Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 3 - 20

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Toledo, il quale da tempo vien giudicato molto autorevolmente di mano
del Boccaccio (cfr. M. BARBI, _Vita Nuova_ di Dante, 1907, p. LIV
sg. per la descrizione del cod., e p. CLXXI sg. per la dimostrazione
dell’autografia). Chi paragoni la presente edizione col testo critico
di Fr. Macrí-Leone, vedrá quante lezioni risultino piú chiare e piú
persuasive, in grazia appunto del codice toledano.
Un’accurata revisione della punteggiatura, favorita anch’essa dal
manoscritto, ha pure aiutato in piú punti a raggiungere una piú esatta
interpetrazione del pensiero dell’autore.
Si è mantenuto all’operetta il titolo tradizionale di _Vita di Dante_.
Il codice toledano offrirebbe però questo titolo piú analitico: «_De
origine vita studiis et moribus clarissimi viri Dantis Aligerii
Florentini poëtae illustris et de operibus compositis ab eodem_»; e
un’espressione del _Comento_ (presente ediz., I, 118) condurrebbe a
intitolare l’operetta _Trattatello in laude di Dante_.
La suddivisione dei paragrafi è generalmente quella assegnata dal
citato codice.
Dei sottotitoli quelli che corrispondono alle partizioni adottate nelle
precedenti edizioni, sono riportati da queste o modificati; gli altri
son nuovi. Il Boccaccio non usò sottotitoli.
La grafia del ms. è stata rispettata fin quanto consentivano le norme
di questa collezione[1].


II
REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE

Il testo del cosí detto _Secondo compendio_ è riveduto sul cod. L. V.
176 della Biblioteca Chigiana, giudicato di mano del Boccaccio, come
quello toledano, e piú recente. A piè di pagina ho riportato dalla
eccellente edizione di E. Rostagno (_La Vita di Dante, testo del cosí
detto Compendio attribuito a_ G. B., Bologna, Zanichelli, 1899) quei
tratti che il cosí detto _Primo compendio_ ha in piú o di lezione
diversa. Son trascurate soltanto leggerissime differenze formali;
sicché il lettore trova in questa edizione le due redazioni, si può
dire, integralmente. Ho curato, dov’era possibile, che i capiversi
agevolino i riscontri tra queste redazioni e la _Vita_.
Ho stampato queste _Redazioni compendiose_ dopo la _Vita_, perché, come
si comprende dal titolo stesso che do loro, io preferisco all’ipotesi,
che fa di esse uno schema o traccia o primo getto della _Vita_, l’altra
che tende a dimostrarle stesura piú tarda, come piú tardo sarebbe
l’autografo chigiano, che contiene il _Secondo compendio_, rispetto al
toledano, che contiene la _Vita_[2].
Le differenze di contenuto, in quanto a sostanza biografica, dati,
giudizi e apprezzamenti sui casi e sull’opera di Dante, e le novitá di
distribuzione e di ordinamento della materia, non sono trascurabili; ma
non bastano a dare una fisonomia diversa al lavoro, la quale si delinea
assai nettamente per la omissione di esclamazioni, interrogazioni,
apostrofi, ripetizioni e simili luoghi tipici di rettorica scolastica,
che infiorano le pagine della _Vita_. Per via di tale sfrondamento,
che al Boccaccio non dovette costare alcuna fatica, mentre lo stile
lussureggiante della _Vita_ ci richiama ai romanzi giovanili, quello
dei _Compendi_ si riavvicina al _Comento_, ch’è opera degli ultimi anni
di lui.


III
COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»

Il testo è riveduto sui quattro codici fiorentini Magliabechiani II.
IV. 58 (M¹), II. I. 51 (M²)[3], VII. 1050 (S)[4] e Riccardiano 1053
(R)[5], tutti del principio del secolo decimoquinto. Non si è tenuto
conto del Magliab. VII. 805, che è una copia tratta da R dall’erudito
settecentesco Anton Maria Biscioni.
