Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 17

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partendoci della presente vita, che un altro sia del nome nostro
nominato? Conciosiacosaché ancora il figliuolo non rifá il vocabolo
del padre, e innumerabili popoli sieno, li quali per quel medesimo
modo sieno appellati. E che aiuti son della tua vecchiezza, nutricare
in casa tua coloro li quali spesse volte prima di te muoiono, o sono
di perversissimi costumi, o, quando pervenuti saranno alla matura etá,
paia loro che tu muoia troppo tardi? Molto migliori e piú certi eredi
son gli amici e i propinqui, li quali tu t’avrai eletti, che non son
quegli li quali, o vogli tu o no, sarai costretto d’avere.]
[Cosí adunque Teofrasto confortò il savio uomo a prender moglie. Per
che assai manifestamente si può comprendere non sottomettersi a piccol
pericolo colui il quale a tôr moglie si dispone: il che, oltre a ciò
che da Teofrasto, possiam comprendere per l’esemplo del misero messer
Iacopo Rusticucci, il quale, per la perversitá della sua, ne mostra
essere incorso nella dannazion perpetua. Guardinsi adunque, e con gran
circunspezione si pongan mente alle mani, coloro li quali a prenderne
alcuna si dispongono, percioché rade volte s’abbatte l’uomo a Lucrezia
e a Penelope o a simiglianti; percioché, secondo che io ho a molti giá
udito dire, cosí come elle paiono il giorno nella via agnoli, cosí la
notte nel letto son diavoli.]

[Lez. LIX]
Poi séguita l’autore: «S’io fossi stato»; dove comincia la quinta
parte del presente canto, nella quale, poi che ha dimostrato chi queste
tre ombre sieno e ’l priego loro, dimostra quello che esso alle tre
ombre dicesse. Dice adunque: «S’io fossi stato dal fuoco coperto», che
non mi fosse potuto cadere addosso, «Gittato mi sarei», dell’argine,
«tra lor di sotto, E credo che ’l dottor l’avria sofferto»,
considerando che essi erano uomini da dovere onorare. «Ma, perch’io
mi sarei bruciato e cotto», gittandomi tra loro, «Vinse paura»,
ritenendomi, «la mia buona voglia, Che di loro abbracciar mi facea
ghiotto», cioè disideroso.
«Poi cominciai:—Non dispetto», che io abbia di vedervi, con tutto che
voi siate cosí cotti e pelati, «ma doglia La vostra condizion», ora
cosí afflitta, «dentro mi fisse, Tanto, che tardi tutta si dispoglia»,
cioè mai da me non si partirá. E questa cotal doglia si fisse in me,
«Tosto», cioè incontanente, «Che questo mio signor mi disse Parole, per
le quali io mi pensai, Che qual voi siete, tal gente venisse», cioè
degna d’onore. E le parole, le quali dice che Virgilio gli disse, son
quelle di sopra, dove dice: «A costoro si vuole esser cortese», ecc.
Poi che l’autore ha detto questo, rispondendo a ciò che messer Iacopo
aveva detto («E se miseria d’esto luogo sollo», ecc.), ed egli risponde
alla domanda fatta da loro, nella quale il pregano che dovesse lor
dire se egli era della lor cittá, e dice:—«Di vostra terra sono»,
cioè della cittá vostra, «e sembrami L’ovra di voi» laudevole (non il
peccato), «e gli onorati nomi», percioché veduti non gli avea, ma uditi
ricordare, «Con affezion ritrassi ed ascoltai», da coloro li quali
gli sapevano e che ne ragionavano. E, detto questo, dice loro quello
che va per quel cammin facendo: «Lascio lo fèle», cioè l’amaritudine
del mondo, o piú tosto quella amaritudine che per li peccati séguita
a coloro che del peccare non si rimangono; la qual cosa esso faceva,
dolendosi delle sue colpe e andando alla penitenza; e però segue: «e vo
pe’ dolci pomi», della beata vita, «Promessi a me per lo verace duca»,
cioè Virgilio (quando gli disse nel primo canto: «Ond’io, per lo tuo
me’, penso e discerno», ecc.); «Ma fino al centro», della terra, cioè
infino al profondo dello ’nferno, «pria convien ch’io torni»,—cioè
discenda. La cagione perché ciò gli convenga fare, è piú volte nelle
cose precedenti stata mostrata.
