fiari, il quale è un suon confuso, che simigliare
non si può ad alcun altro suono.
«Quando tre ombre». Qui comincia la seconda parte di questo canto,
nella qual, poi che l’autore ha discritto il luogo dove pervenuti
erano, dice come Virgilio gl’impose che aspettasse tre ombre, le
quali il venivan chiamando, e dice cosí: «Quando tre ombre insieme
si partîro, Correndo», verso loro, «d’una turba», d’anime, «che
passava», ivi vicino a loro, «Sotto la pioggia dell’aspro martíro»,
cioè di quelle fiamme. «Venían ver’ noi», correndo; «e ciascuna
gridava:—Sóstati tu, che all’abito ne sembri Essere alcun di nostra
terra prava»,—cioè di Firenze. E puossi in queste parole comprendere,
in quanto dicono che «all’abito ne sembri», che quasi ciascuna cittá
aveva un suo singular modo di vestire distinto e variato da quello
delle circunvicine; percioché ancora non eravam divenuti inghilesi né
tedeschi, come oggi agli abiti siamo.
«Aimè! che piaghe», cotture, come hanno quegli che con le tenaglie
roventi sono attanagliati, «vidi ne’ lor membri, Ricenti e vecchie,
dalle fiamme accese», fatte. «Ancor men duol, pur ch’io me ne
rimembri», cioè ricordi. Suole l’autore nelle parti precedenti sempre
mostrarsi passionato, quando vede alcuna pena, della quale egli si
sente maculato: non so se qui si vuole che l’uomo intenda per questa
compassione avuta di costoro, che esso si confessi peccatore di questa
scellerata colpa; e però il lascio a considerare agli altri.
«Alle lor grida», le quali chiamando facevano, «il mio dottor
s’attese»; e, conosciutigli, «Volse il viso ver’ me, e:—Ora
aspetta,—Disse;—a costor si vuole esser cortese», cioè d’aspettargli
e d’udirgli. E in ciò mostra sentire costoro essere uomini autorevoli
e famosi, li quali, quantunque dannati sieno, nondimeno quelle cose,
che valorosamente operarono, gli fanno degni d’alcuna onorificenza. E
poi segue: «E se non fosse il fuoco che saetta La natura del luogo», sí
come la divina giustizia vuole, «io dicerei che meglio stesse a te»,
andando loro incontro, «ch’a lor la fretta»,—di correr verso di te.
«Ricominciâr, come noi ristemmo, ei», cioè essi, «L’antico verso», cioè
chiamandoci; «e, quando a noi fûr giunti, Fêro una ruota di sé tutti e
trei».
«Qual soleano i campion far nudi ed unti, Avvisando lor presa e lor
vantaggio». Usavano gli antichi, e massimamente i greci, molti giuochi
e di diverse maniere, e questi quasi tutti facevano nelli lor teatri,
accioché da’ circunstanti potessero esser veduti; e quella parte del
teatro, dove questi giuochi facevano, chiamavan «palestra». E tra
gli altri giuochi, usavano il fare alle braccia, e questo giuoco si
chiamava «lutta». E a questi giuochi non venivano altri che giovani
molto in ciò esperti, e ancora forti e atanti delle persone, e
chiamavansi «atlete», li quali noi chiamiamo oggi «campioni»; e, per
potere piú espeditamente questo giuoco fare, si spogliavano ignudi,
accioché i vestimenti non fossero impedimento o vantaggio d’alcuna
delle parti; ed, oltre a questo, accioché piú apertamente apparisse
la virtú del piú forte, s’ugnevan tutti o d’olio o di sevo o di
sapone: la quale unzione rendeva grandissima difficultá al potersi
tenere, percioché ogni piccol guizzo, per opera dell’unzione, traeva
l’uno delle braccia all’altro; e cosí unti, avanti che venissero al
prendersi, si riguardavan per alcuno spazio, per prendere, se prender
si potesse, alcun vantaggio nella prima presa. E questo è ciò che
l’autore in questa comparazione vuol dimostrare.
E poi, per compiere la comparazion, segue: «Prima che sien tra lor
battuti e punti». Parla qui l’autore _metaphorice_, percioché a questo
giuoco non interviene alcuna battitura o puntura corporale, ma mentale
puote intervenire, in quanto colui, che ha il piggior del giuoco, è
battuto e punto da vergogna.
Poi segue: «Cosí, rotando», volgevansi questi tre in modo di ruota,
per non istar fermi, e come che si volgessono, sempre tenevano il viso
vòlto verso l’autore e con lui parlavano; e questo è quello che vuol
dire: «ciascuna il visaggio Drizzava a me; sí che ’n contrario il collo
Faceva a’ piè continuo viaggio»; in quanto il collo si torceva verso
l’autore, ove i piedi talvolta si volgevano, e secondo che il moto
circulare richiedeva, verso il sabbione.