È materialmente sicuro che nessuno dei quattro codici è copia
dell’altro, perché le molte omissioni, che tutti presentano (e che si
spiegano quasi sempre pel ritorno della stessa parola a poche righe di
distanza nella stessa colonna), non hanno riscontro a volta a volta
negli altri tre.
M¹ e R presentano una maggiore conformitá esteriore, perché recano
chiose a margine e numeri progressivi delle lezioni, che mancano in M²
e S; ma l’insieme dell’analisi porta a credere che sian tutti e quattro
apografi di quel medesimo «originale», dal quale M¹ esplicitamente si
afferma copiato a p. 71, e al quale si riferisce M² a c. 27 r, col.
2ª, allo stesso proposito del precedente, cioè per giustificare come
la digressione sulla «fama» (pres. ediz., I, 215-217) non fosse stata
copiata a suo posto[6].
Altre prove piú o meno esplicite[7] dan modo di constatare che
l’«originale» presentava frequenti aggiunte in calce o a margine o
forse in intere pagine intercalate, le quali aggiunte non sempre
conformemente i vari codici hanno inserito a loro posto, e talun d’essi
ha talvolta trascurato.
Son tutti maravigliosamente scorretti, nei nomi, nelle date, nelle
citazioni latine, che l’amanuense di M², che sapeva poco di
grammatica, sopprime addirittura, o taglia, o riduce male in italiano.
La morfologia verbale e la fonetica son trattate individualmente a
capriccio. Eppure, nonostante ciò, l’assiduo, paziente e accorto
confronto dei quattro codici consente di ricostruire il testo
dell’«originale» con abbastanza genuinitá e fedeltá.
Senonché io mi sono dovuto persuadere che di tale «originale» i «24
quaderni» e i «14 quadernetti», ne’ quali il B. lasciò, morendo, la
contrastata ereditá delle sue lezioni di Santo Stefano di Badia,
rappresentano una parte soltanto. Tutto il resto, che estensivamente
può sommare a poco meno che altrettanto, è sviluppo di rimandi
al proprio scritto biografico su Dante, che il B. lasciò segnati
sull’autografo, e di altri consimili e piú numerosi rimandi alle
proprie opere di erudizione, interpetrati con larghezza eccedente il
proposito e con intelligenza inadeguata; è svolgimento di appunti
e compimento di ragionamenti avviati; sono chiose teologiche e di
dottrina chiesastica, per le quali non pare che il B. avesse né
competenza né gusto; son tratti cavati da Eusebio, da Giustino, dal
lessico di Papia e da altri volumi in uso nelle scuole; sono (e qui
segnatamente è caduta in inganno la critica di questo testo nostra e
straniera) pagine ricavate da altri commentatori di Dante, posteriori
al Boccaccio.
Una somma di prove e di indizi giustifica ed avvalora questa
concezione: chiose duplicate e contrastanti; brani che si inseriscono
senza alcun legame, tolti i quali il filo del ragionamento ripiglia;
errori di traduzione letteralmente meccanica attraverso le cattive e
spesso farraginose riduzioni dal De _genealogiis, De casibus virorum
illustrium, De claris mulieribus, De montibus, silvis, fontibus_;
altri volgari errori di traduzione e fraintendimento di testi quali
l’_Epistola a Can Grande_, articoli dell’_Elementarium_ di Papia,
ecc.; guasti dell’armonia della forma e alterazioni, scomposizione
e disorganizzazione del pensiero nelle pagine desunte dallo scritto
biografico su Dante[8]. Nel caso delle interferenze con altri
commentatori (che son poi il Buti, Filippo Villani e l’Anonimo
fiorentino), un’analisi stilistica non superlativamente difficile, né,
