Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 01

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NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.
—Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci
riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato
mantenuto nel terzo volume.


SCRITTORI D’ITALIA.
G. BOCCACCIO
OPERE VOLGARI
XIV

GIOVANNI BOCCACCIO


IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI
DOMENICO GUERRI
VOLUME TERZO
BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918

PROPRIETÁ LETTERARIA
GIUGNO MCMXVIII-49328

III
CONTINUAZIONE DEL COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”


CANTO NONO
I
SENSO LETTERALE

[Lez. XXXV]
«Quel color, che viltá di fuor mi pinse», ecc. Continuasi l’autore in
questo canto al precedente in cotal guisa: egli ha dimostrato davanti
come Virgilio, essendogli stata serrata la porta della cittá nel
petto, egli tornasse a lui con sospiri e con rammarichii; e dobbiam
credere che, per la turbazione presa di ciò, egli altro colore che
l’usato avesse nel viso; il qual colore nel principio di questo canto
dice l’autore che egli ristrinse dentro, veggendo lui per viltá aver
similmente mutato colore. E dividesi il presente canto in cinque parti:
nella prima delle quali, essendo l’autore per certe parole di Virgilio
entrato in pensiero, muove un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele
solve; nella seconda discrive come sopra le mura di Dite vedesse le
tre furie e udissele gridare; nella terza pone la venuta del Gorgone,
e come da Virgilio gli fossero gli occhi turati, accioché nol vedesse;
nella quarta discrive la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive
essere stata la porta della cittá aperta; nella quinta e ultima pone
come nella cittá entrassero, e quivi vedessero in arche affocate punire
gli eresiarche. La seconda comincia quivi: «E altro disse»; la terza
quivi:—«Volgiti indietro»; la quarta quivi: «E giá veniva»; la quinta
quivi: «E noi movemmo i piedi».
Dice adunque nella prima parte cosí: «Quel color, che viltá», cioè la
palidezza, «di fuor», cioè nel viso, «mi pinse, Veggendo il duca mio
tornare in volta». Estimava l’autore che i demòni, per le parole di
Virgilio, dovessono liberamente dar loro l’entrata, si come gli aveano
i demòni superiori lasciati scendere giú per quelle medesime parole;
ma, poi che vide Virgilio aver parlato invano e senza alcuno effetto,
quasi come vinto tornare in volta, invilí l’autore, temendo non gli
convenisse tornare indietro. E quando il cuore per alcuna passione
invilisce, ogni vigore esteriore ricorre a lui, e perciò conviene che
quelle cotali parti esteriori rimangano palide; la qual palidezza vuole
l’autor mostrare qui essere stata cagione di ristrigner dentro il
colore acceso, il quale Virgilio oltre all’usato avea nel viso, per la
turbazion presa: è questo, accioché il suo sembiante turbato non fosse
cagione all’autore di temere piú che bisogno non era. E però dice: «Piú
tosto», che fatto non avrebbe, «dentro», da sé, «il suo nuovo», cioè
nuovamente venuto per la turbazion presa, «ristrinse», mostrandosi meno
turbato che non era.
E quinci segue, e discrive un atto di Virgilio, nel quale Virgilio,
ancora in conforto dell’autore, si sforza di dimostrare d’aspettare
che venga chi’l faccia venire al di sopra della sua impresa, e dice:
«Attento si fermò, com’uom ch’ascolta»; nelle quali parole si può
comprendere Virgilio dovere immaginare quivi non dover venire il divino
aiuto senza farsi alquanto sentir di lontano; e perciò si mise, oltre
a questo, ad ascoltare, per «Che l’occhio nol potea menare a lungo»,
discernendo; e discrive la cagione: «Per l’aer nero», cioè tenebroso,
per lo non esservi alcuna luce, percioché l’aere di sua natura non
è d’alcun colore comprensibile dagli occhi nostri, «e per la nebbia
folta», cioè spessa, la qual surgeva del padule.
