Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 13

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molta», che alcuna dell’altre due le quali ha discritte, «E quella men,
che giaceva», supina, «al tormento», il quale appresso discriverá;
«Ma piú al duolo avea la lingua sciolta», cioè espedita. «Sovra tutto
il sabbion», cioè rena, «d’un cader lento, Piovean di fuoco dilatate
falde, Come di neve in alpe senza vento».
Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello
che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel
luogo; e dice: «Quali Alessandro», re di Macedonia, del qual di sopra
dicemmo piú distesamente, «in quelle parti calde D’India vide sovra lo
suo stuolo Fiamme cadere infino a terra salde».
Due province sono in Asia chiamate ciascuna India. È il vero che
l’una è detta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion
questi, che il mondo discrivono, che i confini della superiore sieno
col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata
da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di
Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma piú
occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro
macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora, per cosa la quale io abbia
letta o udita, non m’è assai certo dove quello, che l’autor discrive
qui, gli avvenisse, né se ciò gli avvenne per la natura del luogo
ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati sú in alto da’ raggi
solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro,
o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra
l’esercito d’Alessandro. E però, lasciando stare la istoria, la quale
io non so (come io abbia non una volta ma piú veduto Quinto Curzio, che
di lui assai pienamente scrive, e Guiglielmo d’Inghilterra e altri),
e riguardando all’effetto, possiam comprendere l’autor per questo
ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dello ’nferno
avvenía sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo
dannati sono.
Poi segue parole spettanti piú alla provvidenza d’Alessandro che
alla presente materia, se non in quanto dice che la rena s’accendeva
come esca, da quelle fiamme che sú vi cadeano: «Perch’e’ provvide»,
Alessandro, «a scalpitar lo suolo Con le sue schiere»; e questo
fece «accioché ’l vapore», acceso, che cadeva sopra la rena, «Me’
si stingueva», cioè spegneva, «mentre ch’era solo», cioè prima che
con l’altre parti accese si congiugnesse. «Tale scendeva l’eternale
ardore», quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto, «Onde la
rena s’accendea com’ésca Sotto fucile». D’assai cose e diversamente
si compone quella materia la quale noi chiamiamo «ésca», atta ad
accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco; e il fucile è uno
strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo
«focaie», fare, percotendole, uscir faville di fuoco. E l’accender di
questa rena avveniva, per «addoppiare il dolore» de’ miseri peccatori
che sú vi stavano.
«Senza riposo mai era la tresca». È la «tresca» una maniera di ballare,
la qual si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale vuol
qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e
però dice: «Delle misere mani»; e poi dimostra in che, dicendo: «or
quindi, or quinci», cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella,
«Iscotendo da sé l’arsura fresca», cioè il fuoco che continuamente di
nuovo piovea.
«Io cominciai:—Maestro». Qui comincia la terza parte del presente
canto, nella quale, poi che l’autore ha discritta la pena de’ peccatori
che quivi son dannati, ed esso domanda d’alcun di quegli dannati chi
el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte. Dice adunque: «Io
cominciai:—Maestro, tu che vinci Tutte le cose, fuor che i dimon duri,
Ch’all’entrar della porta», di Dite, «incontro uscinci». Dice questo
l’autore, percioché infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole
vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in
su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere
la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la
divina potenzia vince e matura, come di sopra è stato mostrato. «Chi è
quel grande, che non par che curi Lo ’ncendio», di queste fiamme, negli
atti suoi, «e giace dispettoso e torto», quasi non doglia senta del
tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, «Sí che la pioggia», delle
fiamme, che continuamente caggiano, «non par che ’l maturi»?—cioè
l’aumili.
«E quel medesmo, che si fu accorto Ch’io domandava il mio duca di lui,
Gridò:—Qual io fu’ vivo, tal son morto». Possonsi per le predette
parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi
e l’animo dell’ arrogante; e primieramente in quanto dice che giace
«dispettoso e torto», segno di stizzoso e d’orgoglioso animo, e poi
in ciò che egli non domandato rispose gridando: percioché sempre i
presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati, e, volendo
mostrare sé non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando;
e, oltre a ciò, confessando le lor medesime colpe, estimano di
commendarsi maravigliosamente. E perciò dice che egli è tal morto quale
egli fu vivo, cioè che, come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore
della divina potenzia, senza curarla, cosí dice che, ancora che dannato
sia e pruovi quanto sia grave il giudicio di Dio, s’è similmente
orgoglioso, superbo e bestiale.