io credo, leggermente opinabile, porta a constatare che vi mancano
i modi e le forme del Boccaccio e vi si ritrovano invece i modi e
le forme di quegli altri scrittori, piú o meno alterate, piú o meno
peggiorate. Esempio tipico è quello del bravo e onesto Da Buti, che
nella pagina che cita dal Boccaccia sul nome di _Commedia_ (la qual
pagina nel testo del proemio del Boccaccio, quale ora è, non s’innesta
grammaticalmente, ma emerge per forma, per dottrina e per organismo di
pensiero), rimane, come doveva rimanere, inferiore al modello, mentre
ragiona meglio e in piú bei periodi nelle altre pagine che confrontano
e che non sono citate come desunte dal Boccaccio[9]. Filippo Villani
trasse dal _De Genealogiis_, com’egli attesta citandolo, molte
pagine e le ridusse ad uso di proemio al commento del primo canto
dell’_Inferno_; e queste, con altre sue pagine, si ritrovano nel
_Comento_, ch’egli non cita, e ch’è legittimo sospettare che non abbia
conosciuto mai direttamente, perché niente ne imparò. Le lezioni
errate dell’_Epistola a Can Grande_, che sono nel suo scritto[10],
si ritrovan pure nel _Comento_, con altri errori di versione che,
se dovessero essere imputati al Boccaccio, porterebbero a questa
conclusione: ch’egli, traducendo in italiano, non s’accorgeva di dire
spropositatamente pensieri consacrati in chiara dizione latina nella
sua maggior opera di cultura. Le pagine che raffrontano tra il proemio
dell’Anonimo (ch’è, si noti, uno scritto «composito» nettamente diviso
in due parti) e quello del Boccaccio, sono, direi, senza stile, le une
e le altre; potrá cercarsi se quelle raffazzonature (come la storia
di «guelfo e ghibellino» a pp. 51-53 del III vol.) derivino da una
fonte comune ad entrambi i testi.—Esaminando sui codici quei tratti
che per un motivo o per l’altro dánno piú grave ragione di sospetto,
si trova che le aggiunte materialmente comprovate e riconosciute
per dichiarazioni esplicite (vedi sopra) O per via di confronti
(omissioni e spostamenti) vi corrispondono tutte: e ciò vorrá dire che
nell’originale quei tratti non s’inserivano nel testo; e dove manchi
la prova materiale dell’aggiunta, si trova d’ordinario che quei tratti
son piú scorretti, con varianti piú frequenti, con una fonetica e
una morfologia piú del consueto irriducibili: la qual cosa stará a
significare o un’altra mano di scrittura nell’originale o per lo meno
una scrittura che riusciva per qualsivoglia cagione (perché piú minuta,
o piú trascurata, o interposta) meno nitida.
Sulla scorta di tal somma di prove e di indizii, scartate altre
ipotesi, io mi son formata la convinzione che allo stato presente del
testo del _Comento_ si sia arrivati attraverso due momenti costitutivi
ben distinti:
1º Autografo del Boccaccio, tal quale è presumibile che fosse nella
sua prima stesura, con le inevitabili correzioni, sostituzioni ed
aggiunte interlineari o a margine o in calce di uno scritto di primo
getto; e inoltre con molti rimandi ad altri scritti, specialmente
propri, con pensieri e ragionamenti svolti soltanto parzialmente o
accennati per tracce e sommari, dato che lo scopo era di preparazione a
pubbliche lezioni;
2º Integrazione del materiale di detto autografo (che s’è poi
risoluta in rimaneggiamento di molte parti, con grande accrescimento di
mole), eseguita con le qualitá di un ecclesiastico maestro di scuola,
non privo di cultura, ma scarso d’ingegno: un letterato mediocre.