—«Se lungamente». Qui comincia la sesta parte del presente canto,
nella quale, poi che l’autore ha dimostrato quel che a lor rispondesse,
ed egli scrive una domanda fattagli da loro e la sua risposta, e
dice:—«Se lungamente», cioè per molti anni, «l’anima conduca Le membre
tue», cioè ti servi in vita—«rispose quegli allora», cioè messer
Iacopo,—«E se la fama tua dopo te luca»: per due cose lo scongiura,
disiderate molto da’ mortali, e da dover piegare ciascuno a dover dire
quello di che domandato è; «Cortesia e valor»: «cortesia» par che
consista negli atti civili, cioè nel vivere insieme liberalmente e
lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilitá; «valore» par
che riguardi piú all’onore della republica, all’altezza delle ’mprese,
e ancora agli esercizi dell’arme, nelle quali costoro furono onorevoli
e magnifici cittadini; «di’ se dimora, Nella nostra cittá, sí come
suole», quando noi vivevamo, «O se del tutto se n’è gita fuora», cioè
partitasi, senza piú adoperarvisi coma solea. E, detto questo, dice la
cagione che il muove a dubitare e a domandarne.
«Ché Guiglielmo Borsiere». Questi fu cavalier di corte, uomo costumato
molto e di laudevol maniera; ed era il suo esercizio, e degli altri
suoi pari, il trattar paci tra’ grandi e gentili uomini, trattar
matrimoni e parentadi, e talora con piacevoli e oneste novelle recreare
gli animi de’ faticati, e confortargli alle cose onorevoli; il che i
moderni non fanno, anzi, quanto piú sono scellerati e spiacevoli e con
brutte operazioni e parole, piú piacciono e meglio son provveduti. Poi
séguita: «il qual si duole Con noi per poco», cioè per una medesima
colpa, quantunque non molto continuata da esso; ma l’aver poche volte
peccato, sol che nel peccato si muoia, non menoma la pena; «e va lá
co’ compagni», da’ quali noi ci partimmo quando qui venimmo, «Assai ne
cruccia con le sue parole»,—dicendone che del tutto partita se n’è.
Soleva essere in Firenze questo costume, che quasi per ogni contrada
solevano insieme adunarsi quegli vicini, li quali per costumi e per
ricchezza poteano, e fare una lor brigata, vestirsi insieme una volta o
due l’anno, cavalcare per la terra insieme, desinare e cenare insieme,
non trasandando né nel modo del convitare né nelle spese: e cosí ancora
invitavan talvolta de’ lor vicini e degli onorevoli cittadini. E, se
avveniva che alcun gentiluomo venisse nella cittá, quella brigata
si riputava da piú, che prima il poteva trarre dell’albergo e piú
onorevolmente ricevere, E tra loro sempre si ragionava di cortesia e
d’opere leggiadre e laudevoli, E questo è quello di che costui domanda
se piú in Firenze s’usa, conciosiacosaché alli lor tempi s’usasse,
disiderando di saperlo dall’autore, comeché Guiglielmo Borsiere, il
qual visse sí lungamente, che mostra che a’ suoi tempi quella usanza
vedesse, e cosí ancora la vedesse intralasciata.
E a questa domanda fa l’autore la seguente risposta:—«La gente nuova,
e i súbiti guadagni, Orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in
te, sí che tu giá ten piagni.—Cosí gridai con la faccia levata».