E cosí attendendo, cominciò a dire:—«Pure a noi converrá vincer la
punga»—d’entrar nella cittá, «Cominciò el», poi che fermato si fu ad
ascoltare:—«se... non... tal ne s’offerse». E qui lascia Virgilio
le sue parole mozze, cioè senza aver compiuto d’esprimere la sentenza
dell’orazion cominciata, seguendo il costume di coloro, li quali
ardentissimamente, aspettando, disiderano alcuna cosa; li quali, avendo
incominciato a dire alcuna cosa, senza compier di dirla, e talvolta
senza avvedersene, saltano in altre parole, per le quali il disiderio
loro dimostrano. E perciò all’orazione mozza di Virgilio, soggiugne
esso medesimo il disiderio suo, dicendo: «Oh! quanto tarda a me», cioè
al parer mio (percioché a chi molto disidera, non vien sí prestamente
il desiderio suo, che non gli paia che egli indugi molto), «ch’altri
qui giunga»—il quale abbatta l’arroganza de’ dimòni che la porta
serrarono, e a lor mal grado quella aprano. Estimava Virgilio veramente
dovere da Dio, per lo cui mandato egli era in quel viaggio, venire
alcuno, per la cui opera egli potessono entrare nella cittá.
«Io vidi ben, sí com’el ricoperse Lo ’ncominciar», cioè le parole
cominciate (quando disse:—«Se... non... tal ne s’offerse»—), «con
l’altro che poi venne» (cioè col dire:—«Oh quanto tarda a me ch’altri
qui giunga!»—), «Che fûr parole alle prime diverse», in quanto non
seguivano a quelle. «Ma nondimen», comeché egli ricoprisse, «paura il
suo dir dienne», cioè il suo non continuato parlare; e mostra l’autore
perché di ciò prendesse paura, dicendo: «Perch’io traeva la parola
tronca» (cioè «se... non... tal ne s’offerse), «Forse»; dice «forse»
perché ancora certezza non aveva di ciò che Virgilio s’avesse inteso
per le parole mozze; «a piggior sentenzia», cioè intendimento, «ch’e’
non tenne», il parlar mozzo. Estimava per avventura l’autore Virgilio
aver voluto intendere in quelle parole: «Pure a noi converrá vincer
la punga, Se... non... tal ne s’offerse», che, dove essi vincer
la punga non avesser potuto, che il prencipe dello ’nferno dovesse
punire Carone, Cerbero e Pluto, che sofferto aveano che essi infino
quivi discendessero, e che per questo turbati contro di loro i detti
dimòni non gli dovesson lasciar tornare a dietro, e cosí convenisse
loro quivi rimanere dove erano. E di questo entrò paura, per quelle
parole, all’autore, il quale credette Virgilio per ciò aver lasciato
l’orazion mozza, per non dargli materia di piú impaurire. Ma questa non
era la ’ntenzion di Virgilio, sí come poi apparve, anzi era: dove noi
non possiam «vincer la punga» dell’entrar dentro alla cittá, «tal ne
s’offerse», cioè Iddio, di lasciarci quaggiú scendere, che egli fará
sí che, malgrado de’ dimòni, noi passerem dentro; ma per la ragion
di sopra detta non compie’ l’orazione, sí come disideroso di quello
che le sue seguenti parole sonarono. Nondimeno per le parole dette da
Virgilio: «Oh! quanto tarda a me ch’altri qui giunga», entrò l’autore
in un dubbio, il quale egli muove a Virgilio dicendo:
—«In questo fondo della trista conca», dello ’nferno, il quale
nomina «conca», dalla similitudine che hanno alcune conche alla forma
essenziale dello ’nferno, il quale, come detto è, è ampio di sopra e
di sotto vien ristrignendo; «Discende mai alcun del primo grado», cioè
cerchio, «Che sol per pena ha la speranza cionca?»—Pon qui l’autore
il contenente per la cosa contenuta; percioché il cerchio non ha
alcuna pena egli, ma quegli, che in esso posti sono, hanno quella pena
la quale discrive al cerchio; cioè che essi, come in quella parte è
stato detto, hanno per pena il disiderare senza speranza, e cosí hanno
cionca, cioè mozza e separata da sé, la speranza. Ed è questo «cionca»
vocabolo lombardo, il quale appo noi non suona quello che appo loro,
percioché noi diremmo d’uno che molto bevesse: colui «cionca».