E, per mostrare piú pienamente che cosí sia, segue: «Se Giove», cioè
Iddio, secondo l’opinione erronea de’ gentili, «stanchi» cioè infino
all’ultimo della lor forza fatichi, «i suoi fabbri, da cui», cioè
da’ quali, «Crucciato prese la fólgore acuta, Onde l’ultimo dí»,
della mia vita, «percosso fui»; percioché, come appresso si dirá, fu
fulminato: «O s’egli stanchi gli altri», fabbri, «a muta, a muta»,
cioè facendogli, poi che alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri,
e cosí que’ medesimi, poi che riposati fieno, né altro faccian che
folgori per ferirmi; «In Mongibello alla fucina negra», lá dove i
fabbri di Giove fabbricano le fólgori, le quali Giove fulmina; ed,
oltre a quegli, «Chiamando:—O buon Vulcano, aiuta, aiuta!»,—a’ fabbri
miei a far delle fólgori; «Siccom’el fece alla pugna di Flegra», nella
quale esso fulminò i giganti; «E me saetti di tutta sua forza», con
tutte queste fólgori le quali avrá fatte fabbricare; «Non ne potrebbe
aver vendetta allegra»,—del dispettarlo, che io feci, essendo io vivo.
[Ora a piú piena dichiarazion dare delle cose predette, è da sapere
che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto,
Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di rea! verga egli
portava nella destra mano una fólgore, la quale aveva tre punte, e con
questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva; e, oltre a ciò,
perché egli molte fólgori gittava, percioché assai erano i nocenti,
gli attribuiscono piú fabbri, e in diversi luoghi. E il principale di
tutti dicono esser Vulcano, iddio del fuoco, e sotto lui i ciclopi,
uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio,
nell’ottavo dell’_Eneida_, nomina tre, cioè Brontes e Steropes e
Piragmon, li quali tutti fabbricano fólgori, e nell’isola di Vulcano,
e in Etna (il quale volgarmente è chiamato Mongibello), e in altre
parti. Oltre alle predette cose, scrivono i poeti che una spezie
d’uomini chiamati «i giganti», di maravigliosa grandezza e statura di
corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani
(li quali Giove aveva uccisi, quando liberò Saturno, suo padre, e la
madre, della prigione di Titano), si levarono incontro al detto Giove,
e, per volergli tôrre il cielo, posero piú monti l’uno sopra l’altro,
e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove
combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli
fulminò e vinse, e in quella battaglia gittò molte fólgori; per la qual
cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi. E questo è quel che vuol
dire: «O s’egli stanchi gli altri a muta a muta», ecc.]
Ma in quanto dice questo superbo spirito che Iddio non potrebbe di
lui aver «vendetta allegra», si dee intendere secondo l’opinione di
colui che dice, percioché la bestialitá de’ blasfèmi è tanta, che essi
estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o
negano; non avveggendosi che in Dio non può cadere offensione alcuna, e
che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a
se medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia
è maggiore in punirgli, che le lor non sono in bestemmiarlo. È il vero
che, guardando alle cose temporali, che, considerata la eccellenza
d’uno imperadore e la bassezza d’un povero uomo, non pare lo ’mperadore
dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotal povero e
di basso stato offeso fosse; e secondo questo intendimento si deono
prendere le parole bestiali di questo spirito dannato, del quale è da
vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere,
secondo che Stazio scrive nel suo _Thebaidos_, che poi che Edippo, re
di Tebe, s’ebbe cacciati gli occhi e rifiutato il reggimento, Etiocle
e Pollinice, suoi figliuoli, vennero del reame in questa concordia,
che ciascun regnasse il suo anno, e, mentre l’uno regnasse, l’altro
andasse a star fuor del regno dove piú gli piacesse. Per la qual cosa
toccò il primo anno a regnare ad Etiocle, il quale era di piú dí, e
Pollinice se n’andò in esilio ad Argo; dove, ricevuto dal re Adrasto
e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il
regno secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto, il
re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei
altri re sopra i tebani, e quivi piú battaglie si fecero. Ed essendovi
giá stati morti quattro re, di quegli che con Adrasto andati v’erano,
avvenne un dí che, appressatisi alla cittá quegli che con Adrasto eran