Dice adunque che «la nuova gente», intendendo per questa coloro li
quali, oltre agli antichi, divennero abitatori di Firenze; e, sí come
io estimo, esso dice questo per molti nuovi cittadini, e massimamente
per la famiglia de’ Cerchi, li quali poco davanti a’ tempi dell’autore
erano venuti del Pivier d’Acone ad abitare in Firenze; e subitamente,
per l’esser bene avventurati in mercatanzie, erano divenuti
ricchissimi, e da questo orgogliosi e fuor di misura: e, percioché,
come altra volta è stato detto, erano salvatichetti, e poco con gli
altri cittadini comunicavano, e in questo avevano in parte ritratto
indietro il buon costume delle brigate; e, oltre a ciò, per la loro
alterigia avevano Firenze divisa, come davanti è stato mostrato, e
avevanla in sí fatta guisa divisa, che la cittá giá se ne dolea, in
quanto molti scandali e molti mali, e uccisioni e ferite e zuffe n’eran
seguite: la qual cosa l’autore, sí come colui al qual toccava, turbato
e col viso levato al cielo, quasi della pazienza di Dio dolendosi,
disse.
«E i tre», cioè quelle tre ombre, «che ciò inteser per risposta»,
fatta alla lor domanda, «Guatâr l’un l’altro, come al ver si guata»,
cioè turbati, dando piena fede alle parole.
—«Se l’altre volte». Qui comincia la settima parte di questo canto,
nella quale, poi che l’autore ha risposto alla lor domanda, ed egli
pone un priego fattogli da loro, e la lor partita, dicendo:—«Se
l’altre volte», che tu rispondi altrui, «sí poco ti costa», come al
presente hai fatto,—«Risposer tutti,—il satisfare altrui, Felice te,
che sí parli a tua posta! Però, se campi», cioè se esci, «d’esti luoghi
bui», cioè oscuri dello ’nferno, «E torni a riveder le belle stelle»,
su nel mondo, «Quando ti gioverá», cioè diletterá, «dicere: io fui»,
in inferno, «Fa’ che di noi alla gente favelle»,—non in dire come noi
siam qui in eterno supplicio per lo nostro peccato, ma come ne cale
dell’onore della nostra cittá, e duolci d’udire che cortesia o valor si
sia partita di quella.
«Indi rupper la ruota», cioè il cerchio che fatto avean di sé, come di
sopra è detto; e chiamala «ruota», percioché continuamente si rotavano
e volgeano; «e a fuggirsi», cioè in guisa d’uomini che fuggissero a
tornarsi alla loro schiera, «Ale sembiâr le gambe loro snelle», cioè
parve che volassero. «Un _amen_», questa dizione «_amen_», la qual si
dice in brevissimo tempo, «non saria potuto dirsi Tosto», da alcuno,
«cosí», prestamente, «com’ei furon spariti, Per che al maestro parve di
partirsi», poi s’eran partiti essi.
«Io il seguiva». Qui comincia la parte ottava di questo canto, nella
quale, poi che l’autore ha dimostrato le tre ombre essersi dipartite,
dimostra come, piú avanti procedendo, trovarono la caduta di quel
fiumicello, e dice: «Io il seguiva, e poco eravam iti», poi che quelle
tre ombre si partiron da noi, «Che il suon dell’acqua», la qual
cadeva nell’ottavo cerchio dello ’nferno, e però faceva suono, «n’era
sí vicino, Che per parlar», cioè per aver parlato, «saremmo appena
uditi», l’un l’altro. E, per dimostrare quanto era il suono che questo
fiumicello faceva cadendo, pone una comparazione d’una acqua che cade
discendendo dell’Alpi di San Benedetto, le quali si trovano andando per
lo cammin dritto da Firenze a Forlí.
«Come quel fiume, c’ha proprio cammino, Prima», che alcun altro, «da
monte Veso inver’ levante, Dalla sinistra costa d’Appennino». Monte
Veso è un monte nell’Alpi, la sopra il Monferrato, e parte la Provenza
dalla Italia, e di questo monte Veso nasce il fiume chiamato il Po.