«Questa quistion fec’io», a Virgilio, che detta è; «e quei:—Di rado
Incontra»,—cioè avviene, «mi rispose,—che di nui», li quali nel primo
cerchio dimoriamo, «Faccia ’l cammino alcun pel quale io vado», cioè
discenda quinci giú. «Ver è, ch’altra fiata quaggiú fui», dove noi
siamo, «Congiurato», cioè per congiurazion sforzato, «da quella Eritón
cruda», cioè da quella femmina crudele cosí chiamata, «Che richiamava
l’ombre a’ corpi sui», per forza di suoi incantamenti.
Di questa Eritón scrive fiere e meravigliose cose Lucano nel sesto suo
libro, dove dice:
_Hos scelerum ritus, haec dirae carmina gentis,
effera damnarat nimiae pietatis Erictho,
inque novos ritus pollutam duxerat artem_, ecc.;
dove dice costei essere stata di Tessaglia, abitatrice di sepolcri, né
mai, se non o essendo il cielo turbato o di notte, essere usa d’uscire
in publico; dimostrando lei maravigliose forze avere intorno alle
incantazion de’ demòni e in far tornar l’anime de’ morti ne’ corpi
loro, e altre cose assai; affermando, oltre a ciò, a costei essere
andato Sesto Pompeo, figliuolo di Pompeo magno, per sapere quello che
esser dovesse della cittadina guerra, la quale era tra ’l padre di lui
e Cesare.
«Di poco», tempo dinanzi, «era di me», la qual fui e sono l’anima
di colui il quale fu chiamato Virgilio, «la carne nuda» la quale,
partendosi, avea lasciato il corpo ignudo di sé; «Ch’ella mi fece»,
questa Eritón, per forza de’ suoi incantamenti, «entrar dentro a quel
muro», della cittá di Dite, «Per trarne un spirto del cerchio di
Giuda», cioè della Giudecca, dinominata da Giuda Scariotto.
Vogliono alcuni dire che Cassio e Bruto, li quali furono de’
congiurati ad uccidere Giulio Cesare, essendo seguiti da Ottavian
Cesare, e dovendo combatter con lui, andarono, o vero mandarono,
a questa Eritón, per sapere quello che dovesse lor seguire della
battaglia; e che allora questa Eritón costrinse per incantamenti
l’anima di Virgilio ad andare a trar quello spirito, che qui dice,
del cerchio di Giuda. Ma ciò non può esser vero; percioché a quei
tempi Virgilio era vivo, e visse poi molti anni, sí come chiaramente
si comprende per Eusebio _in libro Temporum_; e, che istoria questa
si fosse, non mi ricorda mai aver né letta né udita, da quello in
fuori che di sopra n’è detto. [Oltre a questo, non pare a’ santi in
alcuna guisa si debba credere che alcuna anima dannata, e molto meno
l’altre, per alcuna forza d’incantamento si possa trarre d’inferno
e rivocare per cagione alcuna in questa vita. E se forse a questa
veritá s’opponesse molte essercene state giá rivocate per forza
d’incantamenti, e tra l’altre quella di Samuel profeta, il quale quella
pitonessa, a’ prieghi di Saul re, gli fece venire a rispondere di
ciò che gl’intervenne, ovvero che intervenir gli dovea; dico questo
essere del tutto falso; percioché i santi tengono quello non essere
stato Samuel, ma alcuno spirito immondo, il quale per la sapienzia, la
quale hanno, e per la destrezza ad essere in un momento dove vogliono,
compose quel corpo aereo, simile a Samuello, e, entratovi dentro,
diede quel risponso, il quale Saul credette aver da Samuello: e cosí
essere di tutti gli altri corpi, li quali si credono esser corpi stati
d’alcuni morti, e che in essi per forza d’incantamenti sieno rivocate
l’anime. E di questa materia, cioè degl’incantamenti, si dirá alquanto
piú stesamente appresso nel ventesimo canto, dove si chiariranno le
spezie de’ vari indovinamenti, che molti contro al mandato di Dio usano
scioccamente e in loro perdizione.]