Potrá o no dimostrarsi che costui fosse quello stesso frate, di cui
è fatto il nome nella rubrica iniziale di R: «Esposizioni sopra a
Dante per lo egregio dottore maestro Grazia dell’ordine di santo
Francesco»[11]. Potrá discutersi se le sue intenzioni siano state
oneste (e pur non commendabili!), quali io le credo, giudicando il
suo lavoro un esercizio letterario svolto con assiduitá, con ritorni,
forse in relazione con la sua professione d’insegnante. Difatti,
quant’è alle sue intenzioni, se nel testo del _Comento_, qual è
venuto a risultare dopo il rifacimento, si ritrovano noti ricordi
personali del certaldese, che non è ammissibile che questi sia tornato
a redigere in quella forma (avendoli altrove espressi nello stile suo
proprio); ci son pure altri ricordi personali che non possono essere
del Boccaccio, né a lui da un falsario, che non fosse del tutto sciocco
o dimentico, attribuiti. A p. 78 del vol. II di questa edizione si
legge: «E se io ho il vero inteso, percioché in que’ tempi io non
era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nell’anno pestifero
del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla
peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali de’ loro
amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—Vienne, tale
e tale—de’ quali chiamati e nominati, assai, secondo l’ordine tenuto
dal chiamatore, s’eran morti e andatine appresso al chiamatore». Or
qui scelga pure il lettore tra la lezione «non era» e quella «non
c’era», ammesse entrambi dai codici[12]; spieghi come vuole lo strano
errore, per cui, invece di 1348, vi si legge 1340: in definitiva dovrá
pur consentire che un falsario consapevole non poteva far dire al
Boccaccio di non essere ancor nato l’anno della peste, ovvero di non
essersi trovato in Firenze, in contrasto con la replicata affermazione
del _Decameron_ di aver visto «con i suoi occhi» quel che vi avvenne
in quell’anno[13]. Tal prova par che basti a scagionare maestro
Grazia, o chi altri sia, dall’accusa di aver falsato il Boccaccio per
trarre in inganno il lettore[14]. Costui, anche se nato dopo l’anno
della peste[15], poteva essere un uomo maturo sulla fine del ’300 e i
primi del ’400, cioè subito dopo Filippo Villani e l’Anonimo, quando
è presumibile che al manoscritto del Boccaccio toccasse la non lieta
sorte di un revisore e rifacitore.
Il manoscritto, ch’egli lasciò, sarebbe da ravvisare in quello
che Lorenzo Ubaldini[16] dice che «era giá in potere di Lorenzo
Guidetti mentovato nel suo poema dall’Ariosto», e ch’egli qualifica
per l’originale del Boccaccio. Giacché, se il Riccardiano 1053, che
porta lo stemma dei Gherardi, è parte della copia del ms. Guidetti,
che l’Ubaldini stesso dice posseduta da un altro fiorentino,
Lottieri Gherardi, e questa copia dá il testo integrato, se ne deve
concludere che il ms. Guidetti, insieme con l’autografo del Boccaccio,
conteneva l’autografo di maestro Grazia, e cioè che tutto il lavorio
dell’integratore venne fatto direttamente sull’originale boccaccesco.
In tal caso il codice riccardiano, come gli altri tre codici
fiorentini, sarebbero tutti apografi dell’originale boccaccesco e del
suo rifacitore allo stesso tempo.
L’esame ch’io ne ho fatto non esclude questa conclusione,
salvo la difficoltá materiale di frapporre e sovrapporre tanta
scrittura a pagine scritte, senza pensare a fogli qua e lá intercalati.
Sia chiaro tuttavia che anche se l’«originale» dei codici fiorentini
non conteneva l’autografo del Boccaccio, ma una trascrizione, e anche
se questa trascrizione fosse giá adattata alle esigenze del rifacimento
e conglobata con esso, i criteri da seguire per la condotta di
un’edizione del Comento permarrebbero in sostanza gli stessi.
Tornando dunque alla presente edizione, essa, prima di ogni altra cosa,
riproduce il testo qual è nei detti codici fiorentini, cioè il testo
integrato. L’ultima edizione, quella del Milanesi (Le Monnier, 1863),
sebbene sia molto migliore delle due precedenti (Napoli, Ciccarelli,
1724, con la falsa data di Firenze, e Moutier, 1831-2), e sia condotta
sugli stessi codici, sui quali è condotta la presente, non è degna
di un’opera che porta il nome del Boccaccio, come gli studiosi non
ignorano. Vi si trovano pagine infedelmente trascritte, con omissioni,
con parole fraintese, finanche con periodi che dánno un senso opposto
a quello che devono avere. Altre e piú numerose pagine appaiono
appena trascritte anziché interpetrate. L’interpunzione è quanto mai
disordinata. Il lettore, che vorrá esaminare parallelamente l’ediz.
Milanesi e la presente, di fronte a moltissimi tratti, si domanderá se
non siano cosa nuova.