Il quale in sé riceve molti fiumi, li quali caggiono dell’Alpi dalla
parte di ver’ ponente, e d’Appennino di ver’ levante, e mette in mare
per piú foci, e tra l’altre per quella di Primaro, presso a Ravenna;
e questa è quella che è piú orientale. E il primo fiume, il quale
nasce in Appennino, senza mettere in Po, andando l’uomo da Po inver’
levante, è chiamato, la dove nasce, Acquacheta; poi, divenendo al
piano presso a Forlí in Romagna, cambia nome, ed è chiamato Montone,
percioché impetuosamente corre e passa allato a Forlí, e di quindi
discende a Ravenna, e lungo le mura d’essa corre, e forse due miglia
piú giú mette nel mare Adriatico; e cosí è il primo che tiene «proprio
cammino», appresso a quello che scende di monte Veso. E dice l’autore
che egli viene dalla sinistra costa d’Appennino. Intorno alla qual
cosa è da sapere che Appennino è un monte, il quale alcuni vogliono
che cominci a questo monte Veso; altri dicono che egli comincia a
Monaco, nella riviera di Genova, e viensene costeggiando verso quel
monte ch’è chiamato Pietra Apuana, lasciandosi dalla sinistra parte il
Monferrato, e Torino e Vercelli, e dal destro tutta Lunigiana, e parte
della riviera di Genova; poi quivi, piegandosi alquanto, si lascia alla
sinistra Piagenza, Parma, Reggio e Modena, e alla destra o di ver’
mezzodí, Luni, Lucca e Pistoia; quindi, procedendo alla sinistra, si
lascia Bologna e tutta la Romagna e la Marca, e alla destra Firenze,
Arezzo, Perugia, e tutto il Patrimonio infino a Roma; poi, procedendo
oltre, si lascia alla sinistra Abruzzo, Terra di Bari, Puglia e Terra
d’Otranto, e dalla destra, Campagna, Terra di lavoro, il principato
di Salerno e parte della Calavria, infino al Fare; dalla sinistra
similmente ha parte di Calavria, venendo infino al Fare di Messina,
dove è tronco da Peloro, il quale è un monte in Cicilia, a fronte al
fine suo. Ora si chiama il lato destro di questo monte quello il quale
è volto inverso il mar Tireno, e quello che è volto verso il mare
Adriano è chiamato il sinistro; e questo, percioché, movendosi dal suo
principio dimostrato di sopra, e andando per quello verso il levante,
sempre porta la destra mano verso il mar Tireno, e la sinistra verso il
mare Adriano.
Dice adunque l’autore nello esemplo il quale induce, o comparazione che
dir la vogliamo: «come quel fiume», chiamato Montone, «c’ha proprio
cammino», peroché, avanti a questo, alcuno che ne nasca dalla sinistra
costa d’Appennino, non ha alcuno altro proprio cammino, sí come quegli
che tutti mettono, come detto è di sopra, in Po, e cosí per lo cammino
altrui, e non per lo loro, corrono al mare; «Prima», che alcun altro,
«da monte Veso inver’ levante», cioè di quegli fiumi che, poi che il Po
ha messo in mare, «Dalla sinistra costa d’Appennino». E vuolsi questa
lettera cosí ordinare: «Come quel fiume, c’ha prima proprio cammino
da monte Veso inver’ levante dalla sinistra costa d’Appennino, Che si
chiama Acquacheta suso», nel mondo, «avante Che si divalli giú nel
basso letto», cioè nel piano di Romagna, «Ed a Forlí di quel nome»,
Acquacheta, «è vacante», cioè privato, percioché non piú Acquacheta, ma
Montone è chiamato.