«Quell’è il piú basso luogo», il cerchio dove è Giuda, «e ’l piú
oscuro», in quanto è piú lontano alla luce, «E il piú lontan dal ciel,
che tutto gira»: percioché alcuna parte non è, che tanto sia lontana
alla circunferenza, quanto è il centro; e il centro della terra, nel
quale è il cerchio dove è Giuda, sí tiene che sia il centro de’ cieli,
e cosí i cieli sono da intendere in luogo di circunferenza al centro
della terra, e cosí è il detto centro piú lontano che altra parte dal
cielo. E mostra voglia qui l’autore intender del cielo empireo, il
quale con la sua ampiezza contiene ciascun altro cielo.
«Ben so il cammin; però ti fa’ sicuro». Vuol qui l’autor mostrare,
per questa istoria da Virgilio raccontata, l’abbia Virgilio voluto
mettere in buona e sicura speranza di sé, della qual per paura pareva
caduto; e, oltre a questo, accioché l’aspettare ciò che esso Virgilio
aspettava, non paia grave all’autore, e per quello accresca la sua
paura, continua Virgilio il suo ragionamento, dicendo:
«Questa palude», di Stige, «che ’l gran puzzo spira», cioè esala: e in
questo dimostra la natura universale de’ paduli, li quali tutti putono
per l’acqua, la quale in essi per lo star ferma si corrompe, e corrotta
pute; e cosí faceva quella, e tanto piú quanto non avea aere scoverto,
nel quale il puzzo si dilatasse e divenisse minore. «Cinge d’intorno la
cittá dolente», cioè Dite, piena di dolore; e dice «d’intorno», onde
si dee comprendere le mura di questa cittá tanto di circúito prendere,
quanto in quella parte ha di giro la ritonda forma dello ’nferno, la
quale, come piú volte di sopra è detto, è fatta come un baratro; e cosí
stando, può essere intorniata dalla detta padule, percioché non será il
luogo pendente, ma equale, e cosí vi si può l’acqua del padule menare
intorno. «U’ non potemo entrare omai senz’ira»,—di coloro li quali
contrariare n’hanno voluta l’entrata.
«E altro disse». Qui comincia la seconda parte del presente canto,
nella quale discrive come sopra le mura di Dite vedesse le tre furie
infernali e udissele gridare. Dice adunque: «E altro disse», che quello
che infino a qui ho detto, «ma non l’ho a mente», quello che egli
dicesse altro. E pone la cagione perché a mente non l’abbia, la quale
è: «Peroché l’occhio», cioè il senso visivo, «m’avea tutto tratto»,
cioè avea tratto l’animo mio, il quale veramente è il tutto dell’uomo;
«Ver’ l’alta torre», la quale era in su le mura della cittá di Dite,
«alla cima rovente», di quella torre, la quale dimostra, per avere
ella la cima, cioè la sommitá, rovente, esser tutta dentro affocata;
«Ove», cioè in su la cima, «in un punto furon dritte ratto», cioè in
un momento, «Tre furie infernal, di sangue tinte, Che membra femminili
aveano ed atto», cioè sembiante, «E con idre verdissime eran cinte».