Il Milanesi divise il _Comento_ in 60 lezioni; le edizioni precedenti
dividevano invece il testo in capitoli, secondo la successione dei
canti, e la piú parte dei capitoli in due parti, del senso letterale e
del senso allegorico.
Non vi può essere dubbio che l’intenzione dell’autore, come la vera
fisonomia del suo lavoro, è meglio rispettata dalle edizioni del
Ciccarelli e del Moutier, sulla fede dei codici. Difatti M¹, S e R
segnano in modo evidente la divisione e suddivisione per capitoli,
lasciando spazi in bianco e venendo a capo pagina, interponendo
rubriche o segnandole o ripetendole a margine e dando rilievo alle
iniziali. M² si contenta del capoverso e delle rubriche, che però sono
omesse talvolta[17].
Invece le note a margine, che segnano il numero progressivo delle
lezioni, sono riferite soltanto da M¹ e R; ma talune mancano, altre
non si corrispondono tra i due codici. In M¹ mancano i numeri 2, 7,
12, è ripetuto il 23 in luogo del 24, mancano 44, 45, 51, 52; in R,
per la parte del testo ch’esso contiene, mancano 23, 24, 26, 27, 29,
33-35, 45, 51, 53, 60; non si corrispondono i numeri 25 e 30. Dunque il
Milanesi, dividendo in lezioni il _Comento_ del Boccaccio, fece cosa
arbitraria, in quanto i codici non offrono gli elementi necessari e
sufficienti. Peggio ancora, diversi dei suoi inizi non corrispondono
con quelli segnati dai codici: p. es. l’inizio della lezione 43
dovrebbe esser segnato in corrispondenza al verso «La frode ond’ogni
coscienza è morsa», sulla fede di ambedue i codici; e l’inizio della
lezione 44 dove comincia la 43, sulla fede di R. D’altra parte, se si
riflette che la materia del commento è organicamente distribuita tra la
lettera e l’allegoria dei vari canti, la divisione in lezioni, anche
nell’ipotesi che l’abbia segnata il Boccaccio, sarebbe da giudicare
occasionale e secondaria; rammenterebbe quanta materia riuscí a
svolgere il B. di giorno in giorno, non giá rappresenterebbe il piano
dell’opera; anzi proverebbe che la stesura in iscritto riuscí piú volte
diversa dalla lezione parlata, dovendosi giustificare la sproporzione
ch’è tra lezioni di poche pagine ed altre che non finiscon mai. E
sarebbe, per giunta, piú d’una volta assai poco felice.
Insieme con l’edizione del testo del _Comento_, quale è dato dai
codici, io ho voluto tentare di ricuperare il testo vero del Boccaccio,
liberandolo dalle sovrapposizioni subite; e ciò col distinguere per
mezzo di semplici[18] quei tratti che, alla prova dei codici, dei
raffronti e dello stile, non giudico genuini. Parlo di tentativo,
perché, all’atto pratico, questo lavoro di eliminazione, ovvio in
alcuni casi, riesce in molti altri estremamente difficile e non dá
(né, con gli elementi di cui disponiamo, potrebbe darla) la piena
soddisfazione della certezza. Tra le altre difficoltá c’è questa: che,
quando le aggiunte non sono semplicemente giustaposte, ma conglobate,
ne restano mal sicuri i limiti, o sfuggono addirittura all’attenzione,
o possono soltanto ingenerare dubbi irresolubili. E nel caso di
riduzioni e rifacimenti da altre opere sue, in che guisa fissare il
punto dove la penna e la foga e il tempo e la disposizione di spirito
han tratto il Boccaccio a segnare un «_et caetera_»? Niente esclude
che ci siano nel _Comento_ pagine rifatte o tradotte direttamente dal
Boccaccio, accanto a pagine né tradotte né rifatte da lui stesso. E si
deve pure ammettere che brani che conservano la fisonomia di aggiunte,
tali fossero realmente nell’autografo del Boccaccia e di suo pugno.