Forlí fu giá assai piú notabile terra che oggi non è, e chiamavasi
_Forum Livii_, percioché un consolo chiamato Livio, al quale era
toccata la Gallia cisalpina in provincia, quivi ordinò la corte sua a
dover tener ragione a quegli della provincia: comeché essi dicano lor
ciance d’una reina chiamata Livia, la qual non si truova che fosse _in
rerum natura_, e da quella dicono essere stata prima edificata la cittá.
«Rimbomba lá sovra San Benedetto Dell’Alpe, per cadere ad una scesa».
Questo fiume chiamato Acquacheta nasce nelle dette Alpi, in un luogo
chiamato l’Eremo, e, discendendo a guisa d’un fossato, giú cade non
guari lontano al monisterio di San Benedetto predetto, d’un balzo
giuso; e in quel cadere fa un gran romore, e massimamente quando a
tempo piovoso corre con piú acqua.
«Ove dovea per mille esser ricetto». Io fui giá lungamente in dubbio
di ciò che l’autore volesse in questo verso dire; poi, per ventura
trovatomi nel detto monisterio di San Benedetto insieme con l’abate
del luogo, ed egli mi disse che fu giá tenuto ragionamento per quegli
conti, li quali son signori di quella Alpe, di volere assai presso di
questo luogo, dove quest’acqua cade, si come in luogo molto comodo agli
abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate da torno
di lor vassalli: poi morí colui che questo, piú che alcun degli altri,
metteva innanzi, e cosí il ragionamento non ebbe effetto. E questo è
quello che l’autor dice: «Ove dovea per mille», cioè per molti, «esser
ricetto», cioè stanza e abitazione.
«Cosí giú d’una ripa discoscesa, Trovammo risonar quell’acqua tinta»,
di quel fiumicello, e far si gran romore, «Sí che ’n poca ora avria
l’orecchia offesa», percioché ’l troppo romore, a chi non è uso,
offende e noia l’udire.
«Io avea una corda intorno cinta, E con essa pensai alcuna volta»,
quando egli era smarrito nella valle, «Prender la lonza alla pelle
dipinta», quella bestia delle tre che ’l suo andare impediva. «Poscia
che l’ebbi da me tutta sciolta», cioè scinta, «Si come ’l duca
m’avea comandato», che io me la scignessi e dessigliele, «Porsila a
lui aggroppata ed avvolta. Ond’e’ si volse ver’ lo destro lato. Ed
alquanto di lungi dalla sponda», di quel fiumicello. «La gittò giú in
quell’alto burrato», cioè in quel fiume, il qual chiama «burrato» per
lo avviluppamento d’esso.
Per la qual cosa l’autor dice:—«Ei pur convien che novitá
risponda—Dicea fra me medesmo», veggendo quel che Virgilio
faceva,—«al nuovo cenno, Che ’l maestro con l’occhio si seconda», cioè
segue: percioché Virgilio, gittata la corda, stava atteso con l’occhio
sopra l’acqua, e questo faceva piú credere all’autore che novitá
dovesse rispondere.
«Ahi quanto cauti gli uomini esser denno», cioè deono, «Presso a color
che non veggion pur l’opra», manifesta, «Ma per entro il pensier miran
col senno!» In queste parole assai notabili, n’ammonisce l’autore e
ricordane con quanto avvedimento ci convenga stare appresso a’ savi
uomini; conciosiacosaché essi non solamente giudicano delle nostre
affezioni per le nostre evidenti opere, ma ancora con acuto e discreto
pensiero spesse volte s’accorgono de’ nostri disidèri. E queste parole
dice per quello che a Virgilio vede fare, il quale, per avviso con un
picciol cenno fatto con una corda, provocò a venire in publico a sé
quello che egli disiderava, cioè Gerione.
E questo nelle seguenti parole dimostra Virgilio all’autore, il qual,
seguendo, dice: «El disse a me:—Tosto verrá di sopra», a quest’acqua,
«Ciò ch’io attendo, e», ciò, «che ’l tuo pensier sogna», cioè non certo
vede, «Tosto convien ch’al viso tuo si scuopra», cioè si manifesti.