«Idra» è una spezie di serpenti li quali usano nell’acqua, e però
sono chiamati «idre» percioché l’acqua in greco è chiamata «_ydros_»;
e queste non sogliono essere velenose serpi, percioché la freddezza
dell’acqua rattempera l’impeto e il riscaldamento della serpe; nel
quale riscaldamento si suole aprire un ventriculo piccolo, il quale le
serpi hanno sotto il palato, e l’umiditá che di quello esce, venendo
sopra i denti della serpe, è quella che gli fa velenosi. Ma l’autore
pon qui la spezie per lo genere, volendo che per «idra» s’intenda
qualunque velenosissimo serpente.
«Serpentelli e ceraste avean per crine», cioè per capelli. E sono
«ceraste» una spezie di serpenti, li quali hanno o uno o due cornicelli
in capo; e da questo son dinominati «ceraste», peroché «_ceras_» in
greco tanto vuol dire quanto «corno» o «corna» in latino; «Onde», cioè
di ceraste, «le fiere tempie», di queste furie, «erano avvinte», cioè
circundate, in quella maniera che talvolta le femmine si circundano il
capo de’ capelli loro.
«E quei», cioè Virgilio, «che ben conobbe le meschine», cioè
le damigelle, «Della regina», cioè di Proserpina, «dell’eterno
pianto», cioè d’inferno, dove sempre si piagne e sempre si
piagnerá;—«Guarda,—mi disse,—le feroci Erine», cioè le feroci tre
furie.
E susseguentemente gliele nomina, e dice: «Questa è Megera, dal
sinistro canto», della torre; «Quella che piange dal destro», canto
della torre, «è Aletto», cioè quella furia cosí chiamata; «Tesifone»,
la terza furia,«è nel mezzo»—delle due nominate di sopra; «e tacque a
tanto», cioè poi che nominate me l’ebbe e fattelemi conoscere.
«Con l’unghie si fendea», cioè si graffiava, «ciascuna il petto;
Batteansi a palme», come qui fanno le femmine che gran dolor sentono o
mostran di sentire, «e gridavan sí alto, Ch’io mi strinsi», temendo,
«al poeta per sospetto».
E quello, che esse gridavano, era:—«Venga Medusa», quella femmina la
quale i poeti chiamano Gorgone, «e sí ’l farem di smalto»,—cioè di
pietra. È lo smalto, il quale oggi ne’ pavimenti delle chiese piú che
altrove s’usa, calcina e pietra cotta, cioè mattone, e pietre vive
mescolate e solidate con molto batterle insieme, quasi non men duro che
sia la pietra. «Dicevan tutte e tre gridando in giuso», o nella padule,
o verso lui;—«Mal non vengiammo in Teseo l’assalto»,—il qual ne fe’,
quando venne insieme con Peritoo per volere rapire Proserpina. E dicono
sé aver mal fatto a non vengiarlo, percioché, se vengiato l’avessono,
non si sarebbe poi alcun messo ad andare in inferno per alcun lor
danno; e cosí mostrano gridare e dire queste parole per l’autore, il
quale quivi vedevano vivo volere entrar nella cittá loro.