rimasi, de’ quali era l’uno Campaneo, uomo di statura di corpo grande e
di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle
mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite
e grandissime pietre e travi e altre cose per vietargli il potere sopra
le mura salire; nondimeno, sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo,
tanta fu la forza sua, che egli pur vi salí, e, occupata una parte
del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo veduta nella
cittá, spaventò i tebani. E quivi, non bastandogli il dispettar gli
uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini,
levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii che
venissero a combatter con lui, dicendo:—O iddii, non è alcuna delle
vostre deitá, la quale ora adoperi per li paurosi tebani? o Bacco, o
Ercule, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso
chiamare alle mie battaglie i minori iddii: vien’ tu, o Giove, piú
tosto che alcuno altro: chi è piú degno di te d’occorrere alle mie
forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue! sfórzati con tutte le
tue folgori contra di me! tu se’ pur forte a spaventare le paurose
fanciulle co’ tuoni!—Le quali parole, e forse molte altre, mossero
gl’iddii a dolersi; ma Giove, ridendosene, cominciato il cielo a
turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo fólgori,
una ne cadde sopra Campaneo, della quale essendo il corpo suo tutto
acceso, stette in piede, e, conoscendo sé morire, guardava in qual
parte si dovesse lasciar cadere che piú offendesse, cadendo, i nemici:
e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua.
Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da
Virgilio detto gli fosse, dicendo: «Allor lo duca mio parlò di forza,
Tanto ch’io non l’avea sí forte udito,» parlare infino a questo
punto:—«O Campaneo, in ciò che non s’ammorza», cioè s’attuta per
martirio che tu abbi, «La tua superbia, se’ tu piú punito;» e soggiugne
la cagione: percioché «Nullo martiro», quantunque grande, «fuor che la
tua rabbia», con la quale, oltre al fuoco che t’affligge, tu ti rodi di
te medesimo, «Sarebbe al tuo furor dolor compito».—
«Poi si rivolse». Qui comincia la quarta parte del presente canto,
nella quale, poiché ha ammaestrato chi fosse questo grande, del quale
di sapere disiderava, per certe circunlocuziuni Virgilio piú pienamente
gliele dichiara. Dice adunque: «Poi», che cosí di forza ebbe parlato
a quello arrogante spirito, «si rivolse a me con miglior labbia»,
cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Campaneo cosí
superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso; «Dicendo:—Quel fu
l’un de’ sette regi Ch’assiser Tebe», cioè assediarono, come di sopra
è mostrato, «ed ebbe, e par ch’egli abbia Dio in dispregio, e poco par
che’l pregi; Ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti Sono al suo petto
assai debiti fregi». Impropriamente parla qui l’autore, trasportando,
_auctoritate poetica_, in dimostrazion d’ornamenti, quello che vuol che
s’intenda per accrescimento di tormenti; dice adunque che, come i fregi
sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre
il petto, cosí i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua.
«Or mi vien’ dietro». Qui comincia la quinta parte del presente canto,
nella quale l’autore discrive dove, ammonito da Virgilio, divenisse; e
dice: «Or mi vien’ dietro», senza piú ragionare di Campaneo, «e guarda
che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia», cioè inarsicciata
per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra: «Ma sempre al
bosco», del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, «fa’ li
tenghi stretti»,—cioè accostati.
[Lez. LIV]
«Tacendo divenimmo lá ove spiccia, Fuor della selva», cioè del
bosco predetto, «un picciol fiumicello, Lo cui rossore ancor mi
raccapriccia», cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando
veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la
sua rossezza, in quanto pareva sangue, e però il dice essere rosso,
perché si comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale
di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel
prossimo.
E appresso questo, per una comparazion di scrive la grandezza e ’l
corso di quello, dicendo: «Quale del bulicame», cioè di quello lago
bogliente, il quale è vicino di Viterbo, cosí chiamato, «esce il
ruscello», cioè un piccol rivo, «Che parton poi tra lor le peccatrici».