E, percioché quello, che seguir dee, pare all’autor medesimo una cosa
incredibile, avanti che a scriverlo pervenga, con parole escusatorie e
ancora con giuramento dimostra sé volentieri averlo trapassato senza
dire, se la materia l’avesse patito.
Dice adunque: «Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna», cioè che
somiglia bugia, come fa quello che dir debbo, «Dee l’uom chiuder le
labbra, quanto el puote», cioè tacerlo, «Peroché senza colpa», di cui
che ’l dice, «fa vergogna», a quel cotal che ’l dice; in quanto color,
che l’odono, si fanno beffe di lui, e dicono lui essere grandissimo
bugiardo.
«Ma qui tacer non posso», che io non dica questo vero che avrá faccia
di menzogna; quasi voglia dire: se io potessi, il tacerei; e appresso
questo, con giuramento afferma quello esser vero che esso dice che
vide: «e per le note, Di questa Commedia, lettor, ti giuro, S’elle non
sien di lunga grazia vôte». Il giuramento è in sustanza questo: se
io non dico il vero, che questo mio libro non duri lungamente nella
grazia delle genti. Il quale è molto maggior giuramento, quanto a colui
che il fa, che molti non stimano; percioché qualunque è colui che in
fatica si mette di comporre alcuna cosa, il primo suo disiderio è di
pervenire per quella composizione in fama e in notizia delle genti;
e, appresso, è che questa fama duri lungamente, né maggior cruccio
potrebbe avere che il poter credere la sua gran fatica dover brieve
tempo durare. Giura adunque per questo, come detto è, e dice: «per
le note di questa Commedia». «Note» son certi segni in musica, li
quali hanno a dimostrare quando e quanto si debba la voce elevare e
quando depriemere, li quali vedendo i cantori e l’ammaestramento di
quegli seguitando, vengono ad una concordanza nel canto: e cosí nella
presente _Commedia_ si posson dir «note» quelle parti estreme de’
versi, le quali, misurate di certe sillabe e lettere, si fanno intra
se medesime consonanti, sí come qui di terzo in terzo verso si vede. E
chiama l’autor qui questo suo libro _Commedia_, la quale è una spezie
di poesia; e percioché d’essa nel principio della presente opera fu
pienamente trattato, non curo qui di dirne piú avanti.
Poi l’autore, fatto il giuramento, dice quello che esso vide, e
continuandosi al giuramento precedente, dice: «Ch’io vidi per quell’aer
grosso», sí come pieno di vapor fetidi, li quali non avevano onde
svaporare di quel luogo, «e scuro», senza luce, «Venir notando una
figura in suso», per quel fiume, nel quale Virgilio aveva gittata la
corda; e dice che questa figura era «Maravigliosa ad ogni cuor sicuro».
Orribil cosa adunque doveva essere ed era, sí come esso medesimo
dimostra nel principio del seguente canto. Appresso per una comparazion
dimostra come questa figura notando venisse susa, e dice: «Sí come
torna colui», cioè quel marinaio, «che va giuso», al fondo del mare,
«Talvolta a solver», cioè a sciogliere, «l’áncora»: «l’áncora» è uno
strumento di ferro, il quale dall’un de’ lati ha piú rampiconi, e
dall’altro ha un anello, per lo quale si lega alla fune che il manda
giú nel fondo del mare, e di quello il ritira sú; «ch’aggrappa», cioè
piglia, «O scoglio od altro che nel mare è chiuso», cioè ascoso.