Ma chi sieno queste furie, chi sia Medusa, e che facesse Teseo, del
quale si dolgono non aver vengiato l’assalto, si discriverá pienamente
dove il senso allegorico si racconterá; fuor che di Teseo, il senso
della cui favola non ha a fare con la presente materia, e però di
lui qui diremo. Teseo fu figliuolo d’Egeo, re d’Atene, giovane di
maravigliosa virtú, e fu singularmente amico di Peritoo, figliuolo
d’Issione, signore de’ lapiti in Tessaglia; ed essendo amenduni senza
moglie, si disposero di non tôrne alcuna, se figliuola di Giove non
fosse. Ed essendo giá Teseo andato in Oebalia, e quivi rapita Elena,
ancora piccola fanciulla, non sapendosene in terra alcuna altra, se
non Proserpina, moglie di Plutone, iddio dell’inferno, a dovere rapir
questa scese con Peritoo in inferno; e, tentando di rapir Proserpina,
secondo che alcuni scrivono, Peritoo fu strangolato da Cerbero, cane
di Plutone, e Teseo fu ritenuto. Altri dicono che Peritoo fu lasciato
da Plutone, per amore d’Issione, suo padre, il quale era stato amico
di Plutone; ed essendo in sua libertá, e sentendo che Ercule tornava
vittorioso di Spagna con la preda tolta a Gerione, gli si fece incontro
e dissegli lo stato di Teseo; per la qual cosa tantosto Ercule scese
in inferno e liberò Teseo. E, percioché Cerbero avea fieramente morso
Carone, perché Carone aveva nella sua nave passato Ercule, la cui
venuta Cerbero s’ingegnava d’impedire; fu Cerbero da Ercule preso per
la barba, e da lui gli fu tutta strappata; e, oltre a ciò, incatenato,
ne fu menato quassú nel mondo da Teseo liberato da Ercule.
—«Volgiti indietro», ecc. Qui comincia la terza parte di questo
canto, nella quale, poi che l’autore ha dimostrato il romor fatto
dalle furie, e l’essere stata da loro chiamata Medusa, pone l’autore
la venuta di lei, e come gli occhi gli fossero da Virgilio turati,
accioché non la vedesse. Dice adunque:—«Volgiti indietro», accioché
tu non guardi verso le mura della cittá; e, oltre a ciò, «e tieni
il viso chiuso»; pon qui il tutto per la parte, in quanto, volendo
Virgilio che egli si chiudesse gli occhi, disse:—Tieni chiuso il
viso,—e dicegli la cagion perché: «Ché se ’l Gorgon», cioè Medusa
chiamata da queste furie, «si mostra» (dove esso si debba mostrare
nol dice), «e tu ’l vedessi. Nulla sarebbe del tornar mai suso»,—nel
mondo, percioché subitamente diventeresti sasso, e cosí non potresti
tornare né partirti di qui. «Cosí disse ’l maestro», come detto è, «ed
egli stessi Mi volse», indietro, «e non si tenne», cioè non si affidò,
«alle mie mani», che io con esse ben mi chiudessi, «Che con le sue
ancor non mi chiudessi», accioché io per niuna cagione potessi vedere
il Gorgone. Puossi per le prescritte parole comprendere che il Gorgone
si mostrasse, dove che si mostrasse, o vero che Virgilio suspicasse non
si mostrasse, essendo stato dalle furie chiamato, e perciò avere cosí
chiuso il viso all’autore; e, se si mostrò, che egli insieme con le
tre furie subitamente sparisse, sentendo venir quello che appresso si
scrive che venne.
«O voi, ch’avete gl’intelletti sani». Apostrofa qui l’aurore, e,
lasciata la principal materia, interpone, parlando a coloro li quali
hanno discrezione e senno, e dice loro: «Mirate alla dottrina, che
s’asconde Sotto ’l velame degli versi strani», la quale per certo è
grande e utile; e dove il senso allegorico si racconterá di questo
canto, apparirá manifestamente. [E fanno queste parole dirittamente
contro ad alcuni, li quali, non intendendo le cose nascoste sotto il
velame di questi versi, non vogliono che l’autore abbia alcuna altra
cosa intesa se non quello che semplicemente suona il senso litterale;
li quali per queste parole possono manifestamente comprendere l’autore
avere inteso altro che quello che per la corteccia si comprende.] E
chiama l’autore questi suoi versi «strani», in quanto mai per alcuno
davanti a lui non era stata composta alcuna fizione sotto versi
volgari, ma sempre sotto litterali, e però paiono strani, in quanto
disusati a cosí fatto stile.