E, cosí rotandosi, cominciò l’un di loro a dire all’autore:—«E se
miseria d’esto luogo sollo», cioè non tanto fermo, percioché di sopra
la rena, la quale è di sua natura rara, è malagevole a fermare i piedi;
«Rende in dispetto noi», facendoci parere degni d’essere avuti poco a
pregio, e per conseguente, «e’ nostri prieghi,—Cominciò l’uno», di
loro a dire, e, oltre a ciò,—«il tristo aspetto e brollo», in quanto
siamo dal continuo fuoco cotti e disformati; ma, non ostante questa
deformitá, «La fama nostra», la qual di noi nel mondo lasciammo, «il
tuo animo pieghi», a compiacerne di questo, cioè «A dirne chi tu se’,
che i vivi piedi Cosí sicuro per lo ’nferno freghi»; quasi voglia dire:
percioché questo ne fa assai maravigliare.
E, accioché esso renda l’autore liberale a dover far quello che
addomanda, prima che la risposta abbia di ciò, che egli addomanda,
nomina i compagni suoi e sé, dicendo: «Questi, l’orme di cui pestar mi
vedi», dice di colui che davanti gli andava, l’orme del quale conveniva
a lui, che il seguiva correndo, pestare, cioè scalpitare, «Tutto»,
cioè posto, «che nudo e dipelato vada», percioché le fiamme, le quali
cadevano accese, gli avevano tutta arsa la barba e’ capelli, e però
dice «dipelato»; «Fu di grado maggior», di nobiltá di sangue e di stato
e d’operazioni, «che tu non credi», vedendolo cosí pelato e cotto:
«Nepote fu della buona Gualdrada», cioè figliuolo del figliuolo di
questa Gualdrada, e cosí fu nepote.
Questa Gualdrada, secondo che soleva il venerabile uomo Coppo di
Borghese Domenichi raccontare, al qual per certo furono le notabili
cose della nostra cittá notissime, fu figliuola di messer Bellincion
Berti de’ Ravignani, nostri antichi e nobili cittadini: ed essendo per
avventura in Firenze Otto quarto imperadore, e quivi per farla piú
lieta della sua presenza andato alla festa di San Giovanni, avvenne che
insieme con l’altre donne cittadine, sí come nostra usanza è, la donna
di messer Berto venne alla chiesa, e menò seco questa sua figliuola,
chiamata Gualdrada, la quale era ancor pulcella. E postesi da una parte
con l’altre a sedere, percioché la fanciulla era di forma e di statura
bellissima, quasi tutti i circunstanti si rivolsero a riguardarla, e
tra gli altri lo ’mperadore, il quale, avendola commendata molto e di
bellezza e di costumi, domandò messer Berto, il quale era davanti da
lui, chi ella fosse. Al quale messer Berto, sorridendo, rispose:—Ella
è figliuola di tale uomo, che mi darebbe il cuore di farlavi basciare,
se vi piacesse.—Queste parole intese la fanciulla, sí era vicina a
colui che le dicea, e, alquanto commossa della opinione che il padre
aveva mostrata d’aver di lei, che ella, quantunque egli volesse, si
dovesse lasciar basciare ad alcuno men che onestamente; levatasi in
piede, e riguardato alquanto il padre, e un poco per vergogna mutata
nel viso, disse:—Padre mio, non siate cosí cortese promettitore della
mia onestá, ché per certo, se forza non mi fia fatta, non mi bascerá
mai alcuno, se non colui il quale mi darete per marito.—Lo ’mperadore,
che ottimamente la ’ntese, commendò maravigliosamente le parole e la
fanciulla, affermando seco medesimo queste parole non poter d’altra
parte procedere che da onestissimo e pudico cuore; e perciò subitamente
venne in pensiero di maritarla. E, fattosi venir davanti un nobil
giovane chiamato Guido Beisangue, che poi fu chiamato conte Guido
vecchio, il quale ancora non avea moglie, e lui confortò e volle che la
sposasse: e donògli in dote un grandissimo territorio in Casentino e
nell’Alpi, e di quello lo intitolò conte. E questi poi di lei ebbe piú
figliuoli, tra’ quali ebbe il padre di colui di cui qui si ragiona, il
quale volle che nominato fosse Guido, percioché il primo suo figliuolo
fu. E, percioché questa Gualdrada fu valorosa e onorabile donna, la
cognomina qui l’autor «buona»; e perciò da lei dinomina il nipote,
perché per avventura estimò lei essere stata donna da molto piú che il
marito non fu uomo.