Usano i marinari quando vengono ne’ porti con li lor legni, accioché
il vento non li sospinga in terra, gittare in mare, nella parte
opposita alla terra, alcune ancore, e queste co’ rampiconi loro si
ficcano nel fondo del mare; ed essi poi quella sartia, con la quale
l’áncora è legata, legano alla nave, e cosí la nave è ritenuta da poter
discorrere in terra. Ora avvien talvolta che, non trovando l’áncora
fondo da potersi aggrappare, e il vento movendo la nave, questa ancora
seguendola, ara il fondo tanto, che per ventura ella truova o scoglio o
altro dove ella s’appiglia; e, quando questo avviene, volendosi con lor
legno partire i naviganti, non è molto agevole a riaver l’ancora, come
sarebbe se semplicemente nella rena o nella terra del fondo del mare
fitta si fosse. Conviene adunque che alcuno insino laggiú discenda, e
sviluppila da’ luoghi ove avviluppata è, accioché sÙ tirar si possa.
Li quali poi, insú ritornando, fanno l’atto il quale qui l’autor dice
che faceva questa fiera, sú venendo alla sommitá del fiume per lo segno
fatto da Virgilio. E l’atto di questo cotale dice che è: «Che ’nsu si
stende», con le braccia, dalla spessezza dell’acqua aiutato a ritirarsi
insú, quel facendo, «e da piè si rattrappa», cioè dalle parti del corpo
inferiori, le quali si raccolgono insú, e raccolte fierono la spessezza
dell’acqua, e quella gli presta aiuto a sospignerlo in alto.
L’allegorie le quali in questo canto sono, cioè il supplicio di quelle
anime dannate, con le quali l’autor mostra che lungamente parlasse,
sono una medesima cosa con quella, la quale è nel canto quindicesimo,
precedente a questo, e ancora con quella che è nel quattordicesimo;
delle quali, percioché d’una medesima qualitá sono con quella che
ancora è a recitare, e che è nel canto seguente, come altra volta di
sopra è detto, si riserva a dimostrare dove appresso della terza spezie
di coloro che a Dio e alle sue cose fanno violenza si tratterá: e però
qui non curo dirne alcuna cosa. Appresso, quello che nella fine del
presente canto si discrive della corda data a Virgilio dall’autore,
e dello animale che, per lo cenno da Virgilio fatto, venne sopra ’l
fiume, percioché ad un medesimo fine aspetta con quella fiera della
quale l’ autor tratta nel principio del seguente canto, per non fare
d’una medesima materia due diversi sermoni, riserverò a dire dove di
quella fiera diremo.


CANTO DECIMOSETTIMO

[Lez. LX]
—«Ecco la fiera con la coda aguzza», ecc. Il presente canto si
continua col precedente assai evidentemente, in quanto nella fine del
precedente ha dimostrato come, per lo segno fatto da Virgilio, vedesse
sotto l’acqua una figura, la qual notando veniva insú, cioè verso la
sommitá del fiume; e nel principio di questo dimostra questa figura
esser pervenuta a riva. E dividesi il presente canto in tre parti:
nella prima discrive la forma della figura venuta; nella seconda
dimostra l’afflizione degli usurieri; nella terza dimostra come, salito
sopra le spalle di quella figura, insieme con Virgilio fosse passato, e
trasportato del settimo cerchio dello ’nferno nell’ottavo. La seconda
comincia quivi: «Quivi ’l maestro»; la terza quivi: «Ed io, temendo».
Comincia adunque cosí:—«Ecco la fiera»; chiamala «fiera» dal suo
fiero e crudele effetto; «con la coda aguzza», cioè aguta e pugnente
piú che alcun ferro, «che passa i monti», cioè le durissime e grandi
cose, «e rompe i muri», della cittá e di qualunque fortezza, «e l’armi»
(_supple_) passa e rompe di qualunque fortissimo e ardito cavaliere;
«Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza»,—cioè corrompe e guasta col
suo iniquo è fraudolente adoperare. E dice «ecco» _demonstrative_,
percioché, allora quando Virgilio cominciò a parlare, giugneva questa
fiera sopra l’acqua del fiume dal lato loro. «Si cominciò», come
detto è, «lo mio duca a parlarmi». Poi dice: «Ed accennolle», poi che
cosí ebbe detto, «che venisse a proda», cioè sopra la riva del fiume,
«Vicino al fin de’ passeggiati marmi». Pon qui la spezie per lo genere,
cioè «marmi» per «pietre»: è il marmo, come noi veggiamo, una spezie
di pietra bianchissima e forte. E dice «passeggiati marmi», percioché,
passeggiando, eran venuti su per l’argine del fiume infin quivi; il
qual argine ha di sopra dimostrato che era divenuto pietra: vuol dunque
qui dire che Virgilio le fece cenno che ella venisse insino al luogo
dove essi, passeggiando, erano pervenuti.