[Lez. XXXVI]
«E giá venia». Qui rientra l’autore nella materia principale, e
comincia qui la quarta parte di questo canto, nella quale discrive
l’autore la venuta d’un angelo, per opera del quale scrive essere
stata la porta della cittá aperta, e dice cosí: «E giá venia», avendo
mi egli chiusi gli occhi, «su per le torbid’onde», di Stige, «Un
fracasso», cioè un rompimento, «d’un suon pien di spavento, Per cui
tremavano amendue le sponde», della padule. Ed era questo fracasso,
«Non altrimenti fatto, che d’un vento, Impetuoso» [da sé, come è il
turbo o la bufera, de’ quali è detto di sopra, dove vi dimostrai,
secondo Aristotile, come questi venti impetuosi si generano, li quali
vi dissi essere due, cioè _typhon_ e _enephias_, e però qui reiterare
non bisogna. Ed era questo vento sonoro] «per gli avversi ardori»,
cioè vapori o esalazioni, li quali surgono della terra; [li quali
chiama «ardori», percioché son caldi e secchi; e se cosí non fossero,
non farebbon suono. Ma era questo suono in tanto pieno di spavento,
in quanto si movea velocissimo con l’impeto del vento] «Che fier»,
questo vento, «la selva», alla quale s’abbatte [le cui frondi percosse
il fanno ancora piú sonoro,] «e senza alcun rattento», [e, oltre a
ciò] per la forza del suo impeto, «li rami», degli alberi della selva,
«schianta, abbatte e porta fuori» della selva talvolta. E, oltre a
questo, «Dinanzi», cioè in quella parte che precede, «polveroso va
superbo», cioè rilevato, «E fa fuggir le fiere», che nella selva sono,
«e li pastori» con le lor greggi.
«Gli occhi mi sciolse», dalla chiusura delle sue mani, «e
disse:—Drizza il nerbo Del viso», cioè il vigore del senso visivo,
«su per quella fiamma antica». Qual questa fiamma si fosse, per la
quale egli gli dimostra inverso qual parte riguardar debba, o alcuna di
quelle che all’entrar della nave di Flegiás vide, o altra, non si può
assai chiaramente comprendere. Credere’ io che ella fosse alcuna fiamma
usa continuo d’essere in quel luogo nel quale allora era; e questo
credo, percioché egli la chiama «antica», forse a differenza di quelle
delle quali dissi che nuovamente eran fatte. «Per indi onde quel fummo
è piú acerbo»,—cioè piú folto, sí come nuovamente prodotto.
«Come le rane». Qui dimostra l’autore, per una brieve comparazione,
quello che, guardando in quella parte, la quale Virgilio gli
dimostrava, facessero l’anime de’ dannati che quivi erano, e dice
che «Come le rane innanzi alla nimica Biscia per l’acqua si dileguan
tutte», fuggendo, «Fin ch’alla terra ciascuna s’abbica», cioè
s’ammonzicchia l’una sopra l’altra, ficcandosi nel loto del fondo
dell’acqua, nella qual dimorano. Dice qui l’autore la «nimica biscia»,
usando questo vocabol generale quasi di tutte le serpi, per quello
della idra, la quale è quella serpe che sta nell’acqua, e che inimica
le rane, si come quella che di loro si pasce. «Vid’io piú di mille
anime», cioè infinite, «distrutte», perdute, «Fuggir cosí», come le
rane ha mostrato che fuggono, «dinanzi ad un» (nol nomina, percioché
ancora nol conosceva, ma si vedea), «ch’al passo», di Stige, dove
esso era passato nella nave di Flegias, «Passava Stige con le piante
asciutte», cioè senza immollarsi i piedi.