Dicono alcuni appresso a questo bulicame essere stanze, nelle quali
dimorano le femmine publiche, e queste, per lavare lor vestimenti, come
questo ruscello viene discendendo, cosí alcuna particella di quello
volgono verso la loro stanza. «Tal per la rena giú sen giva quello»,
che usciva fuori della selva. «Lo fondo suo ed ambo le pendici», cioè
le ripe, le quali perciò chiama «pendici» perché pendono verso l’acqua,
«Fatte eran pietra, e i margini d’allato», come nel presente mondo
fanno alcuni fiumi, sí come qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli
Sarno; «Per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici», dove le pendici
erano cosí divenute di pietra.
—«Tra tutto l’altro». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
nella quale Virgilio gli discrive l’origine de’ fiumi infernali,
dicendo:-«Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato, Posciaché noi
entrammo per la porta, Il cui sogliare a nessuno è negato», di poterlo,
entrando dentro, trapassare (e questo «sogliare» è quello della prima
porta dello ’nferno, sopra la quale è scritto: «Per me si va», ecc.),
«Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta», cioè veduta, «Notabil come lo
presente rio», che uscendo dalla selva qui corre, e «Che sopra sé tutte
fiammelle», di quelle che quivi continuamente piovono, «ammorta»,—cioè
spegne.
«Queste parole fûr del duca mio» (cioè quelle che dette sono, «Cosa non
fu», ecc.), «Per ch’io ’l pregai che mi largisse», cioè donasse, «il
pasto», cioè che egli mi facesse chiaro perché questo ruscello fosse la
piú notabil cosa che io veduta avessi per infino a qui in inferno: «Di
cui largito m’aveva ’l disio», cioè fatto nascer disiderio di sapere.
Per lo qual priego dell’autore, Virgilio incomincia a discrivergli
l’origine de’ detti fiumi, cosí:—«In mezzo ’l mar siede un paese
guasto,—Diss’egli allora,—che s’appella Creta».
Creti è una isola dell’ Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò
dice che ella siede in mezzo mare, perché ella è, sí come ogni altra
isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala «paese guasto», e
cosí è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, percioché
d’essa scrivono gli antichi che ella fu nobilissima isola, di molti
e nobili abitanti, di molte cittá, e fruttuosissima molto; e fu
dinominata Creti da un re, il quale ella ebbe, che si chiamò «Cres».
Oggi la tengono i vineziani tirannescamente, e hanno di quella cacciati
molti antichi paesani e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e
fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della
contrada.
E séguita: «sotto’ l cui rege fu giá il mondo casto». Séguita in
questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene che
Saturno fosse re di Creti; la qual cosa Evemero nella istoria sacra
mostra non esser cosí, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è
un monte altissimo in Macedonia. È ben vero che ella era sotto la sua
signoria, e perciò dice che sotto il re di questa isola fu il mondo
casto; percioché, come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu
il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non
è; e però dice Giovenale,
_Credo pudicitiam, Saturno rege, moratam
in terris_, ecc.
«Una montagna v’è», in questo paese guasto, «che giá fu lieta, D’acqua
e di frondi», sí come quella nella quale eran molte e belle fontane
e dilettevoli boschi, «che si chiamò Ida»; e cosí dallo effetto ebbe
il nome, percioché Ida vuol tanto dire quanto «cosa formosa e bella».
E qui è da guardare questa Ida non esser quella nella quale si legge
che Paris die’ la sentenza tra le tre dèe, peroché quella è una selva
vicina ad Ilione. «Ora è diserta», cioè abbandonata, «come cosa vieta»,
cioè vecchia e guasta. «Rea la scelse giá per cuna», cioè per culla,
volendo per questo nome intendere il luogo atto a dovervi poter nudrire
e allevare il figliuolo, sí come le nutrici gli allievano nelle culle;
«fida», cioè sicura, «Del suo figliuolo», cioè di Giove, il quale quivi
allevar fece nascosamente; «e per celarlo meglio, Quando piangea»,
questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna
allevare, «vi facea far le grida», cioè avea ordinato che, piangendo
il fanciullo, vi si facesse rom ore da coloro alli quali raccomandato
l’avea, accioché il pianto del fanciullo da alcun circunstante non
fosse udito né conosciuto.