Appresso questo, dice l’autore il nome di questo nepote della
Gualdrada, dicendo: «Guido Guerra ebbe nome». Il sopranome di questo
Guido si crede venisse da un disiderio innato d’arme, il quale si dice
che era in lui, d’esser sempre in opere di guerra. «Ed in sua vita Fece
col senno assai e con la spada».
Ragionasi che questo Guido Guerra fosse col re Carlo vecchio, quando
combatté col re Manfredi, e che con ottimi consigli, e poi con la spada
in mano, egli adoperasse molto in dare opera alla vittoria, la quale
ebbe il re Carlo; senzaché, in altre simili vicende, sempre si portò,
dovunque si trovò, valorosamente; per la qual cosa la fama sua s’ampliò
molto.
«L’altro, ch’appresso me la rena trita», cioè scalpita, «È Tegghiaio
Aldobrandi, la cui voce», cioè nominanza o fama, «Nel mondo sú dovrebbe
esser gradita», percioché furon l’opere sue laudevoli.
Fu costui messer Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, cavaliere di
graride animo e d’operazion commendabili e di gran sentimento in opera
d’arme; e fu colui, il quale del tutto sconsigliò il comun di Firenze
che non uscisse fuori a campo, ad andare sopra i sanesi; conoscendo,
sí come ammaestratissimo in opera di guerra, che danno e vergogna
ne seguirebbe, se contro al suo consiglio si facesse; dal quale non
creduto né voluto, ne seguí la sconfitta a Monte Aperti.
«Ed io, che posto son con loro in croce», cioè a questo tormento,
«Iacopo Rusticucci fui». Fu costui messer Iacopo Rusticucci, il qual
non fu di famosa famiglia, ma, essendo ricco cavaliere, fu tanto ornato
di belli costumi e pieno di grande animo e di cortesia, che assai ben
riempie’ dove, per men notabile famiglia, pareva vòto.
«E certo La fiera moglie, piú ch’altro, mi nuoce», in ciò che io sia
dannato a questo tormento. Dicono alcuni che costui ebbe per moglie una
donna tanto ritrosa e tanto perversa, e di sí nuovi costumi e maniere,
come assai spesso ne veggiamo, che in alcuno atto con lei non si poteva
né stare né vivere; per la qual cosa il detto messer Iacopo, partitosi
da lei, stimolandolo l’appetito carnale, egli si diede alla miseria di
questo vizio. [E questo si può credere che facesse, quella vergogna
temendo, che i cherici mostrano di temere, piú del biasimo degli uomini
curando che dell’ira di Dio; e per quello acquistò di dovere nella
perdizione eterna avere questo supplicio.]
[Non deono adunque gli uomini esser molto correnti a prender moglie,
anzi deono con molto avvedimento a ciò venire, percioché, dove elle
si deono prendere per aver figliuoli e consolazione e riposo in casa,
assai spesso avviene che, per lo strabocchevolmente gittarsi a prender
qualunque femmina, l’uomo si reca in casa fuoco inestinguibile e
battaglia senza triegua. Recita san Geronimo in un libro, il quale
egli compose Contro a _Gioviniano eretico_, che Teofrasto, il qual fu
solenne filosafo e uditore d’Aristotile, compose un libro il qual si
chiama _De nuptiis_, e in parte di quello domanda se il savio uomo
debba prender moglie. E avvegnaché egli, a se medesimo rispondendo,
dicesse dove ella sia bella, ben costumata e nata d’onesti parenti, e
se esso fosse sano e ricco, il savio alcuna volta poterla prendere;
incontanente aggiunse che queste cose rade volte intervengono tutte
nelle nozze, e però il savio non dover prender moglie; percioché essa
innanzi all’altre cose impedisce lo studio della filosofia, né è alcun
che possa a’ libri e alla moglie servire.]
[Oltre a questo, è certo che molte cose sono opportune agli usi delle
donne, sí come sono i vestimenti preziosi, l’oro, le gemme, le serve e
gli arnesi delle camere. Appresso, dall’aver moglie procede che tutte
le notti si consumano in quistioni e in garrire, dicendo ella:—Donna
cotale va in publico piú onoratamente di me, e la cotale è onorata da
tutti, e io tapinella tra’ ragunamenti delle femmine sono avuta in
dispetto.—Appresso:—Perché riguardavi tu la cotal nostra vicina?
Perché parlavi tu con la cotal serviziale? Tu vien’ dal mercato, che
m’hai tu recato?—E, quello che è gravissimo a sostenere, quegli che
hanno mogliere, non possono avere né amico né compagno, percioché esse
incontanente suspicano che l’amore, che il marito porta ad alcuna altra
persona che a loro, sia in odio di lei. E, ancora, il nudrire quella
che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi
della ricca è gravissimo tormento. E aggiugni alle cose predette che
delle mogli non si può fare alcuna elezione, ma tale chente la fortuna
la ti manda, tale te la conviene avere; e non prima che fatte le nozze,
potrai discernere se ella è bestiale, se ella è sozza, se ella è
fetida, o se ella ha altro vizio. Il cavallo, l’asino, il bue, il cane,
e’ vilissimi servi, e ancora i vestimenti e’ vasi e le sedie e gli
orciuoli, si provan prima, e provati si comperano; sola la moglie non è
mostrata, accioché ella non dispiaccia, prima che ella sia menata.]