«E quella sozza immagine di froda». Manifesta l’autore qui di che cosa
questa fiera fosse immagine, e dice che era «di froda»: la qual froda
che cosa sia si dimostrerá appresso. «Sen venne», per lo cenno fattole
da Virgilio, «ed arrivò», cioé mise sopra la riva, «la testa e ’l
busto», cioè il rimanente del corpo; «Ma ’n su la riva non trasse la
coda»; e cosí mostra che quella si rimanesse coperta nell’acqua.
«La faccia sua», di questa fiera, «era faccia d’uom giusto, Tanto
benigna», mansueta e piacevole, «avea di fuor la pelle», cioè
l’apparenza; «E d’un serpente» era «tutto l’altro fusto», della persona
di questa fiera. «Due branche», cioè due piedi artigliati, come
veggiamo che a’ dragoni si dipingono, «avea pelose infin l’ascelle»,
cioè infino sotto le ditella; «Lo dosso e ’l petto ed amendue le
coste», cioè tutto il corpo, fuor che la testa e ’l collo e la coda,
«Dipinte avea», ornate, come naturalmente hanno molti animali, «di
nodi», cioè di composti, li quali parevano nodi, «e di rotelle», di
figure ritonde.
«Con piú color sommesse e sopraposte», a variazion dell’ornamento, «Non
fer mai drappi tartari né turchi», li quali di ciò sono ottimi maestri,
si come noi possiam manifestamente vedere ne’ drappi tartareschi, li
quali veramente sono si artificiosamente tessuti, che non è alcun
dipintore che col pennello gli sapesse fare simiglianti, non che piú
belli.
Sono i tartari.........................
................................


IV
ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA “DIVINA COMMEDIA” DI DANTE ALIGHIERI


ALL’INFERNO

«Nel mezzo del cammin di nostra vita»,
smarrito in una valle l’autore,
e la sua via da tre bestie impedita,
Virgilio, dei latin poeti onore,
5 da Beatrice gli apparve mandato
liberator del periglioso errore.
Dal qual poi che aperto fu mostrato
a lui di sua venuta la cagione,
e ’l tramortito spirto suscitato,
10 senza piú far del suo andar quistione,
dietro gli va, ed entra in una porta
ampia e spedita a tutte persone.
Adunque, entrati nell’aura morta,
l’anime triste vider di coloro
15 che senza fama usâr la vita corta;
io dico de’ cattivi: eran costoro
da moscon punti, e senza alcuna posa
correndo givan, con pianto sonoro.
Quindi, venuti sopra la limosa
20 riva d’un fiume, vide anime assai,
ciascuna di passar volenterosa.
A cui Caròn:—Per qui non passerai!—
di lontan grida; appresso, un gran baleno
gli toglie il viso e l’ascoltar de’ guai.
25 Dal qual tornato in sé, di stupor pieno,
di lá da l’acqua in piú cocente affanno,
non per la via che l’anime teniéno,
si ritrovò; e quindi avanti vanno,
e pargoletti veggon senza luce
30 pianger, per l’altrui colpa, eterno danno.
Dietro alle piante poi del savio duce
passa con altri quattro in un castello,
dove alcun raggio di chiarezza luce.
Quivi vede seder sovr’un pratello
35 spiriti d’alta fama, senza pene,
fuor che d’alti sospiri, al parer d’ello.
Da questo loco discendendo, viene
dove Minós esamina gli entranti,
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