Delle numerose biografie, quelle intorno a nomi mitologici, che sono le
piú frequenti e le piú sviluppate, provengono per la maggior parte dal
_De Genealogiis_; le bibliche è raro che presentino garanzie di stile,
e forse ho errato per eccesso di prudenza espungendone dal gruppo che
se ne legge nel IV Canto (Adamo, Abel, Noé, Moisé ecc.) solamente la
prima, sulla base dei raffronti col _De claris mulieribus_ (§ _De
Eva_); e cosí pure le altre biografie, di letterati, di principi, di
grandi peccatori, ecc. lasciano spesso molti dubbi o nell’insieme o
nelle parti. I miei dubbi irresoluti si estendono oltre: p. es., le
chiose svolgenti l’idea che Dante mostri compassione dei dannati quando
lo rimorde coscienza di essere incorso negli stessi falli, trovo che
sono tutte rescindibili: e, messe insieme, dánno una fisonomia morale
dell’Alighieri ben diversa da quella ch’è delineata nella _Vita_.
Tra le conclusioni piú certe, che dall’eseguito processo di
eliminazione si possono trarre, c’è questa: che il Boccaccio non
dettò un proemio al suo _Comento_. Sicuramente sue sono soltanto le
pagine sul nome di _Comedia_; forse è suo anche il primo periodo,
1’«esordio». Il rimanente è accozzato da altri commenti e da altre
opere boccaccesche. La mancanza del proemio si spiega pensando che
il Boccaccio abbia desunto le prime lezioni dal proprio scritto
biografico su Dante, e che, se volle discorrere della concezione pagana
dell’inferno e offrirne il quadro mitologico e poetico, si servisse del
_De Genealogiis_. Se tracciò appunti per riordinare e disporre a modo
di lezioni siffatta materia, ch’egli possedeva da gran signore, tali
appunti non paiono ormai ricuperabili attraverso il proemio composito
di maestro Grazia[19].
Cosí il testo del Boccaccio, sgombro del proemio non suo e liberato da
ìntromissioni e sovrapposizioni, ripiglia parte del decoro che dovette
avere, dettato da tanto maestro; molti ragionamenti riannodano le fila
spezzate; l’eloquenza fluisce con meno sbalzi ed intoppi; il pensiero e
la cultura dell’opera si risollevano all’altezza del nome ch’essa porta.


IV
GLI ARGOMENTI IN TERZA RIMA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI

I tre capitoli o ternari «ne’ quali il Boccaccio in forma poco o
punto poetica, ma sempre chiara e fedele al soggetto, e qua e lá
efficacemente sintetica, riassunse, o piuttosto stipò, la contenenza
delle tre cantiche dantesche»[20] si leggono autografi nel giá
ricordato codice Toledano, nel Chigiano L. VI. 213 e nel Riccardiano
1035, che sono stati tenuti presenti nella revisione del testo per
questa edizione.
Nel primo degli anzidetti codici la intitolazione è latina: _Argumentum
super tota prima parte Comediae Dantis Aligherii Florentini, cui
titulus est Infernus_, ecc.; negli altri due è volgare: _Brieve
raccoglimento di ciò che in sé superficialmente contiene la lettera
de la prima parte de la Cantica overo Comedia di Dante Alighieri di
Firenze di Giovanni Boccaccio_, ecc.[21].


V
LE RUBRICHE IN PROSA ALLA «DIVINA COMMEDIA» DI DANTE ALIGHIERI

Si leggono autografe nel codice Chigiano L. VI. 213, dove sono
distribuite in testa ai singoli canti, copiati dal Boccaccio con grande
accuratezza. Nel cod. giá Barberiniano 2191 ed ora Vaticano Barber.
lat. 4071, della fine del sec. XIV, si leggono tutte di séguito, con la
soscrizione «_Iohannes Boccacci de Certaldo Florentinus opus fecit_»;
e di séguito si leggevano in quel ms. del Cinquecento, donde furono
pubblicate, molto scorrette, nel 1843 a Venezia per la prima volta[22].