E poi segue: «Dal volto rimovea quell’aer grasso», per li fummi e per
le nebbie che v’erano, le quali hanno a far l’aere grosso e spesso,
«Menando la sinistra» mano, percioché nella destra portava una verga,
si come appresso si comprende; «innanzi», da sé, «spesso». E in questo
dimostra l’autore quello aer grosso dovergli essere assai noioso; e ciò
non ci dee parer meraviglia, considerando chi egli era, e onde venía.
«E sol di quell’angoscia parea lasso», stanco e vinto.
«Ben m’accors’io ch’egli era da ciel messo». E di questo s’accorse
quando gli fu piú vicino, presumendolo ancora per l’anime de’ dannati,
che, nel venir suo, fuggendo si nascondevano, sí come quelle che
temevano di maggior pena, o che avevano in orrore di riguardarlo sí
come nemico; o ancora per lo fracasso, il quale davanti a lui avea
sentito venire, per lo qual poté conoscere tutto lo ’nferno commuoversi
alla venuta d’un messo di Dio. E, perché egli conobbe questo, dice:
«E volsimi al maestro», per sapere quello che io dovessi fare,
appressandosi questo messo da cielo; «e quei», cioè il maestro, «fe’
segno», a me, «Ch’io stessi cheto», passando egli, «ed inchinassi ad
esso», facendogli reverenza.
«Ahi quanto mi parea pien di disdegno!» nello aspetto suo. E questo
meritamente, percioché, come creatura perfetta e beata, non poteva far
senza sdegnare ciò che i demòni contro alla volontá di Dio attentavano.
[E qui assai manifestamente si può comprendere l’uomo potersi senza
peccare adirare, poiché l’angelo di Dio, il quale peccar non puote, era
commosso.]
«Giunse alla porta», serrata, «e con una verghetta», la quale nella
destra man portava, per la quale si disegna l’uficio del messo e
l’autoritá di colui che ’l manda. [E, secondo che i santi vogliono,
questo uficio commette Iddio a qualunque s’è di quelle gerarchie
celesti, fuorché a’ cherubini non si legge essere stato commesso: e
mentre che quello beato spirito è nell’esercizio dell’uficio commesso,
si chiama «angelo»; percioché «angelo» si dice da «_aggelos_» _graece_,
che in latino viene a dire «messaggiere»; poi, fornita la commessione,
non si chiama piú «angelo», ma reassume il suo nome principale, cioè
«vertú», o «potestá», o «troni» o qual altro s’abbia.]
«L’aperse, che non ebbe alcun ritegno». In questo si mostra la potenzia
di Dio, la quale, non che aprire una porta, quantunque forte, col
percuoterla con una verghetta, ma con un picciol cenno può commuovere
tutto il mondo.
—«O cacciáti». Qui pone l’autore le parole dette dall’angelo a’ nimici
di Dio, li quali si dee credere che quivi presenti non erano, sí come
quegli che per paura, sentendo la venuta di questo angelo, s’erano
fuggiti e dileguati: ma non potevano in quella parte essere andati, che
bene non udissono e intendessono ciò che questo angelo diceva contro
a loro. Dice adunque:—«O cacciáti dal ciel» per la lor superbia,
«gente dispetta»,—cioè avuta in dispetto da Dio, «Cominciò egli in su
l’orribil soglia», della porta la quale era aperta,—«Onde», cioè da
qual autoritá, «esta oltracotanza», di non aver riguardo a quello che
voi fate, «in voi s’alletta?», cioè si chiama e si ritiene. «Perché
ricalcitrate», col perverso vostro adoperare, «a quella voglia»,
di Dio, «A cui non puote il fin mai esser mozzo»; per ciò non può
esser «mozzo», cioè terminato, perché ad esso non si può pervenire,
conciosiacosaché Iddio sia infinito; «E che piú volte v’ha cresciuta
doglia?», rilegandogli nell’aere tenebroso, nel profondo dello ’nferno,
sí come è rilegato il Lucifero, il quale, perché volesse, non si può
muover quindi. «Che giova», a voi o ad altrui, «nelle fate dar di
cozzo?»
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