[E, a piú dichiarazion di questo, è da sapere che, come altra volta
di sopra è detto, secondo che si legge nella Sacra istoria, che,
avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in
altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il
quale apparteneva a Titano, sí come a colui che di piú tempo era;
il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non glielo volle
dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle: per che venne Titano
a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi, ch’egli avesse
ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere; e in questa guisa
Titano, senza altra quistione, gli lasciò possedere il regno. Avvenne
che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis
e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorí e fece due figliuoli,
uno maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza
fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e
occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un
popolo, il qual si chiamava i cureti, il fece occultamente allevare. E
questi cureti, avendo solenne guardia del fanciullo, accioché alcuno
non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sé preso questo ordine
tra gli altri, che, quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni
battevano o gli scudi loro o bacini o altra cosa che facesse romore,
accioché il pianto non fosse sentito.]
E poi segue l’autore: «Dentro dal monte», Ida, «sta dritto un gran
veglio», cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio, «Che tien volte
le spalle inver’ Damiata»; Damiata è buona e grande cittá d’Egitto
posta sopra il fiume del Nilo; «E Roma guarda sí come suo speglio»,
cioè suo specchio; e cosí tien le spalle verso levante e il viso verso
ponente. «La testa sua», di questa statua, «è di fin òr formata, E puro
argento son le braccia e ’l petto», di questa statua, «Poi è di rame
fino alla forcata. Da indi in giú», cioè dalla inforcatura insino ai
piedi è tutto ferro eletto», cioè senza alcuna mistura d’altro metallo,
«Salvo che ’l destro piede», di questa statua, «è terra cotta», come
sono i mattoni; «E sta su quel, piú che ’n su l’altro», cioè in sul
sinistro, «eretto»; e cosí mostra si fermi piú in sul destro che in
sul sinistro, come generalmente tutti facciamo, percioché i membri del
corpo nostro, li quali sono dalla parte destra, hanno piú di vigore
e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, percioché la
bocca del cuore è vòlta verso il destro lato del corpo, e verso quello
versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il
calore del quale si crede essere cagion di piú forza a’ membri destri.
Poi séguita: «Ciascuna parte», delle predette del corpo di questa
statua, cioè quella ch’è d’ariento e quella di rame e quella di ferro e
quella che è di terra cotta, «fuor che l’oro», cioè eccettuata quella
che è d’oro, «è rotta D’una fessura che lagrime goccia», cioè gocciola,
«Le quali», lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua,
«accolte» insieme, «foran questa grotta», cioè quella terra, la quale
è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dello ’nferno. «Lor
corso», di queste lagrime accolte, «in questa valle», nella quale noi
siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, «si diroccia»,
cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per li
quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si
discende al profondo dello ’nferno: «Fanno», queste lagrime di sé,
cosí discendendo, «Acheronte», il primo fiume dello ’nferno, del quale
è detto di sopra nel primo canto; e fanno «Stige», cioè quella palude
della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto,
la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte; e
«Flegetonta», ancora fanno, il quale è il terzo fiume dello ’nferno,
e dirivasi dall’acqua la qual esce di Stige; e trovossi questo fiume
all’entrata di questo settimo cerchio, il qual l’autor discrive esser
vermiglio e bollire in esso la prima spezie de’ violenti. «Poi sen
va giú per questa stretta doccia», cioè per questo stretto ruscello
il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una
«doccia», per la quale, come assai è manifesto, qui si menano l’acque
prestamente d’una parte ad un’altra; e però è detta «doccia» da questo
verbo «_duco ducis_», il quale sta per «menare». Poi mostra questo
rivo andarne giú, «Insin lá ove piú non si dismonta», cioè infino al
centro della terra. E quivi «Fanno», queste lagrime, «Cocíto», un
fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dello ’nferno; «e qual sia
quello stagno», di Cocíto, il quale egli meritamente chiama «stagno»,
percioché piú avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non
hanno alcun movimento, e perciò son chiamate «stagno» da «sto stas», il
qual viene a dire «stare»; «Tu il vedrai», questo stagno, discendendo
noi giuso; «però qui non si conta»,—come fatto sia. Quasi come se gli
altri tre avesse discritti, il che egli non ha fatto; ma intende in
luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti, dove Cocíto ancora
veduto non ha.