[Oltre a questo, poiché menata è, sempre si convien riguardare la
faccia sua, e la sua bellezza è da lodare, accioché, se alcuna altra se
ne riguardasse, ella non estimi di dispiacere; conviene che l’uomo la
chiami sua donna, che egli giuri per la salute sua, e che egli mostri
di disiderare che essa sopravviva a lui, e, oltre a ciò, piú che alcuna
altra persona d’amare il padre di lei, e qualunque altro parente o
persona amata da lei. E, se egli avviene, per mostrare che altri abbia
in lei piena fede, che alcuno le commetta tutto il reggimento e governo
della sua casa, è di necessitá che esso divenga servo di lei; e, se
per avventura il misero marito alcuna cosa riserverá nel suo arbitrio,
incontanente essa crederá e dirá che il marito non si fidi di lei, e,
dove forse alcuno amor portava al marito, incontanente il convertirá in
odio; e, se il marito non consentirá tosto a’ piacer suoi, di presente
ricorre a’ veleni o ad altre spezie della morte sua. Esse, il piú,
vanno cercando i consigli delle vecchierelle maliose, degl’indovini,
e, oltre a questi, introducono i sarti, i ricamatori e gli ornatori
de’ preziosi vestimenti, li quali, se il misero marito lascia nella
sua casa entrare e usare, non è senza pericolo della pudicizia; e, se
egli vieterá che essi non v’entrino, incontanente la moglie si reputa
ingiuriata, in ciò che il marito mostra d’aver sospeccion di lei. Ma
che utilitá è la diligente guardia, conciosiacosaché la non pudica
moglie non si possa guardare, e la pudica non bisogni? La necessitá è
mal fedel guardiana della castitá; e quella donna è veramente pudica,
alla quale è stata copia di poter peccare e non ha voluto. La bella
donna leggiermente è amata; la non bella leggiermente è disprezzata e
avuta a vile, e malagevolmente è guardata quella che molti amano, e
molesta cosa è a possedere quella la quale da tutti è disprezzata. Con
minor miseria si possiede quella la quale è riputata sozza, che non si
guarda quella la quale è riputata bella. Niuna cosa è sicura, che sia
da tutti i disidèri del popolo disiderata: percioché alcuno, a doverla
possedere, si sforza di dover piacere con la sua bellezza, alcun altro
col suo ingegno, e alcun con la piacevolezza de’ lor costumi, e certi
sono che con la loro liberalitá la sollecitano; e alcuna volta è presa
quella cosa la quale d’ogni parte è combattuta.]
[E, se per avventura alcuni quella dicono da dovere esser presa, e
per la dispensazion della casa, e ancora per le consolazioni che di
lei si deono aspettar nelle infermitá, e similmente per fuggire la
sollicitudine della cura famigliare: tutte queste cose fará molto
meglio un fedel servo, il quale è ubbidiente alla volontá del suo
signore, che non fará la moglie, la quale allora sé estima esser donna,
quando fa contro alla volontá del marito; e molto meglio possono stare
e stanno dintorno all’uomo infermo gli amici e’ servi domestici,
obbligati per li benefici ricevuti, che la moglie, la quale a noi
imputi le sue lagrime, e la speranza della ereditá, e, rimproverandoci
la sua sollecitudine, l’anima di colui ch’è infermo turbi infino alla
disperazione. E, se egli avverrá che essa infermi, fia di necessitá
che con lei insieme sia infermo il misero marito, e che esso mai dal
letto, dove ella giacerá, non si parta; e, s’egli avverrá che la
moglie sia buona e comportabile (la quale radissime volte si truova),
piagnerá il misero marito con lei insieme parturiente, e con lei
dimorante in pericolo sará tormentato. Il savio uomo non può esser
solo, percioché egli ha con seco tutti quegli che son buoni, o che
mai furono; ed ha l’animo libero, il quale in quella parte che piú
gli piace si trasporta, e lá dove egli non puote essere col corpo, lá
va col pensiero; e, se egli non potrá aver copia d’uomini, egli parla
con Domeneddio. Non è alcuna volta il savio men solo che quando egli è
solo.]
[Appresso, il menar moglie per aver figliuoli, o accioché ’l nome
nostro non muoia, o perché noi abbiamo alla nostra vecchiezza alcuni
aiuti e certi eredi, è stoltissima cosa. Che appartiene egli a noi,
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