Queste rubriche dovettero godere assai per tempo buona riputazione, se
si pensò di trascriverle riunite come in un’operetta a sé, staccandole
dai canti ai quali dovevano andar congiunte. Esse «potranno parere
a chi non ne conosce altre delle antiche, una povera cosa, e certo
non sono, né possono essere, capilavori d’arte; ma a chiunque abbia
presenti quelle che di solito si leggono negli antichi codici della
_Commedia_ parranno di tanto superiori ad esse, di quanto, poniamo,
la struttura dell’ottava boccaccesca supera quella dell’ottava dei
cantastorie popolari. È manifesto l’intendimento, e notevole l’abilitá,
di compendiare e condensare con esattezza e chiarezza il contenuto
sostanziale di ogni canto; e, d’altra parte, la espressione rivela
assai spesso un particolare studio dell’eleganza; tutti pregi che
mancano alle altre rubriche dantesche di quei tempi, poco degne davvero
di Dante e del suo poema[23]».
Con la _Vita_ e le _Redazioni compendiose_, col _Comento_, gli
_Argomenti in terza rima_ e le _Rubriche in prosa_ vengono a
raccogliersi per la prima volta in un sol corpo tutti gli scritti che
il Boccaccio compose intorno alle vicende e alle opere del suo grande
concittadino. Tale raccolta non sarebbe stata possibile senza gli studi
precedenti del Rostagno, del Barbi e del Vandelli, giá additati in
questa _Nota_: qui ripeto i nomi di quegli insigni studiosi, perché
vada ad essi il merito che loro compete. In particolare esprimo la mia
riconoscenza a Giuseppe Vandelli per la cordiale larghezza con cui
egli ha messo a profitto di questa edizione la sua competenza e la sua
singolare preparazione sui testi boccacceschi intorno a Dante, de’
quali sono stati riconosciuti gli autografi. Pel testo del _Comento_,
che questa edizione presenta in modo affatto nuovo e insospettato
finora (con la necessaria conseguenza che la critica spesa attorno
a quest’opera debba essere in parte rivista), mi è giovato «ad ora
ad ora» manifestare le mie idee a Pio Rajna, a Francesco Torraca, ad
Ernesto Giacomo Parodi, a Francesco Flamini, ad Achille Pellizzari,
a Benedetto Croce, Cl. Paolo Savj-Lopez e ad altri maestri ed amici;
ma ciò sia detto senza preoccupare o prevenire il loro giudizio, che,
al pari di quello di ogni altro studioso, potrá esser definitivo
soltanto sull’esame del lavoro compiuto. Fausto Nicolini, tra gli altri
carichi, si è assunto quello di rivedere e rettificare la grafia e
l’interpunzione; e la fatica della correzione delle bozze l’ha divisa
molte volte con me, come cura familiare, Bianca Guerri Marcolongo,
che ha pure collaborato alla compilazione dell’_Indice dei nomi_, nel
quale, in servigio degli studiosi, ho voluto riportare le citazioni
degli autori, numerosissime nel testo del _Comento_ (ma desunte per
lo piú, in ispecie quelle dei classici, dal _De Genealogiis_ e dalle
altre opere boccaccesche di erudizione), sulla guida fidata di Paget
Toymbee[24].
Devo aggiungere che questo lavoro, per il quale non ho risparmiato
fatiche, è stato eseguito in condizioni assai sfavorevoli. Troncato
allo scoppio della guerra, fu ripreso durante una lunga convalescenza,
e condotto a termine tra il campo e la caserma, spesso senza alcun
sussidio di libri, senza i miei appunti. E in questo tempo perdetti
te, o Madre, che mi chiamavi al tuo capezzale nel giorno stesso in
cui io, spezzato il braccio e passato il petto da parte a parte tra i
reticolati sopra Polazzo, parvi dovere, secondo la legge di natura,
soccombere, e pur prolungasti le tue dure sofferenze sino a che non
giunsi a raccogliere l’ultimo bacio sulle tue labbra benedicenti. E
perdetti anche te, o Pietro, su cui l’agra morte sorvolò tante volte al
San Marco di Gorizia, per abbatterti contro le onde dell’Egeo, rigide
d’inverno, dal Minas infausto; te, o Fratello, di cui quattro bimbi
aspettano ancora le conosciute carezze. Nella memoria vostra, o Madre,
o Fratello, do termine a queste pagine, di cui nessuna s’è chiusa senza
un pensiero per Voi.

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