«Ed io a lui:—Se ’l presente rigagno», cioè ruscello, il quale chiama
«rigagno» da «_rigo rigas_», che sta per «rigare», e questo rio rigava
la rena sopra la qual correva, «Si deriva cosí dal nostro mondo», come
tu mi dimostri, «Perché ci appar pure a questo vivagno?»—cioè in
questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi
maraviglio, conciosiacosaché egli l’abbia in piú parti veduto di sopra,
sí come manifestamente appare nella lettera e ancor nella dimostrazion
di Virgilio. E se alcun volesse forse dire: egli sono appariti i fiumi
nati da questo rigagno, ma non il suo diclinare; e questo ancora gli è
apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive che pervennero sopra
una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e
faceva poi la padule di Stige. E di questo io non so veder la cagione,
conciosiacosaché egli ancora il raffermi nella risposta, la qual
Virgilio gli fa, dicendo: «Ed egli a me:—Tu sai che ’l luogo è tondo»,
cioè il luogo dello ’nferno, come piú volte di sopra è dimostrato;
«E tutto che tu sia venuto molto», scendendo, «Pure a sinistra giú
calando al fondo, Non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto», di questa
ritonditá dello ’nferno: «per che se cosa n’apparisse nuova», nel
rimanente del cerchio, il qual tu hai ancora a volgere discendendo,
«Non dee addur maraviglia al tuo volto»,—come che per avventura
potrebbe addurre, se tu fossi vòlto per tutto il cerchio. Quasi voglia
dire: e però non ti maravigliare se ancora veduto non hai lo scender di
quest’acqua, percioché tu non eri ancora pervenuto a quella parte del
cerchio, della quale ella scende.
«Ed io ancor:—Maestro». Qui comincia la settima parte di questo canto,
nella qual, poi che Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro
fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio
gliele solve. Dice adunque: «Ed io ancor:—Maestro, ove si truova
Flegetonte e Letè?», li quali, secondo Virgilio e gli altri poeti, sono
similmente fiumi infernali, «ché dell’un taci», cioè di Letè, senza
dirne alcuna cosa, «E l’altro», cioè Flegetonte, «di’ che si fa d’esta
piova», cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure, le quali
sono nella statua predetta.
—«In tutte tue quistion certo mi piaci,—Rispose;—ma ’l bollor
dell’acqua rossa», il qual vedesti all’entrar di questo cerchio
settimo, «Dovea ben solver l’una che tu faci», cioè dove sia
Flegetonte. Conciosiacosaché Flegetonte sia interpretato «ardente»,
l’aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente
esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte.
«Letè», l’altro fiume del qual tu domandi, «vedrai, ma fuor di
questa fossa», dello ’nferno: percioché in questo si scosta l’autore
dall’opinione degli altri poeti, li quali tutti scrivono Letè essere
in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommitá del monte di
purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il
pongono in inferno; percioché essi il pongono l’ultimo fiume dello
’nferno, e dicono che, quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e
son divenute tali che, secondo la giustizia piú non ne deono sofferire,
esse vanno a questo fiume di Letè, e, beúta dell’acqua di quello,
dimenticano tutte le fatiche e noie passate, e quindi passano ne’
Campi elisi, li quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli
abitare l’anime de’ beati: e cosí l’autore il pone nella sommitá del
purgatorio, accioché l’anime purgate e degne di salire a Dio, prima
béano di quell’acqua, accioché ogni peccato commesso, ogni noia e ogni
fatica dimentichino; accioché, essendo poi nella gloria di Dio, il
rammemorarsi di quelle cose non désse cagione di diminuzione alla loro
beatitudine. E perciò séguita Virgilio, e dice:—Tu il vedrai, «Lá dove
vanno l’anime», dei purgati, «a lavarsi, Quando la colpa è ben tutta
rimossa»,—per la penitenza.
«Poi disse». Qui comincia la ottava ed ultima parte del presente
canto, nella quale, poi che alle sue quistioni è stato satisfatto,
ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada.
Dice adunque: «Poi disse:—Omai è tempo da scostarsi», scendendo o
procedendo, «Dal bosco», del quale di sopra è stato detto: «fa’, che
diretro a me vegne. Li margini», del ruscello, «fan via, ché non son
arsi», cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea, «E sopra loro
ogni vapor si spegne»,—di questi che piovono, e perciò vi si puote
senza cuocere andare.

II
SENSO ALLEGORICO
[Lez. LV]
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